Tra i tanti registi che hanno arricchito la storia del cinema italiano e la sua considerazione nel mondo, ce ne sono alcuni di cui, almeno fino a qualche tempo fa, non veniva ricordato neanche più il nome nel nostro paese, uno di questi è sicuramente Vittorio Cottafavi.
Attivo per più di quarant’anni, Cottafavi rappresenta uno degli esponenti più significativi di quel cinema, purtroppo definitivamente scomparso, comunemente denominato sotto la riduttiva etichetta “di genere”. Iniziata agli albori degli anni ‘40 e terminata alla fine degli ‘80, quella del regista, fu una carriera segnata da un percorso che potremmo definire “alternativo”; fra i tanti titoli firmati, non tutti, certo, possono considerarsi di valore, ma non vi è dubbio però che, la maggior parte di essi, ha rappresentato una svolta definitiva e nobilitante per quei territori cinematografici considerati sino ad allora come marginali. «Maestro del cinema popolare con insospettabili guizzi sperimentali» (Mauro Gervasini, Il conquistatore dell’immagine, in “Filmtv” n. 88, 2006), Cottafavi era nato a Modena nel 1914, dopo aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia, esordì prima come sceneggiatore per poi passare dietro la macchina da presa nel 1942. Fautore di un cinema profondamente diverso dall’allora vincente Neorealismo, quello di Cottafavi rappresentò, sin dall’inizio, una delle poche e valide risposte che la produzione cinematografica italiana del tempo, diede con successo a quella americana.
Il rapporto con la realtà, quella quotidiana e spesso aspra che caratterizzava sia pure con poesia il neorealismo, non trovava concorde il regista, che amava invece complesse strutturazioni sceniche ed epopee nella narrazione di vicende storiche. Inseguendo dunque la vocazione di un cinema il più possibile spettacolare, Cottafavi fu pertanto uno degli autori più validi nel mettere in scena, in Italia, entusiasmanti rappresentazioni, là dove, avventure epiche, drammi storici e scenografie fantastiche, rappresentarono l’inedita strada cinematografica battuta con originalità e sicurezza.
Estremamente colto ma allo stesso tempo schivo e restio ad ogni forma di celebrità, Cottafavi divise sin dagli esordi la critica cinematografica. Così, se gli italiani dimostrarono sempre poca riverenza per le sue opere e le sue idee a riguardo, furono invece i francesi a dimostrarsi attenti conoscitori e ferventi sostenitori. Libera da ogni forma di classificazione ipocrita e limitativa, la critica francese fu capace di cogliere la forza innovatrice delle sue opere, una forza scaturita da una concezione espressiva, dove l’energia dello spettacolo si costruiva sapientemente, attraverso una mistura fatta di ascendenze cinematografiche, artistiche ma soprattutto letterarie.
Dunque con Cottafavi il cinema italiano percorre un’esperienza nuova, e non già per i tanti temi affrontati (basti ricordare che il cinema italiano degli anni ‘10 e ‘20 aveva portato sugli schermi prodotti storici o favolistici e senza dimenticare che negli anni ‘40 un autore come Alessandro Blasetti firmava titoli come La cena delle beffe e La corona di ferro), quanto invece per quella capacità di imbastire una messa in scena dove l’antinaturalismo teatrale del tanto cinema analogo, lascia spazio ad una impostazione fatta di respiri scenici ampi e del tutto antitradizionali.
È questa la scelta che muove Cottafavi, questa volontà ben precisa che lo vede difatti collocarsi quasi in una posizione isolata, un esilio pubblico che si sovrappone a quello dell’autore, una collocazione alta che paradossalmente sembra riflettersi come bassa.
Rileggendo la sua filmografia è evidente infatti una passione per il cinema che non disdegna nessun genere; è stato certamente un Maestro dell’avventuroso, ma se ha consacrato al peplum alcuni dei suoi più grandi successi, non è corretto ridurre a questi due filoni il suo apporto al cinema italiano. Se non ha ritenuto nessun soggetto indegno del suo genio e ha sempre escluso un’idea cerebrale del cinema, non bisogna tuttavia pensare che egli abbia lavorato su commissione, negandogli invece quella coscienza dell’arte che è propria dei grandi creatori. Il meglio della sua opera spicca infatti nell’affresco storico, ma poiché spesso ha preferito soggetti capaci di prestarsi alla ricostruzione, è stato classificato per troppi anni alla stregua dei tanti autori di opere avventurose in costume, dimenticando invece che, rispetto agli altri, alcuni dei suoi sceneggiatori si chiamano Dumas (Il boia di Lilla, Traviata ‘53) Molière (L’avaro), Ibsen (Casa di bambola), Conrad (La follia di Almayer) e persino Shakespeare (Antonio e Cleopatra).
È nell’ambito del filone storico-avventuroso che Cottafavi sembra distinguersi maggiormente dal cinema equivalente del periodo, egli stesso in uno scritto di qualche anno fa teorizzava in proposito: «il filone [del film storico] è sorto dalla considerazione commerciale di presentare personaggi la cui fama attraverso la scuola, gli studi e le leggende era largamente diffusa presso il pubblico: questo fatto, che veniva considerato un richiamo, comportava però l’errore di rendere protagonisti esclusivamente i personaggi storici. La storia è costituita sì da coloro che l’hanno fatta, ma anche da coloro che l’hanno subita, cioè la gente normale […]. Quando affrontiamo uno spettacolo storico, dobbiamo inserirci tra i personaggi come testimoni dell’evento. Mi appellerei per questo alle teorie del teatro brechtiano dove gli spettatori diventano giudici dell’avvenimento e ne traggono considerazione di ordine morale, sociale, politico, e in ultima analisi direi religiosa – Cottafavi sottolinea inoltre che – questo procedimento è effettivamente difficile nel cinema perché il mezzo storico della narrazione ci porta a una identificazione con gli eroi della vicenda – e conclude ricordando come – ogni volta che fu fatto il tentativo di seguire le modalità brechtiane, lo spettatore non lo ha gradito, è questa è una delle sue colpe» (Vittorio Cottafavi, Eroi e diseredati, in «Inventare il vero», 1989).
Da tali modalità nasce il film più autorevole del regista, I cento cavalieri. Realizzato in Francia nel 1964 il film applica appieno la lezione cottafaviana appena citata, restituendo un’opera cinematografica di forte impatto contenutistico e spettacolare. Originale prova capace di trasformare un film storico in una sagace parabola brechtiana sulla guerra e il potere, I Cento Cavalieri è ad oggi il miglior film d’avventura, non solo del regista, ma di tutto il cinema italiano e il suo miglior pregio è contenuto espressamente in quel tratto che spinse invece il pubblico “immaturo” dell’epoca a rifiutarlo: una scelta narrativa che, impedendo allo spettatore ogni facile identificazione con i personaggi, abbandona ogni possibilità di orientamento o di affrancamento, scardinando così tutte le regole del genere e rinnovandosi ad ogni svolta della trama. Contrassegnato da un notevole ritmo e da acute invenzioni figurative, il film fu un totale insuccesso commerciale e spinse Cottafavi all’abbandono del cinema per dedicarsi esclusivamente alla televisione. Anche per la Tv Cottafavi girò molti capolavori come Maria Zef, Il taglio del bosco, Le Troiane di Euripide, Operazione Vega, I Racconti di Padre Brown, A come Andromeda.
Ed in un nuovo clima di revisione, lungi da impellenti condizionamenti di ogni ordine, anche la figura di Cottafavi viene rivisitata ed il riconoscimento della sua anima appassionata, della sua fervida fantasia, della sua audacia narrativa, vengono alla luce. Ciò che era sfuggito, lentamente riaffiora, e così con coraggio studiosi come Stefano Della Casa, Enrico Ghezzi e persino un “regista impegnato” come Gianni Amelio (nell’ambito del programma speciale 15×15, patrocinato dalla Comunità europea, che ha chiesto a 15 registi di indicare un film da restaurare del proprio paese, Gianni Amelio ha scelto per l’Italia Le legioni di Cleopatra di Cottafavi), risvegliano i ricordi passati cercando di recuperare il tempo perduto. Certo, un tempo che sfortunatamente non può essere vissuto dal cineasta in questione, ma che tuttavia, nelle parole e nelle immagini di chi ha amato e ama ciò che ormai appartiene solamente a pochi, rivela una potenza e una passionalità lavorativa che è, mai come in questo momento, grande scuola per il nostro cinema.
Bibliografia consultata
Gianni Rondolino, Vittorio Cottafavi. Cinema e televisione, Cappelli editore, Bologna 1980
Francesco Bolzoni, Mario Foglietti, Le stagioni del cinema: trenta registi si raccontano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000