Speriamo che non tocchi ai posteri la sentenza su nessuno dei grandi animi che li hanno preceduti. Di solito i posteri non sono all’altezza del giudizio e talvolta nemmeno dell’eredità. Soprattutto quando non si tratta di un napoleone qualunque, di quelli che peggiorano la storia invece che migliorare la società, ma di persone più alte e pure, più coraggiose e generose, che poi quando muoiono – come si dice proverbialmente – sono i migliori che se ne vanno. Di solito si tratta di artisti o sapienti o santi, e qualche volta li caratterizza una miscela per quanto è possibile armonica fra le tre professioni di vita e di fede. Aldo Capitini è stato un religioso, un educatore e un poeta. Una figura di importanza nazionale e di livello internazionale, ma – nel piccolo della città di Perugia e per il tempo del breve secolo scorso (peraltro “ancora in corsa”, visto che il nuovo millennio stenta ad affermarsi) – Capitini è stato il principale protagonista della cultura e della politica, oltre ad essere stato – e ad essere ancora con ogni certezza – il più intelligente e buono di tutti noi, suoi concittadini.
Dopo la sua scomparsa, salutata al cimitero da poche decine di persone e da un manipolo sparuto di studenti (nel ’68, anno di grazia degli studenti!), la città è stata incerta sul dirsi e il da farsi, conscia dell’importanza di questo suo figlio, ma anche memore di non essergli stata troppo vicina. O forse sarebbe meglio dire, non troppo “aperta”. E però, da quasi subito e per tutti i decenni a venire, non ha lesinato onori e celebrazioni, ricordanze e onorificenze, dedicandogli scuole e strade e statue e ville, ogni volta cercando di spiegarsi e spiegare “Capitini, chi era costui?”
A questa domanda non c’è mai stata una risposta forte e condivisa, ma si è sempre preferito reiterare l’interrogazione e rinnovare così incessantemente la scoperta del misconosciuto più famoso della città e dell’intera regione. Ciascuno per sé e nessuno per tutti, ognuno si è vantato di conoscere o peggio si è gloriato di riconoscere qualcosa di particolare, di inedito e infine di personale. Così, tra aneddoti e parabole, frammenti di storia e di filosofia, commenti di politica ed elementi di religione, si finisce per rovesciare su Capitini, l’aperto, il carattere chiuso e il fare scostante della sua città e della sua gente. Così la sua sorprendente disponibilità all’incontro con tutti, alla discussione franca, all’azione condivisa, si traveste da riservatezza e si tramanda come fosse un segreto. Così la sua semplicità diventa ardua complessità, le sue chiare considerazioni si affrontano come contraddizioni e, giocoforza, soltanto gli scribi si sentono autorizzati a parlare di lui. E talvolta anche i farisei.
E cominciando dai farisei, non si può non sottolineare come la marcia della pace, Perugia – Assisi del 1961, sia stata l’unica sua iniziativa ad avere avuto celebrità e quindi continuità, sia pure nella diversità delle forme e talvolta anche dei contenuti. Oggi sono cambiate le cose e le carte, ed è forse giusto che sia così, ma si è giunti al punto di un paradossale capovolgimento – come se si procedesse da Assisi a Perugia – visto che ormai si attribuisce senz’altro ai frati tutto l’orto di Aldo, naturalmente dopo aver separato il grano dal loglio (ai lettori l’onere di stabilire chi abbia seminato cosa). A memoria d’uomo, ci si ricorda anche (prima dei frati, ai tempi dei compagni) di una marcia per una volta intitolata non alla pace ma “Per le regioni” – ovviamente in tempi elettoralmente sospetti. Anche la parola “apertura” è passata rapidamente dalla santità alla fanteria, diventando l’aggettivo qualificativo dello statuto della Regione Umbria, così come il sostantivo “partecipazione” con i suoi momenti rari e i suoi strumenti avari non manca mai di riallacciarsi a Capitini come suo avo glorioso o aedo ispiratore. Per contro i suoi C.O.S. e i suoi C.O.R. non hanno avuto seguito o ripresa; i suoi giornali e le sue iniziative, quando hanno avuto seguito per l’ostinata tenacia di minoranze nonviolente, non hanno avuto appoggi. Mi ricordo anche di una tardiva incarcerazione di Pietro Pinna, già attempato ma non ancora archiviato come “obiettore di coscienza”, alla quale l’unica reazione fu un volantino ciclostilato e diffuso a quattro o al massimo a sei mani, nei tergicristalli delle auto in sosta (dal titolo, al solito, “Chi è Pietro Pinna?”).
Ma continuando con gli scribi – e quindi mettendomi senz’altro nel conto – c’è la faccenda della conservazione e diffusione delle sue opere, che, nel caso di Capitini, hanno per davvero il senso lato e
pieno dell’operare. Anche quando si parla esclusivamente dei suoi scritti: una sterminata produzione di articoli, interventi, lettere, che formano una nebulosa ordinata e instancabile di atti che avvolge e infine spiega i suoi libri maggiori, quelli dedicati alla sistematizzazione e all’approfondimento del suo pensiero. Buttarla in filosofia è sbagliato quanto buttarla in politica. Spezzare cioè il rapporto tra la riflessione e l’intervento significa non comprendere il contributo più autentico ed efficace di Aldo Capitini, o peggio non accettarne la lezione. Che questo capiti è in fondo prevedibile in tempi in cui la Memoria si fa beffe della Compresenza, ma diventa imperdonabile quando ad interrompere il legame fra pensiero e azione si adopera – certo inavvertitamente – anche chi si è assunto il compito di dare continuità alla sua opera, anzi più presuntuosamente di valorizzarla in voluminosa (ancorché interrotta) “opera omnia” e riscattarla dalla minorità e dalla frammentazione in cui aveva scelto di generarsi e di spendersi.
La Fondazione che si occupa dell’eredità immateriale di Aldo Capitini nacque subito nel segno di un dissenso e insieme di conciliazione. Come è naturale e fin troppo umano, gli amici più vicini e cari concorrono sempre alla gara della stima e degli affetti, dopo la perdita del punto di riferimento e di sentimento più alto e più profondo. Accanto alla Fondazione nasceva quindi un’associazione intitolata gli Amici della fondazione, su distinguo e con distanze troppo personali e tutte legittime per dare spazio alla curiosità o diritto all’indagine. E però, è un dato che fa riflettere sulla centralità di Capitini, che era evidentemente tutto il contrario del centralismo, e cioè irradiante e paradossalmente centrifuga. E ancora di più fa riflettere la costante presa di distanza dei molti suoi amici ed estimatori, tutti o quasi parzialmente in disaccordo e complessivamente sempre in discussione con Aldo: prova evidente che si è trattato di un grande amico ma soprattutto di un vero “maestro”.
Dopo la generazione degli amici, la Fondazione ha voluto darsi un’altra vita ma non un’altra via. Seguendo le ansie commemorative di una comunità che non lo ha mai compreso, come proverbialmente capita a tutti i profeti, e sottovalutando lo stemperarsi dei legami affettivi e spirituali (e perfino politici) che inevitabilmente avevano alimentato gli amici coevi e i seguaci diretti, rischia di diventare sempre più un’accademia. Per di più con una svantaggiosa vocazione stavolta centripeta, anche nel senso di un’attività da consumare preferibilmente in loco, da dedicare alla università e alla città di Capitini. Ma l’università e la città non è mai stata sua, malgrado i suoi stessi desideri. Onori non concessi e amori non corrisposti – non almeno nella stessa intensità con cui erano vivi nell’animo di Capitini – hanno segnato la sua eccezionalità e infine la sua solitudine. E stando a quel che si vede, continuano a segnarle. Così, nelle recenti celebrazioni del settecentenario dell’Ateneo perugino, una sala comunale pressoché deserta ha assistito alla giornata dedicata a Capitini, con il Sindaco che infine continuava a chiedersi, francamente sbigottito e commosso, chi mai fosse costui.
In fondo in fondo questa domanda è sincera, e serve a tenere viva la curiosità se non l’ammirazione per il migliore di noi tutti. Mi ricordo – tanto per aggiungere un aneddoto anch’io – che nella stessa Sala dei Notari, al tempo in cui era ancora la sala delle assemblee libere della città e dell’università, Capitini era salito sul palco e aveva detto parole così forti da far uscire il Rettore di allora con tutta la sua corte. Era il non troppo lontano 1965, e gli studenti di sinistra avevano organizzato un dibattito a seguito della rappresentazione del “Vicario” di Rolf Hochhuth, il dramma che fece diventare pubblica l’accusa contro Pio XII e il suo silenzio sullo sterminio degli ebrei. Ero appena liceale ed era la prima volta che vedevo in vita mia questo ometto con gli occhiali spessi e la voce acuta e, meravigliato del suo potere più che del suo sapere, chiesi ai più grandi chi fosse costui. Come, non sai chi è Capitini? Mi dissero senza nulla aggiungere, come se non conoscerlo fosse una vergogna.
Ecco, da allora sono rimasto convinto che è una vergogna non conoscere Aldo Capitini, ma è anche vero cha ciascuno lo deve conoscere da sé e però per tutti. Diffidiamo dunque di chi ce lo spiega o se la racconta (come ho appena fatto anch’io). Torniamo invece a leggere i suoi scritti, ma senza dimenticare di aprirci prima alla comprensione per poi passare senz’altro alla discussione. Una discussione intensa fra noi ma soprattutto con lui. Non è difficile: Aldo è compresente e – come ho già detto – ha l’abitudine e perfino il desiderio di parlare con tutti.
Piergiorgio Giacchè è stato docente di Antropologia del teatro e dello spettacolo all’Università degli Studi di Perugia. Tra le sue pubblicazioni: Lo spettatore partecipante. Contributi per un’antropologia del teatro (Guerini e Associati, Milano, 1991); L’altra visione dell’altro. Una equazione fra antropologia e teatro (Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004). È membro della redazione de “Lo straniero”, rivista fondata e diretta da Goffredo Fofi.