All’inizio di questo scritto sento la necessità di fare una piccola precisazione, anche se forse inutile per la maggioranza dei lettori. Mi è capitato più di una volta per il mio lavoro andare alla ricerca dei semi. Li ho cercati e raccolti negli incolti, nei campi degli agricoltori, nei magazzini, nelle cantine (conservati a volte in modo bizzarro) e anche nei negozi delle città. Proprio nei negozi, sistemati nelle confezioni più sofisticate, ho trovato con la scritta “legumi” semi che con i legumi non ci azzeccavano niente, dentro il sacchetto infatti c’era per esempio il farro o altri cereali. Quindi la prima distinzione da fare quando si parla di semi per l’alimentazione è: cereali e legumi. Queste due categorie di alimenti sono stati e sono la base dell’alimentazione dell’uomo e degli animali. Cereali e legumi rappresentano un esempio di un eccellente abbinamento tipico della dieta mediterranea. I legumi contengono relativamente basse quantità di un aminoacido essenziale la metionina che si trova in quantità elevate nei cereali. I cereali, invece, contengono quantità relativamente basse di lisina, contenuta nei legumi.
Si suppone che il termine “legume” derivi dal latino legumen del verbo legère (raccogliere, riunire, mettere insieme) (Pratap e Kumar, 2011). Questo ad indicare che i legumi venivano, generalmente in passato, raccolti a mano. Anche se a me piace più il significato che i semi sono “riuniti, messi insieme” nei baccelli (appunto legumi), come accade nei fagioli, nei piselli, nelle fave ecc.
Sin dall’antichità, l’elevato valore energetico e la capacità di conservazione dei semi essiccati anche per lunghi periodi, fanno dei legumi un elemento chiave per l’alimentazione umana. Venivano coltivati dagli antichi Romani che ne consumavano i semi sia crudi che cotti, da soli, o conditi con aceto, come consigliava Catone o mischiati in rustiche minestre (pulmentaria) insieme ai cereali (grano, farro o orzo) e insaporite con grasso di maiale. I semi secchi venivano macinati per ottenere della farina, impiegata in miscela per la panificazione o per ricavarne una sorta di polenta (puls). Tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., autori come Virgilio, Varrone, Plinio il Vecchio, Galeno e Columella resero testimonianza sull’utilizzo dei legumi, mettendo in risalto l’importanza del loro impiego per l’arricchimento del terreno (pratica del sovescio). Per tutto l’Alto Medioevo i legumi furono coltivati in consociazione con i cereali, per sfruttare al meglio la loro capacità di fissare nel terreno l’azoto elementare così da restituire fertilità al terreno. Il prodotto era destinato principalmente al consumo da parte della famiglia coltivatrice, ma rientrava comunque nel regime alimentare di tutte le classi sociali. Dopo il XIII secolo, con l’affermarsi della vita comunale e la nascita di un ceto urbano, la coltivazione dei legumi si estese enormemente ed il prodotto, che fino a quel momento era relegato alle realtà ortive e ai campi suburbani, trovò collocazione sui mercati cittadini. Fu questo il periodo di maggior diffusione di molti legumi considerati, fino al XV secolo, un’ottima base per l’alimentazione (Montanari, 1988).
“le varietà dei legumi che vengono coltivate nelle epoche di’indagine……XVI e XIX secolo nel territorio storico di Gubbio ……è davvero eccezionale, tale da non poter immaginare oggi le cause dell’abbandono quasi totale della loro coltura… (Nardelli, 2006). Il prof. Nardelli scriveva che nel territorio eugubino tra il XVI e XIX secolo “fave, cecere (cicerchie), bisello (piselli) e ceci erano legumi diffusi e di importanza fondamentale, da venire indicati nello Statuto Comunale quando si stabiliscono le “pene del danno dato per una raccolta furtiva”.
Sempre in Umbria altro esempio di coltivazione dei legumi lo si trova nel Chiugi. Con il termine Chiugi Perugino si è soliti indicare, fin dal Medioevo, la parte di territorio ad ovest del Lago Trasimeno (Petrucci, 2005). L’area coincide (fatta eccezione per alcuni territori situati in parte a nord ed in parte a sud, che in passato ne facevano parte) con l’attuale estensione del comune di Castiglione del Lago, circa 205 kmq divisi tra la diocesi di Perugia e quella di Città della Pieve (in minor parte) (Chiacchella, 1984)
Grazie al secolare e sapiente lavoro dei contadini il paesaggio del Chiugi ha cambiato volto sin dal XIII secolo e laddove dominavano macchie di querce selvagge, cominciarono ad affermarsi i campi. La coltura predominante era quella cerealicola con grano, segale, avena, biade orzo, miglio, farro. Altre coltivazioni importanti, soprattutto per l’alimentazione quotidiana dei contadini, erano quelle di legumi (fave, mochi, lupini, cicerchie, fagioli e fagioletti); da non trascurare era la presenza della vite e dell’olivo (Petrucci, op. cit.) È essenziale ricordare che città e campagna avevano due regimi alimentari diversi: il pane di grano era riservato ai cittadini, mentre in campagna si consumavano pane fatto con cereali inferiori e appunto molti legumi (Tosti, 1984)
Con l’introduzione, nel ‘500, delle nuove specie di fagiolo importate dall’America, molti degli antichi legumi scomparvero quasi del tutto dalle tavole dei ricchi e diminuirono sensibilmente su quelle popolari, divenendo soprattutto cibo da destinare al bestiame (foraggio). Da alcuni decenni però c’è stata una consistente ripresa del consumo di molti di quei legumi grazie alla cosiddetta dieta mediterranea che promuove un’alimentazione povera di grassi animali e ricca di fibre, carboidrati e proteine vegetali.
Quando parliamo di legumi per l’alimentazione umana intendiamo le leguminose da granella. Questo gruppo di piante appartengono alla famiglia delle Leguminose un importante raggruppamento tassonomico con circa 700 generi e 18.000 specie. Circa il 13% della superficie totale coltivata al mondo (190 milioni di ha) è investita a leguminose da granella (Pratap e Kumar, 2011). Le specie appartenenti alla famiglia delle leguminose sono per la maggior parte prevalentemente autogame (si autofecondano) o la fecondazione avviene tramite gli insetti. Come succede per altre specie di piante, l’impollinazione entomofila è accompagnata da adattamenti nella pianta ospite come lo sviluppo di tratti morfologici specifici e la produzione di sostanze volatili attrattive. Le caratteristiche morfologiche includono: tipi di infiorescenza specifiche, racemi e pseudoracemi e fiori zigomorfi.
Un ruolo importante nella salvaguardia delle api per esempio lo svolgono le leguminose foraggere una volta presenti nei pascoli collinari della Regione Umbria come: la lupinella, il trifoglio pratense, la sulla e il ginestrino. Altra leguminosa foraggera (considerata la regina delle foraggere) è l’erba medica, anche essa visitata tantissimo dalle api.
Tornando alle leguminose da granella, ci poniamo la seguente domanda: quali sono le leguminose da granella più diffuse nella nostra Regione Umbria?
Forse la leguminosa da granella più famosa in Umbria è la lenticchia (Lens culinaris Medicus).
La lenticchia di Castelluccio di Norcia è uno dei prodotti tipici umbri più conosciuti al Mondo e l’unico legume umbro dotato di IGP. La lenticchia è una delle leguminose da granella di più antica domesticazione (9000 A.C.) e tra quelle che hanno avuto un ruolo importante nelle civiltà sviluppatesi sul Bacino del Mediterraneo. La sua coltivazione è generalmente relegata quasi esclusivamente a terreni poveri e marginali. In Paesi come la Turchia, India e Pakistan svolge ancora un ruolo importante nell’alimentazione umana mentre nei Paesi più industrializzati ha visto decrescere la sua importanza. In Italia dalla metà del secolo scorso a oggi la superficie coltivata si è ridotta drasticamente, passando da circa 24000 a 2000 ha. Le produzioni sono passate da 12000 a 2000 t. Analogamente alla produzioni si è assistito ad un calo vistoso del consumo di lenticchia. Le Regioni più importanti per questa coltura oltre all’Umbria sono le Marche, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Puglia e la Sicilia. In queste Regioni ancora vengono coltivate popolazioni locali o varietà locali (landraces) caratterizzate da variabilità genetica che ne consente l’adattamento alla coltivazione in biologico o a bassi input. Molte di queste popolazioni locali di lenticchia italiana sono però a forte rischio di erosione genetica poiché vengono “spazzate via” dalle varietà straniere.
Come già accennato precedentemente in Umbria la lenticchia si coltiva quasi esclusivamente in terreni marginali presenti a Castelluccio di Norcia anche se buone produzioni si possono realizzare sull’altopiano di Colfiorito. In questi ultimi decenni grazie al crescente interesse da parte dei consumatori per le produzioni tipiche locali, si sta assistendo ad un nuovo impulso alla coltivazione di questa leguminosa da granella. A Castelluccio molti agricoltori hanno aderito ai controlli per la certificazione della lenticchia come prodotto biologico e IGP (Indicazione Geografica Protetta). A Castelluccio la tecnica colturale adottata per la coltivazione della lenticchia consiste nella semina che viene effettuata utilizzando una dose di seme pari a circa 100-120 kg/ha, la quantità di seme elevata è condizionata dalla scarsa capacità competitiva di questa leguminosa nei confronti delle erbe infestanti.
In genere non vengono effettuate sarchiature e la coltivazione è fatta utilizzando metodi tipici dell’agricoltura biologica. Tale tecnica colturale permette il verificarsi della “Fioritura di Castelluccio”, un fenomeno naturale che ogni anno si verifica verso la fine di giugno e i primi di luglio (dipende dall’andamento stagionale).
Le specie infestanti protagoniste della “Fioritura”, che attira turisti da tutto il mondo, sono appunto le infestanti della lenticchia come il papavero la senape dei campi, il fiordaliso ecc. Al momento della raccolta la lenticchia viene sfalciata (quando i legumi hanno allegato e le piante sono ancora verdi) e vengono costituite delle andane. Successivamente, il materiale essiccato al sole, viene trasportato su un’aia comune e trebbiato con una trebbia da fermo. Generalmente ogni agricoltore custodisce gelosamente la propria semente che viene riutilizzata per le semine dell’anno successivo. Anche con cernita, confezionamento e commercializzazione a livello cooperativo, le singole confezioni riportano la denominazione del produttore. Il seme della lenticchia di Castelluccio è caratterizzato da una mescolanza di colori che vanno dal verde chiaro al marrone scuro. Bozzini et al. (1988) hanno identificato 10 sottopopolazioni differenti per colore del tegumento, tipo di screziatura, colore dei cotiledoni.
Altra peculiarità sono le dimensioni del seme, inferiori alle altre popolazioni di lenticchia coltivate in Italia, questa caratteristica permette una rapida cottura senza una preventiva messa a bagno dei semi.
Altra leguminosa da granella che occupa nella nostra regione un posto di rilievo la “fagiolina” del lago Trasimeno (Vigna unguiculata (L.) Walp. subsp. unguiculata). È diffusa nel comprensorio del Trasimeno, in particolare nei Comuni di Castiglione del Lago, Passignano sul Trasimeno, Tuoro sul Trasimeno, Magione, Città della Pieve, Piegaro, Corciano, Panicale e Paciano. Questo legume noto con il nome comune di “fagiolo dall’occhio” è originario dell’Africa ed è stato introdotto nel nostro continente sin dall’antichità. Era diffuso in Italia già in epoca romana si tratta infatti del phaseolus citato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia. Unica tipologia di fagiolo coltivato a quei tempi. Infatti trattasi dell’unica specie di fagioli coltivati in Europa prima dell’avvento delle varietà americane.
La prima testimonianza scritta della coltivazione della fagiolina del Trasimeno risale al 1876: nella panoramica sulla produzione agricola umbra pubblicata nel 1876 dall’ingegnere perugino Luigi Monaldi sul Giornale Agrario Italiano troviamo esplicita menzione della fagiolina del Trasimeno a proposito delle varietà di leguminose coltivate sul territorio regionale: «Nei pressi del Trasimeno coltivasi abbondantemente la cosiddetta fagiolina del lago, che credo sia una varietà del dolichos cathiang». La Fagiolina del lago riscoperta a metà degli anni 90 fino ad allora veniva venduta da un negozio di Perugia a pochi compratori ad un prezzo elevato 25 mila lire al chilo, due soli erano i produttori e veniva chiamata risina. Successivamente anche grazie all’attività della Facoltà di Agrari stimolata dalla provincia alla ricerca dei prodotti tipici è stata reintrodotta in maniera più consistente seppur sempre di nicchia nel territorio del lago ma anche di zone non lacustri dell’Umbria. Nonostante l’aumento dell’offerta la domanda si è molto incrementata ed il prezzo è rimasto su livelli molto alti, poco meno di 30 euro al chilo. Quindi in questo caso il legume subisce una trasformazione classista da carne dei poveri a prelibatezza per ricchi.
Il fagiolo comune (Phaseolus vulgaris L.) è un’altra leguminosa da granella particolarmente importante in Umbria. Il genere Phaseolus è di origine Americana e comprende più di 30 specie, tuttavia solo 5 di queste: P. acutifolius A. Gray, P. coccineus L., P. lunatus L., P. polyanthus Greenman e P. vulgaris sono state utilizzate per la coltivazione (Gepts e Debouck, 1991). Tra queste il fagiolo comune è la specie maggiormente coltivata. Da una indagine condotta presso il Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali (Università degli Studi di Perugia) sono state individuate diverse tipologie di fagiolo che venivano e alcuni vengono ancora coltivati in Umbria: il fagiolo di Cave di Foligno; i fagioli secondi del piano di Orvieto; i fagioli della stoppia (o fagioli di Colpetrazzo, Massa Martana) e il fagiolo di Camerata di Todi. Le prime tre tipologie sono molto simili tra loro, sono a sviluppo determinato e venivano coltivate in successione al frumento. Il fagiolo di Camerata invece è a sviluppo indeterminato. Altre tipologie di fagiolo venivano coltivate in Umbria. Durante una collezione di semi effettuata negli anni 90’ ricordo che un agricoltore dei dintorni del lago Trasimeno, mi consegnò una tipologia di fagiolo (tipo tabacchino) e disse che venivano chiamati fagioli della Vigna. In passato i vigneti venivano lavorati con la vanga, la forza per vangare veniva fornita da questi fagioli!! I legumi infatti erano considerati in passato la carne dei poveri.
In Umbria una lunga tradizione è quella della coltivazione delle fave. Come viene riscontrato da una nota tratta da: Famiglie Perugine (1742-1750), “nota delle fave date per seminare a li lavoratori diversi del 1742. A di 12 novembre sia dato a Cristofino Landi del Mandoleto Fave per seminare Stara 2. A di 29 luglio 1743 il suddetto Cristofino porto in due volte Stara 12 e coppe sei di parte. E più porto fave due che gli date per seminare”.
Vicia faba L. è stata addomesticato circa 8000 aC nel Vicino Oriente; i resti più antichi sono stati ritrovati in Jericho e datati 6000 A.C. Dal Vicino Oriente, la coltura si diffuse: i) in Europa centrale e la Russia attraverso l’Anatolia, la valle del Danubio e del Caucaso; ii) nelle Regioni del Mediterraneo orientale attraverso la Costa mediterranea e le isole; da Egitto e Costa araba (Arabia Felix) in Abissinia; attraverso la Mesopotamia in India e Cina. Nel XVI secolo la coltura è stata introdotta in America dagli spagnoli e solo verso la fine del XX secolo ha raggiunto l’Australia.
Ai semi di fava viene generalmente riconosciuto un buon valore nutrizionale, per questo ha una lunga storia nell’alimentazione sia umana che per gli animali. Le popolazioni di fava in genere mostrano un’ampia variabilità genetica per il contenuto in amido (valore medio 41,4%) proteine (32,3%) e fibre (16,8%) (Duce et al. 2011), questo sta a dimostrare che esiste un certo spazio per il miglioramento genetico di questa leguminosa da granella sotto l’aspetto nutrizionale.
Di fave, come è noto esistono tre tipologie classificate in base alla dimensione del seme; i) V. faba minor (favino) utilizzato per l’alimentazione degli animali, quello nero detto anche ‘palombino’ viene utilizzato per l’alimentazione dei piccioni; ii) V. faba equina (mezza fava) ; iii) V. faba major in genere consumate fresche (scafi).
In passato nel Tuderte la mezza fava veniva utilizzata per la preparazione delle “fave con le animelle“… il norcino nel ripulire l’addome lavandolo con acqua fredda, toglieva ai lati della pancetta dei pezzettini di carne grassa e magra (animelle) e li dava alla massaia che solerte li metteva in una grossa teglia di coccio…..con il grasso sciolto ci si condivano le fave mentre l’animelle insaporite e preparate si mangiavano dopo. Era quanto di meglio si potesse desiderare!! (Paolucci, 2005). Nel 1984 a Collevalenza di Todi (PG) venne organizzata per la prima volta “la Festa dell’animella” e ancora oggi viene puntualmente organizzata nel mese di febbraio per mantenere e ricordare le tradizioni locali.
Oggi la mezza fava o ‘fava cottora’ è particolarmente apprezzata e coltivata come prodotto tipico dell’Amerino e ha ottenuto il presidio slow food.
Le fave venivano messe a bagno il giorno prima e cotte nella pignatta di coccio nero. Nelle case dei contadini non mancava mai una pignatta accanto al focolare in cui borbottavano delle fave. Verso le 9:00 del mattino venivano scodellate in un piatto e condite con l’olio buono … un sapore indimenticabile… a volte le fave cotte venivano passate e ridotte in purè e spalmato su del pane casereccio “bruscato” con un po’ di aglio… sapori indescrivibili!!! Questo costituiva la colazione, un pasto che restituiva ai lavoratori dei campi gran parte delle energie disperse dalle prime ore del mattino.
La roveja (Pisum sativum subsp. sativum var. arvense L. (Poir.) è un pisello selvatico dal seme colorato che va dal verde scuro al marrone. La specie, ampiamente diffusa in forma spontanea, era molto coltivata fino alla prima metà del secolo scorso in tutta la dorsale appenninica, in particolare nell’Appenninico umbro-marchigiano dove ancora oggi si possono trovare forme spontanee e residui di coltivazione. La roveja nota anche con il nome di, pisello dei campi, corbello, rubiglio; (con buona probabilità al colore rosso rubino del fiore) era coltivato come pianta da foraggio sia fresco che secco, mentre era limitatissimo l’uso della granella per scopo alimentare. Era invece utilizzata per l’ingrasso dei montoni, dei maiali, dei volatili. Esistono riferimenti storici che testimoniano la presenza e l’utilizzazione di questo legume in Umbria. Nel 1545 lo Statuto di Montesanto di Sellano imponeva la coltivazione di diverse civiae (leguminose), fra le quali la roveja, alla quale dovevano essere affidati 2 m per ogni orto (Giacchè e Menghini, 2000). Altra citazione si trova in un testo classico di agronomia, La Divina Villa di Corniolo della Cornia, scritto a cavallo tra il XIV ed il XV secolo. Nell’articolo del 1923 “Uno sguardo d’insieme all’alta Montagna Umbra e alla sua economia “contenuto in “Umbria Verde”, Francolini e Buzi riportano che, oltre alla lenticchia e i ceci, “tra le Colture degne di menzione sull’altipiano del Castelluccio […] (vi è) la roveglia (Pisum arvensis), dì cui si fa larga esportazione a Roma”. Interessante notare che nei dintorni di Preci (Perugia), in località Colmezzo, si trova una fonte, “Fonte di Acquaviva”, che in passato era chiamata “Fonte dei rovegliari”.
Attualmente la coltivazione di roveja è stata pressoché abbandonata, esiste però una piccola realtà in località Civita di Cascia (Cascia-PG) dove pochi agricoltori hanno reintrodotto in coltivazione questo antico legume, che in poco tempo grazie al loro ingegno e capacità è diventato uno dei prodotti tipici della nostra Regione.
Questo legume antico presenta delle ottime caratteristiche nutrizionali: un basso contenuto di carboidrati (18-20%) e di lipidi (circa 23%) e un alto contenuto di proteine supera abbondantemente il 20 % (22-23 %). Inoltre la fibra supera abbondantemente il 30 % (34-36%). Il contenuto di fibra è certamente l’elemento che caratterizza maggiormente questo legume, in quanto è superiore a quello di tutti gli altri legumi convenzionali dalle 2 alle 5 volte. Interessante è l’elevato contenuto di composti fenolici presenti soprattutto nella buccia e di composti antiossidanti presenti soprattutto nel germe.
Il caratteristico sapore di questa leguminosa da granella fa si che possa essere utilizzata per la preparazione di eccellenti piatti come: la “farrecchiata” una specie di polenta dal gusto intenso e vagamente amarognolo ottenuta dalla farina proveniente dalla macinazione della granella con gli stessi mulini a pietra del farro (da qui il nome farrecchiata), che viene condita tradizionalmente con un battuto di aglio, olio e alici; risulta ottima anche il giorno dopo, affettata e abbrustolita in padella. Oggi la roveja sta assumendo i caratteri del prodotto tipico. Figura con successo nel menù di alcuni ristoranti e agriturismi umbri e marchigiani, nei quali è possibile trovare la polenta di farina di roveja ripassata in padella con cipolla e pecorino, la pasta e roveja, i crostoni con purea di roveja.
Renzo Torricelli
Bibliografia di riferimento
Bozzini A., Iannelli P. e Rossi L., Valutazione di germoplasma di lenticchia di recente introduzione. Informatore Agrario 44: 39–45, 1988
Chiacchella R., “Terra e proprietà nel catasto del Chiugi Perugino del 1682”, in R. Chiacchella, M. Tosti, Terra, proprietà e politica annonaria nel Perugino tra Sei e Settecento, Maggioli Editore, Rimini 1984 (pp. 15-17.)
Falcinelli M., Albertini E., Castellani G., Concezi L., Dalla Ragione I., Desantis F., Falistocco E., Fatichenti F., Ferranti F., Giampiccolo C., Mauceri S., Micheli M., Pagiotti P., Paldini C., Porfiri O., Prosperi F., Rossi F., Scerna G.C., Standardi A., Reale L., Torricelli R., La biodiversità vegetale in Umbria e la sua conservazione. La valorizzazione delle risorse genetiche agrarie della regione Umbria, Edizioni 3A-PTA, Pantalla (PG) 2005
Giacchè L., Menghini A., La coltivazione dello zafferano, Ed. EFFE, Perugia 2000
Grassi E., Caratterizzazione genetica della roveglia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Perugia, 2005
Montanari M., Alimentazione e cultura ne medioevo, Laterza, Bari 1988
Nardelli M.G.. Biodiversità risorse cultura : itinerario di recupero degli agroecosistemi nel territorio storico di Gubbio tra XVI e XIX secolo, Edizioni L’artegrafica, Gubbio (PG) 2006
Paolucci G., Vita contadina, costumi e storie di un paese, ISBN 88-87472-48-3, 2005
Petrucci E., La terza parte del fruttato, TP Edizioni, Città della Pieve (PG) 2005
Pratap A., Kumar J., 2011. Biology and Breeding of Food Legumes, Cabi, ISBN-13: 978 1 84593 766-9
Righi V., Caratterizzazione genetica della roveja (Pisum sativum sativum var. arvense (L.) POIR.) di Civita di Cascia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Perugia, 2014
Tosti M., “Città e Campagna e il problema del pane. La politica annonaria di Perugia nel Settecento”, in Terra, proprietà e politica annonaria nel perugino tra Sei e Settecento, Maggiore Editore, Rimini 1984 (p. 168)
Il 10 novembre 2015 la FAO ha proclamato, dopo l’anno internazionale della Quinoa nel 2013, l’anno dell’agricoltura familiare nel 2014 e dei suoli nel 2015, il 2016 Anno Internazionale dei Legumi. Questo trend mostra l’interesse dell’organizzazione mondiale ha sollevare i punti critici della nostra sopravvivenza sul pianeta individuando aspetti importanti da portare o riportare all’attenzione generale. In effetti per quanto si sottolineino i pregi dei legumi nell’alimentazione e per la salvezza dell’ambiente il loro consumo soffre di una pesante stasi.
Va però fatta chiarezza su quale piaga ha messo il dito la FAO. Leguminose è un termine troppo ampio che includerebbe colture che non necessitano di nessuna promozione, la FAO ha specificato “pulses”. Pulses sta per quei legumi che si consumano per l’alimentazione umana e che consistono in sementi ricche di sostanze di riserva ed in gran copia proteine, facilmente conservabili e stoccabili. Questa nuova definizione sgombra il campo di tutte quelle leguminose che servono per alimentare il bestiame come foraggio (l’erba medica ed il trifoglio) ma soprattutto di quelle leguminose che producono sementi ricche di olio e per questo non facilmente stoccabili come l’arachide e soprattutto la soia che è si una leguminosa ma che certamente non ha bisogno di alcuna promozione essendo una delle colture più diffuse al mondo.
Le colture che sono oggetto della preoccupazione della FAO sono fagiolo, cece, lenticchia, fava, pisello, tra quelle coltivate da noi, colture antiche, colture che producono un alimento ricco e nutriente che sono proteiche per la capacità di utilizzare l’azoto atmosferico grazie al rizobio (che convive nel suo apparato radicale) non impoverendo quindi i terreni ma addirittura arricchendoli e che per queste ragioni sono alla base della storia dell’uomo (Esau vendette la sua primogenitura per un piatto di lenticchie).
La coltivazione di tali sementi ha subito grosse vicissitudini per una serie di ragioni, in primis perché non hanno granché beneficiato della rivoluzione verde, infatti non avendo grossi benefici dalla concimazione azotata non hanno avuto quegli incrementi produttivi sbalorditivi che hanno mostrato i cereali, la loro meccanizzazione è meno semplice rispetto alle graminacee, la loro domanda è ridotta.
L’organizzazione della società e la richiesta delle popolazioni tendono a deviare il consumo di massa dei legumi verso un consumo di elite riservato ad occasioni speciali, è tipico il caso citato da Torricelli della fagiolina del lago che è ormai solamente un consumo da grandi occasioni come complemento a piatti principali. Il principale svantaggio dei legumi è il tempo necessario alla loro preparazione, non esistono più le massaie che avevano come sola occupazione la casa e la prole e quindi potevano dedicare molto tempo alla cucina sovrapponendola ad altre occupazioni nella casa. Arrivare la sera e preparare un pasto in poco tempo mal si sposa con i tempi di preparazione dei legumi.
Il crollo delle produzioni è testimoniato da un documento della confagricoltura che riporta le cifre del disastro, dal 1961 al 2015 i consumi di legumi secchi si sono dimezzati mentre le produzioni sono calate di oltre l’80% incrementando quindi notevolmente le importazioni. Un debole segno di ripresa si registra per il cece e, ma su valori irrisori, della lenticchia.
In realtà questo trend non è di tutto il mondo e nemmeno di tutta Europa. Questo calo di produzione è infatti osservabile limitatamente al nostro continente nei paesi mediterranei mentre la produzione europea rimane stabile grazie agli incrementi notevoli in Francia e Inghilterra, qualcuno ce le dovrà vendere le nostre importazioni.
Il resto del mondo mostra notevoli incrementi in America, Africa ed Oceania; mentre l’Asia riduce notevolmente la superficie coltivata a pulses; c’è da dire che in certe aree del mondo, penso al Sud America ma non solo, la messa in coltura di zone precedentemente non coltivate ha aumentato enormemente la coltivazione di tutte le piante; e quindi occorrerebbe una valutazione ponderata del fenomeno. Probabilmente in Italia si osserva l’esatto contrario la diminuzione dell’ettaraggio coltivato a leguminose risente anche dell’abbandono della coltivazione di molti terreni i più marginali e contemporaneamente delle colture a più alta richiesta di manodopera e più basso ritorno economico.
La sintesi di questo breve report è comunque che chi sta pagando è l’ambiente e forse la nostra sopravvivenza, da una parte aumentiamo le superfici coltivate sottraendole ai grandi polmoni del pianeta, dall’altra vedi in Italia riduciamo le superfici coltivate impermeabilizzando il terreno. Cambiamenti ambientali, aumento della temperatura, calamità naturali che l’ambiente non è più capace di tamponare è quello che ci prospetta il futuro. Forse più che il problema dei legumi occorrerebbe affrontare il problema dell’uso del suolo ma anche la verde Umbria è sempre più grigia.
Francesco Damiani
Dottore di Ricerca, in Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, Renzo Torricelli ha lavorato per più di 40 anni presso il Dipartimento di Scienze Agrarie Alimentari e Ambientali dell’Università degli Studi di Perugia, nel settore della Genetica Agraria e Miglioramento Genetico delle Piante Agrarie. Ha partecipato a numerosi Progetti di ricerca Nazionali e Internazionali relativi al miglioramento genetico, alla collezione del germoplasma, alla caratterizzazione genetica molecolare e alla conservazione delle risorse genetiche agrarie e della biodiversità vegetale.
Francesco Damiani è Ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche e responsabile della Unità Operativa di Perugia dell’Istituto Di Bioscienze e Biorisorse.