Il 1918 decretò la fine della guerra più atroce che fino ad allora l’umanità avesse mai conosciuto. Con essa non cessava solo un drammatico triennio di morte, ma anche quel fervore avanguardista dilagato in Europa agli inizi del Novecento che adesso nessuno voleva più seguire: niente movimenti di rottura né avanguardie a scardinare le regole sociali. La fine della guerra significava guardarsi addietro, raccogliere le macerie e ricostruire il presente affidandosi alle certezze della tradizione, ritrovare il senso della storia, dell’umanità, e le vestigia di una civiltà destinata alla grandezza. Si profilava quel rappel à l’ordre che spingeva artisti di varia estrazione a tornare sui linguaggi del passato: Picasso in Francia o Carrà in Italia, intraprendevano la strada del ritorno alla pittura secondo i fondamenti del “mestiere”, come da qualche tempo andava professando Giorgio de Chirico. Ed era nella Metafisica di quest’ultimo che certi artisti maturavano linguaggi capaci di coniugare la tradizione a un sentimento di rinata attesa in cui la società, ancora disorientata dalla guerra, si mostrava annichilita da un senso di sospensione e indagine introspettiva, sempre più spingendo l’arte verso la sfera dell’onirico.
Su tali coordinate si profilava il Realismo Magico, tendenza di richiamo alle tradizionali formule della pittura (ritratto, paesaggio, natura morta), arricchita da una vena interna di sospensione narrativa da ricondurre, comunque, ad un alveo innovativo e peculiare del periodo storico in corso. Non un vero e proprio movimento, piuttosto un linguaggio capace di diffondersi velocemente in Europa coinvolgendo artisti e critici col suo portato di stasi e lentezza, quasi a voler fermare l’avanzata del progresso esasperando la dimensione onirica e trascendente. Il termine veniva sdoganato dallo scrittore Massimo Bontempelli nel 1927, utilizzandolo sul numero IV della rivista “900” e mutuandolo da Franz Roh che due anni prima pubblicava il volume Nach-Expressionismus magischer Realismus; Probleme der neusten europäischen Malerei, dove inseriva anche Donghi. Realisti perché votati al figurare, magici perché la loro pittura esprimeva qualcosa di straniante, vagamente aleggiante tra realtà e immaginazione: “La magia non è soltanto stregoneria”, scriveva proprio Bontempelli, “qualunque incanto è magia…forse è l’arte il solo incantesimo concesso all’uomo […] essa è evocazione di cose morte, apparizione di cose lontane, profezia di cose future, sovvertimento delle leggi di natura, operati dalla sola immaginazione”.
Corpi levigati e statuari, marmorei, dalla pelle diafana, austeri e ancorati a un’essenzialità che annichiliva ogni sospetta collusione con le avanguardie pre-belliche, tenendo a mente le parole di Carrà: “L’arte è un sogno sommamente voluttuoso; un sogno di disperata dolcezza; ma è anche un sogno corporeo così denso di realtà da contenere forti pericoli”. Ecco allora i riferimenti dal passato, in particolare Masaccio, Piero della Francesca, Mantegna, colte citazioni grazie alle quali la tradizione riemergeva per ridestare una società in preda agli incubi della follia: Felice Casorati, Cagnaccio di San Pietro, Achille Funi, Carlo Levi, Ubaldo Oppi, Edita Broglio, Pietro Marrusig, sono alcuni dei nomi più noti che in Italia componevano la compagine di questi realisti dal piglio magico.
È su queste coordinate che matura il linguaggio di Antonio Donghi (Roma 1897-1963), l’artista “che fuggiva il vento”, come veniva definito per l’incapacità di dipingere quando le condizioni atmosferiche non consentivano un’assoluta fissità. Il movimento era sinonimo d’avanguardia, del Futurismo in particolare, ancora attivo e in fase nuovamente ascendente. E allora Donghi cercava l’assoluto opposto, fermare il tempo rendendolo eterno, come l’arte aveva fatto per millenni.
Nascevano così le sue figure più emblematiche come Il giocoliere, del 1936, improbabile e precario, reale e immaginario, elegante, impeccabile, con il suo corpetto grigio e il cappello davanti alla bocca, in bilico per qualche secondo e pietrificato per sempre dal potere della pittura. Un linguaggio che attraversava inalterato il ventennio tra le due guerre: l’Ammaestratrice di cani, ad esempio, del 1946, soggetto gradevole, trattato con finissima ironia nonostante l’atteggiamento di lei, fisso a guardare verso lo spettatore, là dove si estende il mondo dei vivi, e i cagnolini, miniati come a trattarsi di soprammobili in ceramica che tradiscono, una volta di più, l’inclinazione di Donghi a separare irrimediabilmente la pittura dalla vita reale. O ancora nell’opera Donna al caffè, dove la figura si erge fiera e in attesa, non deturpata dai fumi e dall’alcool, come nell’epopea tardo romantica della Parigi decadente, ma elegante e semplice, senza mostrare il benché minimo atteggiamento irriverente. Similmente Le villeggianti (1934), rassicurante ambientazione in cui due fanciulle sostano delicatamente a sul ciglio di un muretto a ridosso di una suggestiva vallata. In lontananza, le vestigia di antiche architetture riconducono la scena nel dialogo tra presente e passato, mentre le figure non nascondono la loro estrazione borghese: le bianche scarpette intonate alle candide calze, i vestiti color pastello perfettamente adattati alla postura del corpo e l’ombrellino, in alto, a difendere la rosea carnagione del viso dall’intenso sole estivo.
Artista squisitamente romano, il suo destino sarebbe stato quello di raccontare la Capitale come i colleghi Mafai, Scipione e Raphaël, se non fosse stato per l’incontro con De Chirico, dalla cui Metafisica seppe cogliere quella dimensione avvolgente di straniante seduzione atemporale. Appoggiato e assistito da amici e collezionisti come il musicista Alfredo Casella e il critico Ugo Ojetti, Donghi rifletteva nella pittura non solo il proprio tempo, ma anche il proprio carattere: schivo e riservato, estraneo agli eccessi del bohémien. Una distanza dalla vita mondana sopperita attraverso l’espressione ironica e vagamente stravagante della pittura, modesto e malinconico, romano, si diceva, di una romanità piccolo borghese. Figlio di un commerciante di stoffe, visse sempre nel rione Trevi, parsimonioso e solo, poco avvezzo alle donne e restio al viaggiare, unico soggiorno all’estero nel 1928, a Parigi, città cui rimase poco più che indifferente. Non la modernità, ma Roma, città millenaria, era il suo orizzonte, dove il dipingere poteva fissarsi nella consuetudine del quotidiano. Anche i paesaggi esprimevano quella nostalgica attenzione al passato: le vedute, tra cui Sant’Anastasia al Palatino e San Bonaventura, ad esempio, in cui il gioco sottile di alternanze fra strutture abitative e la soffice vegetazione di contorno conferiscono all’insieme una condizione di inalterata plasticità architettonica. Così come le nature morte, algide e suadenti, di una levigatezza assoluta e del tutto incapaci di esprimere la vita.
Prossimo al Novecento italiano, nel 1929 il partecipava alla II Mostra del movimento, a Milano, e nel 1930 alla Mostra del Novecento italiano organizzata da Margherita Sarfatti a Buenos Aires, ma non ne fu mai un vero esponente, come non lo fu della Metafisica. Donghi era Donghi, distante anche dai movimenti, ma non dall’impegno artistico, che comunque gli veniva riconosciuto. Quattro le partecipazioni alla Biennale di Venezia, dal 1926 al 1932, e poi alla mostra Italienische Maler a Zurigo nel 1927. Alla prima Quadriennale di Roma (1931) era presente con tre opere, nella stessa sala in cui esponevano i protagonisti della Scuola Romana, mentre nel 1935, alla seconda Quadriennale, aveva una piccola personale che presentava con un catalogo contenente un proprio scritto. L’anno successivo, infine, ottenne l’incarico di Figura disegnata presso l’Accademia di Belle Arti e Liceo Artistico di Roma dividendosi, da questo momento, tra l’insegnamento e la pittura, sviluppando soprattutto temi paesaggistici.
Dal secondo dopoguerra, gradualmente, la sua pittura diventa sempre più analitica, al limite della calligrafia, la vegetazione trattata in punta di pennello, come nella serie di opere dedicate all’Autostrada del Sole, intorno al 1961. Ma anche qui non c’è movimento, l’artista affronta la modernità negandole il suo più evidente carattere: la velocità. Nei quadri di Donghi la strada diventa una semplice striscia grigia di fondo, deserta, astratta e surreale. E ciò ancora una volta riflettendo il suo carattere solitario, sempre più marcato con l’avanzare degli anni, isolato, estraneo al dibattito artistico, indebolito nella vista e ossessionato dalle tasse, afflitto da disturbi nervosi e relegato, da quei pochi critici che ancora lo ricordavano, ad esponente sfiorito di una tendenza ormai superata.
Donghi muore a Roma il 16 luglio 1963, portandosi dietro il fardello di una pittura maturata in anni difficili, ma dalla quale non seppe mai distanziarsi. La sua esperienza ancora oggi, a un secolo da quel 1918, resta relegata al ventennio tra le due guerre, fredda come la necessità di reagire al fuoco dell’avanguardia e suadente come le favole che vivono fuori dal tempo.
Andrea Baffoni è storico e critico d’arte. Direttore della rivista Contemporart (Modena) ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Perugia. Membro dell’Archivio Gerardo Dottori, saggista e curatore, ha pubblicato nel 2015 il volume Contro ogni reazione. Enrico Prampolini teorico e promotore artistico, Lantana, Roma.