Il calcio di provincia. Una realtà dal valore non solo semantico. Un calcio che concretamente rappresentava e, forse, sempre meno rappresenta una sorta di oasi dove ritrovare il refrigerio della genuinità di una passione sportiva scevra da interessi particolari e talora anche corruttivi, sia nel campo che sugli spalti. Il calcio di provincia, che disegnava ed in qualche modo disegna ancora uno spazio perimetrato da valori consolidati e inesauribili, quali l’agonismo senza violenza, l’attaccamento alla maglia anche in qualche modo vissuto come pathos territoriale: “noi siamo l’Umbria”, cantano i tifosi del Perugia. Una città che si fa regione, ma soprattutto luogo dell’anima appunto di un territorio. Un calcio di provincia, dunque, che pur stando dentro l’impero del calcio italiano, ha, o avrebbe, una sua autonomia etica, basata su di una sorta di agonismo disinteressato che fa da contraltare a quello artificioso a cui costringe il denaro nel mondo del professionismo dei grandi e medi club.
Genitori contro
Un calcio di provincia, che conserva un proprio valore anche nel linguaggio, se è vero che si loda ad esempio la Juventus perché sa essere sanamente provinciale quando serve, ossia solida, muscolare, essenziale e coesa nei reparti. Insomma l’immaginario della provincia calcistica come luogo di una certa purezza di gioco, di comportamenti, persino di stile resiste come una sorta di paradigma da contrapporre alla realtà contraddittoria del calcio spettacolar-televisivo dei nostri giorni. Un calcio quello di provincia, per antonomasia, di appartenenza ad un territorio, una cultura, perché no, una tribù, come un grande antropologo alle prese con il pallone ci indicava. Un luogo però, dove la spinta inevitabilmente competitiva e violenta che si nasconde dietro il Gonfalone, veniva e, forse, viene ancora mediata, da quei sani valori che riconoscono all’altro da sé, una dignità legata all’attaccamento alle proprie radici che anch’esso ha. Siamo avversari, non chiamiamo, ma ci rispettiamo come si conviene a chi conosce le fatiche della vita, che, in provincia, sono più evidenti. Certo un insieme che qualcuno potrebbe definire reazionario, ma che, se ben equilibrato produce passione e solidarietà. Ma se questo è il quadro, inevitabilmente, dobbiamo notare che esso va sbiadendo e che la cosiddetta provincia somiglia sempre più nei difetti al resto dell’impero e persino le virtù vanno facendosi ambigue e contraddittorie. Un esempio potrebbe ricavarsi da certe notizie di cronaca, quelle che vedono padri e madri insospettabili scendere letteralmente in campo a difendere il proprio figlio che, l’allenatore delle giovanili del paese fa giocare pochissimo , preferendogli magari il figlio di quei “manigoldi” che abitano la villetta di fronte alla loro. Guai al mister che osa fare questo, volano insulti e persino spintoni. Guai, poi, anche i genitori della squadra avversaria che osano urlare e fare tifo, per la verità feroce, in casa nostra, dove giocano i nostri bimbi. Allora sono decisamente botte, allora si vendicano i pargoli intoccabili.
“Umbria infelix”
È successo anche qui, in Umbria, ciò che sembrava un retaggio del familismo amorale del sud. È successo, seppure in maniera attenuata, che in nome del figlio calciatore si scontrassero fazioni parentali e la moderazione tipica delle nostre genti venisse, almeno in parte, meno. Per non parlare dei primi sintomi di un tifo che va incattivendosi. Come dimostra il tracimare della rivalità Perugia- Ternana in qualcosa di diverso dal confronto dialettico fondato sullo sfottò. E, del resto, Perugia e Terni, sono calcisticamente terra di conquista per presidenti “forestieri” che portano forse passione, ma certamente interessi personali, attenuando e scolorando l’identità fortissima che il tifo cerca e vuole. Perché, nella nostra regione, come si evince dalla storia delle Fere e del Grifo, se il presidente è un concittadino o qualcuno che ha assimilato la tua identità, allora sa e conosce i limiti oltre cui non si deve andare, morali e materiali, mentre, invece,il “capo” che viene da fuori, tende a giustificare i propri insuccessi inasprendo la polemica con il mondo esterno, ovvero tutto ciò che, dicono, impedisca alla squadra di emergere. Insomma anche in Umbria il tifo comincia a radicalizzarsi, seppure blandamente. E quel legame spurio che si forma fra società e frange del tifo più aspro va saldandosi, a spese di chi vuole liberamente criticare. E così se un presidente, poco avvertito, come è successo recentemente, se la prende con i tifosi che lasciano lo stadio prima del tempo, stufi dello spettacolo offerto, può succedere che i medesimi “fuggitivi” divengano bersaglio anche, per ora, solo morale dei tifosi più accaniti. Sono i frutti acerbi di una pianta che sta mettendo radici anche nella “felix Umbria” e che, una volta maturati, potrebbero far sembrare solo un ricordo la tolleranza e la sostanziale “laica” partecipazione dei nostri tifosi alla partita delle squadre regionali, facendo sempre più somigliare l’amata provincia ad una sorta di feticcio semantico da brandire solo opportunisticamente, mentre il calcio, anche nella nostra piccola patria, se ne va verso altri lidi, televisivi, artefatti e violenti.
Claudio Cagnazzo, pubblicista, collaboratore de “Il Messaggero” e del quindicinale “Rocca”. Si occupa di Sport, Costume e Società.