Vol. 12, n. 1 (2020)
L’estetica contemporanea si lega alla dimensione del vivente, non solo umano ma anche animale, in una modalità compromessa con il movimento del reale stesso. Un’arte che si edifica sulla copertura di ogni frammento e lavora, si cimenta, convive con la persistenza del particolare fino al parossismo. Marina Abramović ha colto questo carattere in modo esemplare. Oltre l’etichetta entro l’alveo della performance art, Abramović ha inchiodato il corpo alla sua potenza concreta laddove lacerazioni, ustioni, tagli non sono che una tela dipanata in qualità di evento in contrapposizione, al contempo politica ed estetica, alla fattualità così deturpata dalla proiezione mass-mediale odierna. Dalla serie Rhytm (1974-1975) la nozione di limite viene spinta a rientrare nella fisicità della realtà trovando nel corpo l’asse portante di questa azione; dinanzi all’evidente rischio, il pubblico, il corpo del pubblico è mosso ad agire, partecipando in tal modo alla praxis artistica. Come ha detto Jean Baudrillard: «[…] l’arte stessa è divenuta in gran parte iconoclasta»[1], per cui nell’estetica della Abramović lo spettatore spezza apparentemente il momento artistico ma, al contrario, contribuisce alla sua realizzazione. L’assenza di finalità, di un a priori da seguire, di un canovaccio pre-ordinato, mostra come l’artista serba smargini il compimento estetico e comprometta gli astanti in termini corporei riuscendo a non sancire mai con un’ultima parola il confine tra arte e vita, attuando in tal modo ciò che si potrebbe definire filosofia della persistenza.
Cosa persiste? Di sicuro il gesto estetico non si coglie mai chiaramente nel suo incipit né nel suo termine, ma si tratta di un deflusso che si contraddistingue per due non esiti: l’inesorabile e la ripetizione. Con l’attributo di inesorabilità le performances di Abramović legano il corpo del pubblico ad un’ansia generalizzata verso l’inevitabile che, quale potenza inconscia, diviene flusso interattivo, da terreno di disfatta si muta in occasione di partecipazione, prima impensabile con tale concretezza, con l’atto che si consuma sulla scena. L’osceno si situa qui, in un ritmo che vuole suscitare travolgendo la gamma di emotività tradizionale, andando a scombinare e disorientare le reazioni possibili; ecco perché la sua filosofia estetica collima con l’attività e rifiuta la reattività, gesto insudiciato dall’empatia comandata dai pietismi del senso comune. In questo si nota una vicinanza con Nietzsche, con un certo modo di trasvalutare i valori, di rovesciare e scuotere per destare all’aurora come novum. In Thomas Lips (1975) il rasoio sul ventre assottiglia la separazione tra esecutrice e spettatori facendo esplodere l’inesorabilità di un conflitto etico sull’ipotesi di intervento per soccorrerla. La materialità e la traccia organica fanno risuonare un’autenticità ormai perduta nella mistificazione del virtuale organizzato dove l’elemento al centro dell’atto estetico non è mercificato ma, anzi, denuncia una mercificazione veramente alienante a causa del falso mito social o reality. Abramović intesse una realtà cruda perché viva dove l’inesorabile è lì a conferma della nostra insuperabile finitezza ed immanenza. La corda e la freccia di Rest Energy (1980) rappresentano la fenomenologia dei limiti sempre in bilico, quell’inesorabile alla porta che funge da memoria comunicativa per rammentare che fugacità e corporeità hanno un comune destino. Il rischio dell’assenza è dietro l’angolo nella sua definitività e un’altra assenza, quella della sicurezza borghese, si staglia con forza. Bataille, parlando di Goya, afferma: «La radicalità moderna – l’abolizione dei sentimenti convenzionali, il silenzio – è costituita da una violenza interiore che ne è l’essenza»[2]; “violenza” che Abramović ha reso palpabile, arrivando ad una fenomenologia della determinazione, così come il teatro della crudeltà di Antonin Artaud[3].
La smania della realtà si fa atto di denuncia in Marina Abramović quando la macellazione è un vortice che coinvolge tutti e non soltanto paesi in guerra in terre lontane; così Balkan Baroque (1997) rende il sangue e lo smembramento un gesto che attraverso l’estetica diventa comunicabile, si annoda alla gola delle genti del mondo come una responsabilità che, seppur rifiutata, grida e strepita il suo legittimo avvinghiarsi a quel che resta della coscienza politica. Chi osserva è incastrato nella non rinviabilità della scelta, come una conferma di quella condanna alla libertà decretata da Jean Paul Sartre. La “porta chiusa” non accetta interpretazioni o vie d’uscita tra i significati, ma necessita ed obbliga alla decisione. In un acuto saggio Gillo Dorfles lega la scelta al tempo stesso della sua irrevocabilità ed indifferibilità: «Il tempo – e quindi la durata, il consumo, l’obsolescenza – costituiscono delle costanti del fare artistico e delle “scelte” compiute dall’uomo»[4]. Al “fare” di Abramović sottrarsi vuol dire essere universalmente colpevoli.
Vi è una persistenza divenuta filosofia. Ecco l’uso della ripetizione che affiora nelle opere dell’artista serba, solcate da un’ossessione verso l’immobile reiterato da metamorfosarsi in pura differenza. I due pettini di Art Must Be Beautiful (1975) legano gli astanti ad una ciclicità che quando sembra assestarsi in monotonia varia in intensità e sfoga la carica accumulata in ferita reale; tuttavia, il gesto non muta e la frase che dà il titolo alla performance non perde vigoria e tono a dimostrazione che l’arte ha bisogno di un lungo, lunghissimo tirocinio estenuante e che non accetta mediocrità. La nudità della ripetizione ricorda i licenziosi disegni di Gustav Klimt, le sue donne immerse nell’eros mortale e nella morte erotica sintesi della condizione umana[5]. L’arte diventa un fastidio, un esser messi spalle al muro dal momento che non rinuncia, neanche nell’idillio apparente, ad interrogare superfici e profondità. Nella rete della ripetizione vincolante c’è anche il linguaggio, nugolo di espressività a cascata come ouverture rossiniana, complice dell’atto artistico teso a rafforzare la monotonia che in fondo è pluri-tonica; Freeing The Memory (1976) è un esercizio che solca l’estenuante restituendo un bombardamento scomposto entro cui le parole e la loro potenza si sono adagiate, colpite e freddate dalla compulsione indifferente delle parole d’ordine dell’informazione che è chiacchiera dilagante. L’inconscio è tornato a poter essere ascoltato, avvertito come potenza desiderante coinvolgendo voce, corpo e memoria in una trilogia che oltre a Freeing The Memory concerne Freeing The Body e Freeing The Voice sempre nel ’76. Elementi che tornano alla nudità attraverso la costanza della persistenza, un metodo filosofico che non riguarda in alcun modo voli mistici di distaccamento dal sé ma, inversamente, riappropriazione dell’essenza terrestre dell’essere umano. Marina Abramović apre così la sua Venere, ricordando un celebre saggio di Georges Didi-Huberman dove si precisa che: «Nudità che appare, nudità aperta, uccisa, nudità che fugge e torna sovrana sotto i nostri occhi»[6].
La persistenza diventa presenza scomoda, incipiente, massiccia quando lo spettatore sceglie di fronteggiarla de visu senza barriere, mediazioni di massa, filtri volgari; lo sguardo della Abramović non incute, non vezzeggia, non rinvia ad altro se non alla presenza-assenza dell’arte stessa introiettata ed estroflessa nel puro materico della corporeità. The artist is present del 2010 narra tutto questo, è l’evento della persistenza che cerca il proprio sapere fino allo sfinimento (allucinata durata di 736 ore) e mina la categoria stessa di imperturbabilità. L’arte sparisce come forma della sua più immediata presenza, forza e potenza performativa e non nasconde una certa ironia come ricorda Baudrillard. Il corpo si fa arte e permette all’arte di tornare a visibilità portando con sé l’intera classicità con tutte le sue variazioni, alternative e riprese. La scultorea greca, come l’ambiguità fiamminga, la perizia seicentesca come il nero-scaturigine, fino all’informale e all’astratto tornano nello sguardo di Marina Abramović che appartiene alla storia dell’arte. L’urgenza contemporanea è percorrere l’assenza come l’unica presenza possibile, viatico emancipativo e rivoluzionario anche in senso politico mai scisso dall’estetica. L’eredità surrealista della scrittura automatica ha ancora traccia nell’opera dell’artista serba così come nella formula della scrittura di scena nel teatro di Carmelo Bene o nelle strategie registiche di Fernando Arrabal; l’indicibile e l’irrappresentabile sono inscenati come oscenità e oggi, per la Abramović come artista al tempo della globalizzazione delle immagini, questo fuoriuscire dalla scena non può che darsi nella ripetizione e nell’inesorabile, significanti di libertà che coinvolgono tout court la vita. Quella “seconda realtà”[7] dei surrealisti è ritrasferita nell’emergenza del tempo attuale come un’incisione profonda dentro il quotidiano stesso, dentro il corpo consueto dello spettatore rovistato e censito dall’artista Marina Abramović con la finalità mai prevista di mutare le ricezioni del reale.
Il pericolo e la vicinanza del baratro esprimono la vocazione dell’arte a parlare dal punto di vista della finitezza e dell’immanenza, ovvero dalla realtà stessa. Afferma laconico Arrabal: «Intorno a me è nato l’impulso a giudicarmi e l’abitudine di pregiudicarmi»[8]. Per Marina Abramović vale lo stesso, il complicato dell’esistere è mostrato già dall’immobilismo di uno sguardo, di un reclinare il capo, del gesto di sedersi; l’imbarazzo suscitato da Imponderabilia (1977), quel passaggio tra due corpi nudi in una strettoia, relega la vitalità del moto ad una decisione, ad una scelta come un richiamo al reale che confonde l’accessibilità virtuale con il faticoso essere immersi nel concreto. A suscitare tale sostanzialità è il corpo, ago dello sbilanciamento di Marina Abramović che si fa eco lungo la scia di assenze, sia che si tratti di muri bianchi, di sguardi inespressivi, di silenzi, di inabilità gestuali.
La grandezza dell’arte di Marina Abramović si rapporta all’inesorabile in analogia alla ripetizione per fondare un’altra comunicazione possibile che sia fuga nel reale e non dal reale; la materialità delle installazioni interattive condensano i tratti di un simulacro che non è specchio illusorio di realtà, né qualcosa che “sta per altro”, ma immersione in un territorio che torna a poter essere esplorato, il cosmo stesso. Il limite del corpo è sperimentazione dell’abitare la terra, dell’entrare in relazione con l’alterità quale dimensione di esistenzialità. Lo spirituale non entra in questo tratto poiché la persistenza richiede, insistendo, uno “stare qui”, un nietzscheano “tornare alla terra”. L’anima è il corpo che conosce, è materia organica in moto, vitalità compromessa poiché “messa con” altri (vegetali, minerali, animali). Il profilo materico estenuato delle sculture di Alberto Giacometti ha sempre affascinato la Abramović che dinanzi ad esse, in un’azione-intervista del 2017[9], interagisce con il proprio corpo imitandone le posture, cercandone con le mani il contorno e un’ipotetica afferrabilità a riprova del fatto che la materia è un’entità dialogante e dialogabile, consistenza dell’esistere in fieri. La dismissione della carne in Giacometti restituisce alla materia la visibilità tangibile della sua pienezza creando una vera e propria “galassia” dove ad interconnettersi sono natura, corpo e materia.
Il “metodo Abramović” irrompe negli scenari del quotidiano e chi ne accetta l’invito ne sperimenta d’altro canto la forza, a volte violenta nel senso della determinazione con cui è attivata, perché seguire la libertà è farsi carico del corpo che ne rende performance i gesti. L’assenza estetica è una presenza che può scardinare mode, mercificazioni, mistificazioni e standardizzazioni attuali, dove l’eccesso è diventato una maschera ipocrita perdendo quel brulicare osceno che fa di un’opera un evento. Marina Abramović persiste nell’invito a comprometterci realmente con e per l’esistenza cercando nuovamente quanto lega natura e storia alla terra stessa. Come scrive Virilio: «Le assenze possono essere davvero numerose, molte centinaia al giorno, e il più delle volte passano completamente inavvertite ai presenti»[10]. L’opera di Marina Abramović persiste e persisterà nell’avvertirci.
Immagine: Marina Abramović, Anima Mundi, performance (1983).
[1] J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, a cura di E. Grazioli, Abscondita, Milano 2012, p. 14.
[2] G. Bataille, Manet, tr. it. di G. Alberti, Abscondita, Milano 2013, p. 39.
[3] Cfr. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, tr. it. di E. Capriolo-G. Marchi, Einaudi, Torino 2000.
[4] G. Dorfles, Dal significato alle scelte, Einaudi, Torino 1973, p. 73.
[5] G. Klimt, Disegni contro la morale, a cura di A. Bandinelli, Stampa Alternativa 1993.
[6] G. Didi-Huberman, Aprire Venere, tr. it. di S. Chiodi, Abscondita, Milano 2014, p. 73.
[7] Cfr. A. Hauser, Storia sociale dell’arte, volume secondo Rococò. Neoclassicismo. Arte moderna e contemporanea, tr. it. di M.G. Arnaud, Einaudi, Torino 1977.
[8] F. Arrabal, Carta de amor, tr. it. di M. Palermi, Datanews, Roma 2005, p. 63.
[9] Per il video, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=fxVEMaPyPDQ
[10] P. Virilio, Estetica della sparizione, tr. it. di G. Principe, Liguori, Napoli 1992, p. 11.
Alberto Simonetti (PHD in Filosofia e Scienze Umane) ha studiato a Perugia, Firenze e Urbino. Tra le sue pubblicazioni: Follia e politica, deComporre, 2014; L’insavio, Morlacchi 2016; La filosofia di Proust, Mimesis 2018; Il penultimo del pensiero, Mimesis 2019. Ha scritto vari articoli per riviste filosofiche e culturali su temi trasversali.