Sembra non ci sia concetto più ovvio e banale di quello d’identità: “gli occhiali sono gli occhiali”, “il tuono è il tuono”, persino la noia di leggere quanto segue è senza dubbio immancabilmente identica a sé stessa. In fondo il principio d’identità indica la determinatezza di ogni cosa, quale che sia. Se le cose, ciascuna entità, non fossero identiche a sé stesse, la realtà non potrebbe neppure essere considerata un brodo primordiale e indifferenziato: lo indicheremmo pur sempre come un certo determinato “brodo”, non quello che ogni tanto sorseggio assieme alla mia signora. L’ovvietà e inutilità del principio d’identità è riconosciuta anche da alcuni filosofi – Ludwig Wittgenstein nella prima fase del suo pensiero a esempio (poi torna l’assillo) – che vorrebbero bandirla dalle espressioni intellegibili: in fondo dire che una cosa è identica a sé stessa non dice nulla, mentre dire che due cose sono identiche è un lampante non senso. Altri autori si sono al contrario scervellati sul busillis, ritenendolo fondamentale (il nostro Emanuele Severino). Come che stia la questione – non entro nel merito storico delle varie teorie a riguardo – anche il principio d’identità, come molte cose care ai filosofi, oscilla fra dilemmi prossimi all’imbecillità a pietre angolari del pensiero. In quanto segue vorrei anzitutto strologare un po’ su alcuni dei modi in cui la questione del significato del segno d’identità sembra seria, per poi concludere su un possibile aspetto del principio che non solo è davvero serio ma, almeno per me, misterioso.
Partiamo a esempio dalla nota formula E = mc2. L’espressione, almeno nella vulgata è letta di solito come se, a partire dalla fisica relativista, non si possano più “distinguere” le due grandezze: energia e massa (al solito moltiplicata ecc.).
Ora, a partire dalla famosa equazione il problema che si potrebbe porre è il seguente: che significato ha mai tale segno? Possiede un unico e specifico significato o può essere letto in molti sensi? Nonostante la sua apparente semplicità può essere interpretato in effetti in vari modi. Elenco alcuni di questi senza pretesa di completezza per poi arrivare a quello che più mi interessa e che, ce se ne renda conto o meno, in fondo interessa tutti, nel senso appunto letterale che tutti siamo (esse) nel suo mezzo (inter).
1) Se affermo “Luigi è (=) Il marito di Stefania.” l’identità sta qui a significare coreferenzialità: “Luigi” e “Il marito di Stefania” si riferiscono appunto alla medesima persona, il sottoscritto. Non può esser chiaramente questo il significato della famosa equazione perché non c’è uno stesso evento, cosa ecc. a cui i due (Energia ecc.) si riferiscano.
2) Posso poi leggere il segno come identità ontologica, come sorta di proprietà necessaria di ogni cosa. Ma a prescindere dall’esistenza o meno di una relazione in sé di identità (tu sei identico a te stesso) – relazione propriamente reale, esistente a tutti gli effetti, che dubito ci sia – come fanno due nomi diversi ad indicare un medesimo senza tornare al punto 1)? Ci fosse, questa pretesa identità ontologica sarebbe infatti espressa da A = A.
3) L’identità viene poi utilizzata in ambito diacronico allorché affermo che Luigi a t1 è il medesimo Luigi a t2, che io sono lo stesso in tempi differenti. Qui la cosa è più complessa e su essa ritorno alla fine, ma le due posizioni teoriche di base a riguardo – la prima detta criteriale, la seconda detta non criteriale – affermano: la prima che Claudio è identico in tempi differenti, e torniamo alla relazione del punto precedente; la seconda che Claudio è lo stesso F (la stessa persona, organismo biologico o quale che sia il criterio che permette la reidentificazione) nei due tempi. E, ovviamente, non può essere questo il senso di identità di E = mc2, perché o ritorniamo al punto precedente o Energia ecc. sarebbero la medesima sostanza o caratteristica in tempi differenti. Ma non c’è un terzo, un genere di cui i due siano il medesimo esempio.
4) Si può poi pensare che il segno sia di “riduzione”. Posto che M = E (dove M sta per mentale, ed E per fisico), se leggo l’identità da sinistra a destra sono un materialista, se la leggo da destra a sinistra, affermando che un evento fisico è identico ad un evento mentale, sono idealista. Il segno – se non vuole essere utilizzato dogmaticamente, senza ragioni – suppone che io porti in tal caso argomenti per far capire come un evento mentale sia in effetti un evento fisico, l’unico ad esistere. O viceversa! Ma ovviamente non può essere neppure questo il senso di E = mc2, perché l’espressione non è riduzionista, infatti posso leggerla, indifferentemente, da sinistra a destra e da destra a sinistra. Da tener presente che alcuni (filosofi) la leggono in tal senso, anche se non mi sembra proprio aver senso.
5) Chiaramente l’espressione non può essere una “tautologia”. Questa è una formula non atomica vera in ogni caso tipo p V ̴ p = non (p e ̴ p) ecc. L’espressione è invece costituita da costanti.
6) Giusto per menzionare una possibile confusione il segno “=” non ha, nell’equazione fisica, il senso di “uguale” che possiede, ad esempio, nell’espressione “Franco e Giovanni (gemelli monozigoti) sono davvero identici!”. Il segno, in quest’ultimo caso, indica una relazione a tre termini (e non una relazione riflessiva) tale per cui “Franco e Giovanni sono uguali in F” (ad esempio, tratti somatici, altezza ecc.) e quindi, necessariamente diversi in altro (occupano spazi differenti ecc.). Non per nulla in politica, se si propende per l’uguaglianza in qualcosa, si propende per la differenza in un’altra: se distribuisco a tutti in parti uguali, per ogni individuo, il prodotto totale di una comunità, la diversità di capacità lavorativa non viene considerata, le differenti e individuali abilità nel produrre non vengono godute dai loro autori. Giorgio è più intelligente, forte e genericamente idoneo di me, ma parte del suo prodotto viene distribuita fra tutti.
7) Arriviamo così a un punto importante che, per quanto strano possa sembrare, a volte confonde. 3 + 2 = 5. Qui non è che due numeri, più il segno di addizione, siano identici a un altro (non ha senso). L’equazione va letta come tale. Vale a dire 5 è il risultato dell’operazione (regola) d’addizione 3 +2. Ebbene, poiché il segno di identità nelle scienze naturali sembra, formalmente, possa essere inteso solo come equazione, quindi il risultato di una operazione, ciò che esso dice è che ogni volta che utilizzo E, posso sostituirlo con mc2, e viceversa, salva veritate, come posso sostituire 3 + 2 con 5 senza che cambi la verità di una equazione. Ma ciò vorrebbe dire, punto al solito meramente formale dato dal significato di =, non solo che le due non sono la stessa grandezza, come 3 + 2 non è lo stesso numero di 5, ma anche, tale il punto che non capisco nella vulgata, che non sono affatto “indistinguibili”: se non li distinguessi – e, aggiungo, se non me ne facessi il concetto attraverso esperienze distinte – non potrei neppure sostituire l’uno all’altro salva veritate. Come la legge solitamente un fisico? Rispettando le indicazioni sul concetto di identità dato, l’unico modo sarebbe analogo all’ultimo, quello dell’operazione. Forse continuo a strologare ma il punto è importante per riflettere sul concetto di regola e per chi crede che le entità numeriche esistano platonicamente a prescindere dalle menti che le pensano (platonismo matematico). Che possano esistere numeri in sé, per molti è idea digeribile, ma che esista anche in sé la regola dell’addizione, lo è molto meno. Come può esistere in sé stessa una regola indipendentemente dall’essere applicata? Mistero glorioso.
8) Torniamo ora ad una possibile lettura del punto 6), la questione per me misteriosa. Io sono più che convinto di essere in qualche senso lo stesso Luigi da quando sono nato a ora che sta scrivendo. Alcuni filosofi – Hume a esempio, o ai nostri tempi Derek Parfit – ritengono che quello che chiamo soggetto permanente – Luigino che è adesso Luigi – è in realtà una pluralità di entità distinte, che hanno comunque in comune una serie di proprietà. Il sunnominato Parfit pensava anche che la consapevolezza di tale verità potrebbe anche essere liberatoria: perché mai dovrei preoccuparmi di prendere domani il Covid e lasciarci le penne, chi ci lascia le penne non sono IO! Ora, a parte il fatto che le penne, parfitianamente, le perdo lo stesso di continuo, il fatto che “i tagliatelli”, come li chiamano a Perugia, di cui godrò stasera se le mangi un altro, non sembra certo prospettiva di cui godere. Più seriamente Parfit non tiene conto di due fatti: a) come soggetto pensante non ho solo credenze vere o false sul mondo ma anche intenzioni. Se intendo mangiare stasera le tagliatelle voglio causalmente far sì che un evento sia conforme appunto al mio contenuto intenzionale, voglio che il mondo dopo sia conforme a quanto intendo ora. Togli il permanente e svaniscono le intenzioni! b) se dico, proferisco, le parole “oggi è una bella giornata” e, nanosecondo (miliardesimo di secondo) per nanosecondo, perdendo e acquistando atomi, non sono il medesimo, la banale frase espressa non avrebbe senso, come non lo avrebbero le parole dei testi di Parfit. “Oggi”, “è”, “una” ecc., parole isolate e indipendenti, sarebbero infatti, isolate, entità linguistiche prive di significato, il significato lo esprimono solo all’interno della frase e questa suppone che, nel tempo, il soggetto che la dice o pensa sia il medesimo; c) ma poi, in che senso, almeno a ogni istante, il soggetto è una unità? Questo Parfit lo suppone. Se non sono in qualche senso identico diacronicamente, non sono qualcosa di determinato, un medesimo, neppure sincronicamente. Forse, l’idea che l’essere umano sia fatto necessariamente di tempo non è eccessivamente balzana.
Eppure, eppure, questa povera indicazione sulla necessità della mia permanenza, della mia identità sincronica e diacronica è assai poco. Non ero quindi lo stesso da “piccino piccino”, non ancora in grado di pensare e parlare? Ma soprattutto il problema è capire cosa è identico in me con il passare dei giorni. Nonostante l’esempio fatto, in ciascuno di noi, tutto cambia: biologia, pensieri, speranze ed emozioni. Il problema ha assillato a partire dal filosofo John Locke schiere di autori e nelle teorie successive al dopoguerra è diventato un tema costante.
Non riassumo le varie concezioni e i tentativi di salvataggio del “mio caro io”. Fatto è che non ne trovo davvero convincente nessuna. Pensa: se c’è qualcosa di semplice che permane in me nel miodivenire e che appunto permette l’uso del pronome e dell’aggettivo personali, anche se lo ammettiamo, non si capisce come tenga insieme tutto il resto del continuo e ininterrotto farsi dei miei aspetti corporei e mentali. Se penso invece che a permanere è un complesso, il “sistema corporeo” in senso lato, dovrò pur trovare un elemento che permane e permanendo tiene unito il sistema. Così, però, si ritorna all’esigenza del semplice.
Nel nono e settimo secolo A.C., nel periodo omerico (l’indicazione mi viene da Donato Lo Scalzo che ringrazio) sembra che gli antenati della cultura occidentale indicassero con “Psyché” il vapore condensato che esce dalla bocca quando fa freddo. Tale arcaico tentativo di soluzione dell’enigma unità potrebbe oggi far sorridere; in realtà è almeno tanto intelligibile quanto i tentativi moderni e contemporanei di rintracciare l’ineffabile cosa che costituisce il sé. “Soma”, fra l’altro, non significava allora “corpo”, tale significato comincerebbe con Platone, ma “cadavere”. Come dire: di un individuo si indicavano, braccia, gambe, testa, le parti di quello che noi consideriamo corpo. Non ci si azzardava a indicare il “medesimo e permanente quid materiale”, la sostanza, che per un certo tempo sfida il divenire. Per questi nostri antichi progenitori ciò che davvero permane, almeno per un po’, appare paradossalmente proprio quando non ci siamo più. Il pensiero arcaico molto spesso coglie il fulcro di una questione. Non di rado, dopo aver colto il fulcro, gli esseri umani cercano per secoli di dipanare la matassa perdendosi fra i suoi fili. Ovviamente anche i nostri antichi progenitori usavano, almeno da un certo stadio di sviluppo linguistico in poi, nomi e pronomi personali con cui indicavano in tempi diversi Tizio o Caio. Il fatto è che – si può presumere – l’unità essenziale di Tizio e Caio, anziché essere individuata con successo dalla mente, veniva umilmente avvolta in un’atmosfera vaga e sacrale. Così, anche il mio caro “Io”, sarebbe qualcosa cui mi rivolgo vichianamente con animo turbato e commosso.
Luigi Cimmino insegna Gnoseologia e Paradigmi Etici all’Università di Perugia.