Privacy Policy Breve nota su Paterson. Un film di Jim Jarmusch e un poema (epico?) di William Carlos Williams.
Vol. 14, n. 1 (2022) Giorgio Pangaro Letture Spettacolo

Breve nota su Paterson. Un film di Jim Jarmusch e un poema (epico?) di William Carlos Williams.

Cinema e letteratura (poesia). Prologo.

Fin dalle sue origini il cinema ha flirtato con la letteratura. Se da una parte, coi Lumière, prendeva avvio il filone di cinema /realtà, il documentario in tutte le sue forme e varianti, dall’altra con il genio di Georges Méliès il debito con la letteratura veniva contratto fin dall’inizio.

Grandi romanzi sono stati adattati per il cinema e raramente hanno esitato in grandi opere, più frequente, molto più frequente, il caso di opere letterarie minori che hanno conosciuto il successo e vengono ricordate per aver dato origine a dei capolavori della cinematografia.

Non staremo a fare un uggioso elenco, notiamo solo che da subito il cinema di finzione assume come proprie grammatica e sintassi della letteratura, tradotte ovviamente in immagini, scansioni temporali e tecniche di ripresa e montaggio, che via via evolvono a farne un linguaggio universalmente riconoscibile.

Parlando di letteratura viene abbastanza naturale il riferirsi alla prosa, ma pure la poesia ha avuto un ruolo, e non trascurabile, nell’industria cinematografica. Già nel 1911 esce L’Inferno di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan dove vengono sperimentati forse i primi effetti speciali della storia del cinema. È ancora cinema muto e i versi di Dante li leggiamo per brevi frammenti nelle didascalie, didascalie che perlopiù ci dicono, in prosa, quel che sta accadendo sullo schermo. Il vero tentativo di fare cinema/poesia, con una relativa autonomia dalla letteratura, viene con Dada e con il surrealismo, tra gli anni ’20 e ’30 del ‘900, è una stagione di esperimenti, rischi e provocazioni, che segnerà una svolta in tutte le arti e lascerà tracce che, per quanto riguarda il cinema, saranno ancora reperibili nelle avanguardie di fine secolo.

Ma la poesia nel cinema mainstream entra quasi sempre, per così dire, con un ruolo se non proprio accessorio quantomeno marginale. Esemplificando: la potenza rivoluzionaria della poesia in un film di grande successo come L’attimo fuggente (Dead Poets Society,1989) è marginale, anche se importante, rispetto alla narrazione delle relazioni che si vengono a creare dentro un collegio, e che di fatto costituiscono l’essenza della narrazione. Altro esempio Il giovane favoloso, di Mario Martone con un bravissimo Elio Germano nel ruolo di Giacomo Leopardi. La poesia c’è ma sta tutta nella testa del protagonista. Si tratta di una accurata ricostruzione biografica della vita di un poeta, in cui, giustamente d’altronde, si rischia davvero poco o nulla nel tentare di far capire come e perché il poeta abbia scritto la poesia che ancora leggiamo.

Sono solo due esempi, tra i molti che si potrebbero fare, ma ci risparmiamo le liste che sono facilmente reperibili in rete.

Jim Jarmusch

Laureato in letteratura alla Columbia University, Jarmusch conosce il successo fin dal suo film d’esordio, Stranger than Paradise del 1984, Caméra d’or a Cannes e molti altri premi e riconoscimenti. Divenuto ben presto un’icona del cinema indipendente, la filmografia di Jarmusch si caratterizza per una serie di opere che, pur nella diversità di soggetti e ambientazioni, si concentrano sostanzialmente su un’umanità marginale. Vampiri, sbandati, asceti, sono molto diversi gli uni dagli altri ma tutti connessi da una ricerca di senso, E le modalità possono essere le più lontane tra loro, dalla via ascetica del Bushido (codice etico dei Samurai), seguita dal killer di Ghost Dog, al viaggio iniziatico del contabile William Blake in Dead Man, dalle apparentemente insensate peripezie del protagonista di Broken Flowers all’evasione dei tre balordi in Daunbailò. Tecnicamente il cinema di Jarmusch, fatto di piani sequenza e immagini statiche concede poco allo svago, ricco di richiami simbolici molti dei quali direttamente, e ironicamente, provenienti dalla letteratura (dal citato contabile William Blake al vampiro Christopher Marlowe, sono visibilmente i più eclatanti, ma non si contano quelli più nascosti e mimetizzati), è un cinema fatto anche di attori feticcio che ripetutamente compaiono, talvolta per brevi camei ma spesso con ruoli di rilievo. John Lurie, Tom Waits, Johnny Depp, Tilda Swinton, Bill Murray, ecc

Nel 2016 esce Paterson, ad ora è il penultimo film di Jarmusch, seguito solo da I morti non muoiono (2019). La storia, scandita per giornate, narra una settimana nella vita di una coppia. Una coppia di giovani sposi del tutto ordinaria, lui un autista di autobus lei una casalinga forse un po’ eccentrica e con un qualche estro creativo. Inoltre c’è un cane, Marvin, che per quasi tutto il film è solamente un cane come tanti altri, ma che verso la conclusione giocherà un ruolo fondamentale, e che non anticiperemo se non per dire che sarà grazie a lui, ovvero a causa sua, che ci verrà data la più lapidaria definizione di poesia che io ricordi.

Una tranquilla routine, segnata qua e la da lievi scostamenti, piccoli scostamenti che, almeno all’apparenza, incidono poco o nulla sul loro tran tran. Lui si alza presto al mattino, fa colazione, esce e va al lavoro. Il suo nome è Paterson e guida l’autobus per le strade di Paterson  (New Jersey). Rientra dal lavoro, lei gli racconta quel che ha fatto durante la giornata, cenano, poi lui esce per portare a passeggio il cane e andare al bar a bere una birra. Quattro chiacchere col barista, nel quartiere si conoscono tutti e non c’è mai molto da dire, perché come va la vita? Al solito, come stai? Al solito poco altro. Dialoghi laconici in una cittadina provinciale, un paesaggio urbano uguale a quello di tante piccole città americane, cioè abbastanza monotono e squallido. Jarmusch non fa nulla per rendercelo interessante, né inquadrature né tecnica di ripresa, niente trucchi. Il film si potrebbe quasi catalogare come una sorta di documentario sulla vita di provincia negli Stati Uniti nel ventunesimo secolo, non fosse che la cronaca (non però il film di Jarmusch!) ci riporta quasi quotidianamente di sparatorie, spesso con molte vittime innocenti, che avvengono proprio in queste apparentemente tranquille cittadine americane.

Di anomalo, in questa storia, nell’insieme abbastanza banale, c’è solo un piccolo particolare: Paterson, guidatore d’autobus, è un poeta. Un poeta piuttosto renitente a pubblicare le sue poesie, ma che come memento nel suo cestino della colazione insieme alla fotografia di sua moglie tiene un’immagine di Dante Alighieri.

Quel che fa di lui un poeta, sembra dirci Jarmusch, è la sua attenzione, la sua capacità di guardare e vedere, di sentire e ascoltare, le persone e le cose, il mondo intorno a lui, con il cuore e con la mente pronti ad accogliere tutto, anche i trilioni di molecole che il suo corpo sposta nel muoversi, insieme ai trilioni di molecole che poco più in la se ne stanno in quiete. Il film prova a mostrarci, e a me pare riesca nell’intento, come in Paterson nasca l’impulso (preferibile ad ispirazione, termine troppo segnato da una tradizione spiritualizzante ed aulica) a scrivere poesia.

Come una scatola di fiammiferi, descritta frase dopo frase nella sua misera semplicità, possa esitare in una piccola poesia d’amore. È una poesia che nasce dalle piccole cose, nella quotidianità delle relazioni tra le persone, nel saper guardare e ascoltare.

Poche inquadrature dello studio di Paterson ci mostrano la sua libreria dove, tra gli altri libri, possiamo intravvedere il Paterson di William Carlos Williams e una raccolta di poesie di Wallace Stevens. Quel che a prima vista può sembrare un inserto visivo tra gli altri è in realtà, io credo, il vero centro del film. Se vogliamo, con espressione spesso abusata, il messaggio che Jarmusch intende mandarci.

W.C. Williams (Rutheford 1883/1963), pediatra e poeta, autore prolifico di poesia e prosa, ha esercitato per tutta la vita la professione di medico e il mestiere di poeta, come dice Alfredo Rizzardi, curatore della prima, e unica e al momento credo introvabile, perché mai ristampata, versione del capolavoro di Williams. Paterson, pubblicato in cinque libri tra il  1946 e il 1958, è l’epos dell’America del ‘900, e viene dopo Leaves of grass, l’epos dell’ottocento, capolavoro di Walt Whitman. Se l’opera di Withman, peraltro opera molto amata da Williams, ruota tutta, e pare voglia far ruotare tutto l’universo, intorno  alla straripante vitalità del poeta, in Paterson l’attenzione del poeta è focalizzata su una piccola città, sulle donne e gli uomini che la popolano, sulle loro quotidiane gioie e miserie, che sono quelle di un tempo in cui il cosiddetto sogno americano ha già vissuto non pochi amari risvegli. In Paterson possiamo cogliere eco della Spoon River Anthology, una Spoon River che si dilata a comprendere un’intera città, con un linguaggio dove si avvicendano frammenti lirici, stralci di giornale, brani di corrispondenza, il poeta riesce e far emergere quanto vi sia di universale in ogni luogo e in ogni essere, a saper guardare e vedere, ascoltare e sentire con mente e cuore aperti.

Queste ripetute diadi, volutamente ripetute, a significare che non sono affatto sinonimiche, sono un altro dato, un invito, essenziale per comprendere il film e, soprattutto per comprendere e apprezzare la poesia, quantomeno questo genere di poesia.

Amico e sodale dei grandi poeti del ‘900 (Ezra Pound, T. S. Eliot, H.D -Hilda Doolittle-, Wallace Stewens, e molti altri), amico di pittori e musicisti, Williams fece il suo apprendistato poetico attraversando, e digerendo, tutte le correnti dell’avanguardia del ‘900, fino a trovare il suo stile, la forma giusta per il contenuto del suo mestiere poetico,  grazie alla professione di medico che lo portava quotidianamente a contatto con la realtà materiale della vita delle persone. Nessuno spazio alle elucubrazioni, agli arzigogoli mentali, all’auto commiserazione -la solitudine del poeta assiso sulle vette dello spirito. Ed è in una poesia di Williams che troviamo la più chiara e decisa espressione della sua poetica, il verso recita così:

Say it! No ideas but in thinghs”, “Dillo! Niente idee tranne che nelle cose”.

Il Paterson di Jim Jarmusch in sostanza io credo sia un buon viatico per capire, se non la Poesia, almeno una buona parte della poesia del ‘900.

 

Giorgio Pangaro, redattore di Studi Umbri, cura con Luigi Cimmino la collana di testi “Corpo a corpo” tra letteratura e cinema per Rubbettino Editore.

 

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