Una vita: compiuto appena nel 1829 il monumentale Guillaume Tell, Rossini smette a trentasette anni di scrivere opere e si consegna ad una disperata rinunzia, appena interrotta dalla “sacra conversazione” dello Stabat mater (1832 e 1841). Poi – prima del giorno di morte del 13 novembre 1868 – una messa da sola ritrova la misura dei vecchi capolavori: Petite messe solennelle a quatre parties avec accompagnement de deux pianos et harmonium, quasi un’ora e mezza di musica scritta a Passy nel 1863. Un ravvedimento? Forse, un tenero sguardo all’indietro e timide speranze pel giorno degli addii, come scrisse nella dedica: “È finita adesso, questa piccola povera messa. Avrò scritto sul serio musica sacra o la solita benedetta musica? Tu sai, o Signore, quanto fossi nato per l’opera buffa: poco sapere, un po’ di cuore, ecco tutto. Che tu sia benedetto e possa darmi il Paradiso. G. Rossini. Passy, 1863”.
Una morale: la scelta del genere sacro è acuta ed aggiornata. Appena tre anni prima Rossini “lamentavasi anch’esso della decadenza per la musica da chiesa in Italia ricordando con entusiasmo le creazioni sublimi di Pierluigi da Palestrina o Benedetto Marcello”. Ma la querela era di vecchia data, e vivace in Germania dagli anni di Tieck (1796) ed Hoffmann (1810): in epoca di decadenza – chi non crede fermamente di vivere in pessimi anni? – la musica sacra potrebbe ricordare ai maestri rigore, impegno e serietà.
E dopo tutto il testo della messa, variopinto com’è, pronto a trascorrere dal lamento del Kirie all’allegrezza scapestrata del Gloria, è un testo adatto per eccellenza a Rossini se dobbiamo credere al brindisi che tal Giovanni Raiberti gli lesse in un banchetto, tornando a casa il maestro nel 1838:
Gh’è novitaa, gh’è foeugh, gh’è frenesia,
gh’è on corr semper de trott o de galopp,
on avegh semper robba de trà via,
on trasà fina el bell perché l’è tropp
e buttà in d’on spartii tanti motiv
che on alter ghe n’ha assee per fin ch’el scriv.
Sfidi a trovà situazion del coeur,
vizzi, virtù, che lu nol metta lì
con quell brutt, con quel bell, con quell grandeur
che l’è impossibil de fa mej de inscì!
La “piccola” ultima Messe nasce sotto il segno di Mozart: le note del pianoforte staccate e separate dalle pause nella destra e sinistra, il segno caratteristico all’attacco della Messe, evocano il “basso” nel Requiem; mentre il motivo dell’harmonium ne riprende il fagotto. E poi tutta la nostra introduzione riporta quasi parola per parola la lievissima ascesa della melodia al basso sino ad una parabola celeste, proprio come in Mozart. Ne traggo conclusioni importanti: Rossini inaugura l’ultima opera sotto il segno della liturgia funebre, e s’affida alla protezione del grande Amadeus, il modello di sempre, la vita gli aveva fatto da guida.
Diremo subito che v’è un’unica aggiunta al testo tradizionale della messa, il cosiddetto ordinarium e si tratta del penultimo brano O salutaris ostia per l’appunto. Avrà voluto da una parte ritardare per poco il folgorante ultimo episodio, onde aumentarne l’effetto. E dall’altra gli tornava comodissimo il testo: “O salutare ostia che apri le porte del cielo, quando verrà la guerra tremenda dammi tu forza e aiuto”, parole che preparano molto bene il prossimo avvento della pace (“Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dacci la pace”). Insomma dopo la memoria della guerra (O salutaris hostia) più grato soccorre il conforto della pace (Agnus Dei).
Una piccola licenza rispetto al testo si prese dunque Rossini. Che però sapeva i suoi doveri: chi scrive sacro, deve saper scrivere “a cappella” (cioè brani di voci sole senza accompagnamento d’organo o d’altro). Ed ecco – dopo il breve Christe eleison iniziale – tutto il Sanctus in bocca al solo coro, per ricordarci che la voce umana è più che gli strumenti, vicina al Signore. Il lungo intermezzo strumentale che gli si contrappone accenna ad altri modelli ed altri maestri: il tema della fuga appartiene al Clavicembalo ben temperato di Bach ed esattamente alla 16 del primo volume, salvo poi scegliere per la fine atteggiamenti più ’“espressivi” e mettersi sulle tracce d’una barcarola di Mendelssohn (vogliamo leggere, per credere, l’op. 30 no. 6?). Il passaggio al Sanctus a cappella lo assicura un Ritornello conciso e sostanzioso al tempo stesso, minuscolo quanto un preludietto di Muzio Clementi, ma in verità autentica introduzione: per capirci guardate all’esordio del second’atto di Norma (Vincenzo Bellini, 1831)!
Così abbiamo disegnato la trama: l’intermezzo di musica pura (Preludio religioso), un breve preludio (Ritornello), l’episodio a voci sole (Sanctus), il numero per la suspense (O salutaris hostia), la fine meravigliosa (Agnus Dei). La quale è di quelle di cui si vorrebbe non parlare, nel timore d’infrangerne l’incantesimo. Gli accordi coll’appoggiatura che l’introducono posseggono la desolata tristezza del pianoforte all’inizio del Leiermannschubertiano. Per tre volte il contralto solo intona la prima sezione del testo (salendo sempre più in alto nell’abbellimento conclusivo) e due volte il coro senza accompagnamento gli risponde colla propria preghiera, “Dona nobis pacem”, “la preghiera d’una pace esterna ed interiore” (diremmo copiando parole di Beethoven). Col sentimento di consolazione che appartiene, ahimè, ad ogni fine, i cantori, badate, enfatizzano “pacem” mentre il contralto seguita a proporre il suo “miserere”: quelli recuperano, rispetto al solista, il ruolo del coro classico, rappresentare più del singolo la paura dell’uomo solo.
Da ultimo il colpo di scena: solista e coro cantano insieme, conservando prevalentemente la ripartizione del testo cui ho appena accennato, fondendo le quattro voci più il solo, i frammenti d’un canto se possibile ancora più suggestivo, e per due volte l’armonia – con identico cammino, perviene al culmine. Sulle soglie dell’explicit non poteva mancare la ripresa delle prime righe, ed allora l’accordo diviene fulmineo e sorprendente maggiore.
Si chiederà a tal punto lo spettatore se una scrittura tanto consapevole prevede almeno in qualche occasione dettagli rappresentativi, che conferiscano al “libretto” alcunché di teatrale come t’aspetti da un operista nato quale Rossini. All’“Et incarnatus est” (dal Credo) usa una vecchia figura fatta dalle quattro note discendenti d’un frammento di scala, il cosiddetto “basso di lamento”. Il Crucifixus del soprano poi è preceduto infatti da una serie di MI bemolli unisoni, su registri diversi, pianissimo al basso, forte quelli acuti colle due mani che percuotono letteralmente la tastiera: io sono portato a credere che Rossini abbia voluto inscenare dal vero i colpi del martello che inchiodano il Salvatore sulla croce. È infine del tutto “rappresentativo” il compito del pianoforte nella sezione centrale dell’O salutaris hostia, “quando verrà quella “terribil guerra”, di cui abbiamo già detto.
Obbediamo anche noi al gusto di Rossini, e felici della ripetizione copiamo di nuovo la preziosa dedica autografa: “Bon Dieu, la voilà terminée cette pauvre petite messe. Est-ce bien de la musique sacrée que je viens de faire ou bien de la sacrée musique? J’étais né pour l’opera buffa, tu le sais bien! Peu de science, un peu de coeur, tout est là. Sois donc beni et accorde-moi le Paradis”. Se lo meritava per certo, “con quell brutt, con quel bell, con quell grandeur che l’è impossibil de fa mej de inscìc!”.
Marco Grondona, allievo di Antonio La Penna alla Scuola Normale, ha insegnato Letteratura latina e Storia della Musica all’Università di Pisa. Ha pubblicato diversi studi musicali, in particolare sulle forme del Rossini serio (La perfetta illusione e Otello). La vocazione specialistica al commento ha prodotto lavori su Madama Butterfly, Suor Angelica e Tosca. Nel 2018 ha pubblicato con Ilaria Conserva un commento alla Medium di Giancarlo Menotti. Nel recente Stile tardo in musica, edito dalla fondazione AREA, sono presenti due ampi saggi sui capolavori ultimi di Beethoven e Richard Strauss. Per la stessa fondazione nel 2018 «Cattiva musica» e paradisi perduti, sui rapporti fra musica colta e produzione «leggera». Il suo amore per Todi, città natale, lo ha portato a scrivere molti testi di “storia locale”, tra cui Le stazioni di ieri, un saggio sul Tempio di San Fortunato, e soprattutto l’ampliamento di Todi storica e artistica, un testo la cui prima stesura si deve al padre Carlo. Per questi suoi lavori, nel 2017, gli è stato assegnato il Premio “Raccontami l’Umbria in un libro” nella manifestazione “L’isola del libro” di Passignano.