Il bellissimo titolo di questo intervento non è mio, ma di Luigi Cimmino. Luigi l’ha usato qualche anno fa per una sua nota critica al libro sulle emozioni di Marta Nussbaum (La mente appassionata, Quaderni di Teoria Sociale, n. 5, 2005, pp. 523-538). Gli argomenti in questione sono coinvolgenti. La nostra cultura occidentale e razionale ha fatto le sue fortune sezionando e dividendo, frantumando soggetti, natura e società in parti sempre più piccole e controllabili, al fine di una conoscenza che potesse rendere possibile l’intervento umano, soprattutto di tipo tecnico-scientifico. Una delle fratture più significative, e che più la caratterizzano, è quella che mette da una parte la ragione, e tutto ciò che può essere definito razionale; dall’altra, le emozioni, e tutto ciò che può essere definito irrazionale. Mente e corpo; razionalità ed emozioni; uomo e natura; e così via: la lotta per il dominio e il controllo vede da un lato le forze della razionalità, dall’altro quelle della irrazionalità. Ecco così che le passioni sono inevitabilmente cieche; le nostre emozioni sono qualcosa da controllare e gestire; l’uomo razionale non si deve scomporre e impassibile ergersi a signore del mondo.
Le cose stanno cambiando: una parte significativa delle idee che attraversano questo inizio di secolo sta mettendo in discussione una visione così semplicistica, in nome della interdisciplinarità e di un approccio maggiormente olistico. Anche la ragione, in virtù delle sue stesse capacità cognitive, si sta sempre più facendo consapevole del fatto che ogni divisione porta sempre con sé qualcosa di arbitrario e quindi di non definitivo. Ciò che veramente interessa è l’insieme, la fitta rete di relazioni e di connessioni che costituisce il mondo in cui abitiamo e la nostra stessa essenza più profonda. Ritengo sia una questione decisiva, che attraversa tutte le discipline, dalla medicina alla biologia; dalla chimica alla fisica; per non parlare poi delle scienze sociali e umane. E si tratta di una questione eminentemente filosofica, perché riguarda alla radice il nostro modo di rapportarci con la realtà.
A mio parere, ciò che fa di Luigi un filosofo, ancora prima di un professore, è la sua capacità di vedere l’insieme delle questioni: non è uno specialista, ma, per l’appunto, un filosofo, nel senso autentico e classico del termine. Si è occupato di molte questioni tipiche della filosofia (dei concetti di tempo, di identità, di causa, di etica, di regola, ecc.), confrontandosi con i giganti della filosofia (Aristotele, Kant, Wittgenstein, solo per citarne alcuni), sempre guidato da uno sguardo che, attraverso l’analisi, è interessato alla sintesi, a ricomporre i singoli frammenti, a ricostruire le relazioni, i nessi che legano tra di loro i singoli temi e i singoli approcci. E sempre stimolato da una curiosità che lo spinge a interessarsi di storia, di politica, di sociologia, di antropologia e di psicoanalisi, solo per citare alcuni campi con cui si confronta e con i quali mi ha sempre spinto a confrontarmi. Oltre al fatto di essere forse il più grande lettore che io conosca (Nabokov, McEwan, Landolfi sono tra i suoi autori preferiti) e un raffinato esperto di cinema.
Perché allora le emozioni? Si tratta di un tema che può apparire marginale, ma che a mio avviso testimonia, al tempo stesso, la sfida culturale cui siamo tutti davanti oggi e la curiosità intellettuale di Luigi. La questione è importante e antica. Può essere tecnicamente riassunta con una semplice domanda: cosa distingue una sensazione da una emozione? Che differenza c’è, tanto per fare un esempio, tra il dolore che provo se sbatto il ginocchio su uno spigolo (sensazione) e il dolore che provo per la perdita di una persona cara (emozione)? Una risposta plausibile mette in gioco le relazioni tra ciò che provo e ciò che penso: una emozione può essere vista come una sensazione più una credenza. L’emozione mette in moto l’anima e il pensiero, insieme! Se provo dolore per la perdita di una persona cara è perché credo che quella persona sia per me importante: la mia credenza nei suoi confronti la seleziona tra le migliaia di altre persone che mi sono indifferenti, che per me fanno meno differenza. La stessa cosa vale, per fare un altro esempio, con l’amore: la sensazione di amare qualcuno si accompagna alla credenza dell’unicità della persona amata.
Cito un bellissimo brano di Luigi, che articola al meglio l’idea: “poniamo che X – ormai maturo, anzi alle soglie della vecchiaia – cammini malinconicamente lungo la strada accanto al mare che ha tante volte percorso da quando è bambino, e immaginiamo che un colpo di vento gli sfiori il volto ‘in un certo modo’. Ma in che senso ‘in un certo modo’? Le sensazioni del vento sul volto possono essere tante, assai simili e assai differenti; tanto simili e differenti che neppure lo strano e quasi schizoide gioco di volerle descrivere nei particolari riuscirebbe a orientarsi. ‘In un certo modo’ perché quella sensazione ha per così dire un ‘volume’ o ‘intensità’ o ‘pregnanza’ che le altre nel loro insieme non hanno, se non l’effetto di produrre un piacere generico e vago. Si tratta evidentemente di una sensazione che in questo caso si accompagna a un indeterminato scuotimento o sussulto emotivo, da qui la sua specificità. Il fatto è che X non riesce a ricordare quando e perché ha provato quella emozione, propriamente non riesce neppure a identificare l’emozione. Non è negativa, l’eco di una paura o vergogna, ma la sua positività è comunque incerta: richiama forse un bacio dato o negato tanti anni fa? Ancora più lontani giochi sulla spiaggia con amici, o una partitella persa di pallone? Come detto, la sensazione non è in tal caso ‘mera alterazione corporea’, ma è al centro di un intero spazio che le dà significato, circondata da altro. Solo che X non ricorda cosa aveva attorno” (La sensazione delle emozioni, in SocietàMutamentoPolitica, n. 24, 2021, p. 45, corsivi miei). Questo ‘colpo di vento’ non richiama forse la madeleine di Proust? “Tu chiamale, se vuoi, emozioni”, ma, a ben pensarci, c’è in gioco molto di più che una ‘mera alterazione corporea’, perché siamo di fronte al modo con cui ognuno di noi costruisce il suo specifico spazio nel mondo.
Vediamo più da vicino, analiticamente, quali caratteristiche distinguono una emozione da una sensazione. Seguendo il ragionamento di Luigi, possiamo identificare almeno quattro aspetti. 1. Le emozioni hanno bisogno di tempo: una sensazione può durare un attimo, ma è impossibile ‘amare per un attimo’. 2. Nei confronti delle emozioni ci si può sbagliare: ha senso dire ‘credevo di amarla’, ma non ha senso dire ‘credo di avere un dolore alla spalla’. 3. Nelle emozioni, le sensazioni non sono separabili dallo stato emotivo generale e non sono separabili dalle credenze cui sono legate, che possono essere vere o false. Posso scoprire che la persona che amo e che stimo è un essere abietto, e questa scoperta può modificare il mio stato emozionale nei suoi confronti, perché è cambiata la mia credenza. 4. Il fatto che le emozioni siano sensazioni accompagnate da credenze spiega il perché siano ‘stati’ o ‘condizioni’ e non azioni. Uno stato emotivo giustifica, ad esempio, la nostra decisione a compiere certe azioni e non altre. In genere, cerchiamo di evitare azioni che si legano a stati emotivi negativi.
Tutto ciò delinea, a mio avviso, un quadro generale ricco e affascinante. Faccio qualche altra osservazione. Per un sociologo quale io sono, si giustifica così uno studio sociologico delle emozioni: le credenze, infatti, sono per lo più collettive, sono dei prodotti sociali. Attraverso di esse, la società in qualche modo modella le nostre emozioni. Si tratta di aprire un campo di ricerca che si è fatto interessante, nella sociologia internazionale, soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi è in subbuglio, perché produce studi sempre nuovi, capaci di aprire orizzonti sino a ieri impensabili. Si pensi, tanto per fare un esempio, a come sono cambiate negli ultimi decenni le credenze degli italiani sull’amore: basterebbe solo andare a vedere come il tema è stato affrontato nelle canzoni di Sanremo, da Nilla Pizzi a Madame.
Una visione olistica porta con sé l’idea che sensazione e credenza siano parti integranti e costituiscano un’emozione solo se perfettamente fuse. Possono essere separate solo dallo sguardo analitico che, ad esempio, voglia riflettere sui cambiamenti subiti dalle credenze. Anche tale sguardo deve però sempre tener presente l’unità complessa da cui ha separato il suo oggetto di studio. Per tornare al brano di Luigi, e riprendendo le sue stesse parole, ‘il colpo di vento’ “è il possibile frammento di una intera storia emotiva (…). Posso non ricordare più gran parte di quella storia, ma ciò non toglie che la sua qualità, il volume di quella sensazione, mantiene, come una atmosfera rarefatta, lo spessore della vita in cui si è formata” (ivi, p. 47, corsivi miei).
Le emozioni, tutte le emozioni, contribuiscono a costruire le storie emotive di cui è fatto il nostro mondo. Esse selezionano, dentro le infinite possibilità dell’esperienza, ciò che è per noi significativo: quella specifica persona è oggetto del mio rancore, e quell’altra è meritevole della mia stima, e così via. I confini delle nostre emozioni sono il confine del nostro mondo: quest’ultimo si definisce e si costruisce sulla base della nostra capacità, o incapacità, di provare rancore e stima. Non posso – ed è forse umanamente impossibile – soffrire allo stesso modo per la morte di qualsiasi essere umano: il ‘volume’ e la ‘qualità’ della mia emozione variano sulla base della significatività che ha per me la perdita di una singola e specifica vita umana. Come scrive Luigi, “una emozione non può essere comandata, tanto che ‘ama il prossimo tuo come te stesso’ non equivale certo a provare volontariamente sentimenti” (ivi, p. 46) nei confronti di qualcuno.
Per concludere: il tema delle emozioni è un aspetto parziale e secondario all’interno del lavoro filosofico di Luigi. Le grandi questioni che egli ha saputo affrontare sono, come sopra richiamato, quelle classiche della filosofia, intesa nel modo autentico del termine. Egli le ha affrontate con coraggio, acume e fantasia, affidandosi sempre e solo alla forza degli argomenti e mai all’autorità della fonte. Ricordo sempre con ammirazione, e un certo diletto, il suo racconto di un seminario in cui l’uditorio era rimasto basito dalla sua ‘sfacciataggine’ nel criticare Emanuele Severino, lasciandolo incapace di una replica convincente. Da non filosofo, e partendo da un tema apparentemente secondario, ho provato modestamente a dare al lettore il senso della sua ricerca, del modo con cui ha sempre cercato di prendere di petto le questioni nella loro complessità. Tutto il suo lavoro filosofico è realmente il prodotto di una ‘mente appassionata’.
Ambrogio Santambrogio