Vertumno
Porta Eburnea si trova, indovinate un po’, nel rione di Porta Eburnea. Anticamente, nei pressi della porta si trovava un tempio dedicato a Vertumno, divinità di origine etrusca che personificava il mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti. Gli si attribuiva il dono di trasformarsi in tutto ciò che voleva e veniva rappresentato come amante di Pomona, dea romana della frutta, che aveva l’abitudine di essere insidiata da tutte le divinità delle selve. Insieme, Vertumno e Pomona proteggevano i giardini, gli orti e i frutteti. In molti giardini, anticamente, veniva affisso il cartello: “Attenti a Vertumno”.
Per corteggiare la bella Pomona, Vertumno ricorse a vari travestimenti agresti (mietitore, bovaro, nordic walker…), ma fu sempre respinto. Riuscì ad avvicinarla solo prendendo le sembianze di una vecchia. Quando si accorse che Pomona non era per nulla attratta dalla vecchia, Vertumno riprese le sue sembianze originali, rivelandosi per un giovane atletico e bellissimo. Interrogato circa la propria occupazione, il giovanotto rivelò di essere un dio, ma non di quelli particolarmente svegli, e fu allora che Pomona cedette al suo corteggiamento. Il motivo di Vertumno e Pomona ebbe molto successo presso i pittori secenteschi dei Paesi Bassi. La rappresentazione più comune raffigura una vecchia che si china con ardore verso una giovane dea completamente nuda, talvolta ponendole una mano sulla spalla. Pomona, di solito, siede sotto un albero e ha accanto a sé un canestro di frutta o una cornucopia. Suo comune attributo è un coltello da potatore, che potrebbe anche spiegare la ritrosia di Vertumno a mostrarsi nelle sue sembianze. L’albero sotto il quale siede Pomona fa spesso da sostegno a tralci di vite che crescono attorno al tronco: secondo Ovidio il motivo rappresenta il marito fidato al quale la moglie può aggrapparsi in cerca di sostegno. Nell’iconografia, dunque, rappresenta i sentimenti di Vertumno per Pomona.
Insomma, il tempio di Vertumno presso Porta Eburnea pare fosse completamente rivestito di avorio, il che spiega il nome della porta (Eburnea: di avorio – in latino ‘avorio’ si diceva ‘ebur’, o qualcosa di simile), anche se è fatta di travertino. In effetti, Porta Travertina non suona altrettanto bene. La porta è stata modificata nel XIV secolo e oggi la possiamo ammirare nella forma medievale, con arco ogivale e giunti sporgenti. Della costruzione originaria restano una decorazione a rilievo (protome) a forma di leone e alcune lettere che probabilmente formavano la scritta “Augusta Perusia – Colonia Vibia”, ricorrente in quasi tutte le porte della città etrusca.
La porta
La tradizione popolare riconosce a Porta Eburnea il valore di luogo propizio, al punto che molti condottieri la attraversavano prima di una spedizione militare. È detta anche Arco della Mandorla, a causa della forma ogivale dell’arco, aggiunta in epoca medioevale, o perché nei pressi della porta risiedeva la famiglia ‘della Mandorla’ o, infine, perché – sempre negli affollati pressi – sorgeva un mandorlo, pianta tipica del perugino. L’elefante che, con San Giacomo, connota l’iconografia della porta si spiega sia con l’avorio di Vertumno sia con il fatto che la porta pare fosse la meglio difesa della città. Inespugnabile. Era stretta stretta e sorgeva in cima a una salita che non doveva essere piacevole affrontare indossando un’armatura. Non era la più difesa, era la più scomoda da raggiungere.
Porta Eburnea fa parte della cinta muraria etrusca, che ha uno sviluppo lineare di circa tre chilometri e fu edificata tra il IV e il III secolo avanti Cristo. La cinta, caratterizzata dalla grandezza delle pietre impiegate nella realizzazione, venne rimaneggiata prima in epoca romana e, successivamente, nel medioevo. L’unica porta d’accesso rimasta nella forma e nella collocazione originaria è l’Arco Etrusco. Fra XIII e XIV secolo (dopo Cristo) fu elevata una nuova cinta muraria, per venire incontro all’espansione dell’abitato.
Nel Duecento il Comune costruì, appena sotto la cinta etrusca che tendeva a crollare, una nuova linea di mura. Quando questa nuova linea si rivelò insufficiente, furono costruiti dei contrafforti, uno a pochi metri dall’altro. La cinta medievale raggiunse uno sviluppo di circa sei chilometri e inglobò i borghi creatisi in corrispondenza delle cinque porte.
Spesso confusa con Porta Eburnea, detta anche Porta de Borgone, è Porta Crucia, detta, tanto per non fare confusione, Porta Nuova de Borgone, edificata nel XV secolo da Braccio Fortebraccio e fatta riedificare nel 1576 dal delegato pontificio Antonio Santacroce, come riportato dalla lapide posta sopra l’arco. Sul lato esterno sinistro della porta è possibile individuare una piccola apertura murata, che doveva servire come accesso pedonale a Via del Bucaccio, che collegava il centro a Fontivegge.
Ai lati presenta grandi nicchie nelle quali avrebbero dovuto essere collocate statue di santi, mai costruite. La porta è attraversata dalla cosiddetta Via del Pesce, la strada, cioè, utilizzata dai pescatori del Lago Trasimeno che portavano il pesce in città. A testimonianza di questo passaggio, è visibile, all’angolo di Via Eburnea, il bassorilievo di un pesce con funzione segnaletica.
Nei pressi di Porta Eburnea si trova Porta San Giacomo, così chiamata per la vicinanza all’omonima chiesa. Era detta anche Porta del Castellano, Porta dell’Olmo e Porta di San Prospero (perché aperta in direzione di quella chiesa).
Iconograficamente, Porta Eburnea è simboleggiata da un elefante e San Giacomo.
San Giacomo
Dell’elefante abbiamo già detto, anche se la tentazione di allungare il brodo è forte. San Giacomo può essere Maggiore o Minore. Quello raffigurato a protezione di Porta Eburnea è il Maggiore: apostolo, fratello di san Giovanni Evangelista e figlio di un uomo che si chiamava, con grande sfoggio di buon gusto, Zebedeo.
Giacomo era un pescatore e faceva parte del gruppo di apostoli più vicini a Gesù. Fu testimone, con Pietro e Giovanni, degli episodi della Trasfigurazione e della Preghiera nell’orto (ma in quest’ultima dormiva). Fu processato a Gerusalemme da quel buontempone di Erode Agrippa e fatto decapitare. Una tradizione leggendaria risalente al Medioevo vuole che Giacomo si recasse in Spagna come missionario e venisse seppellito a Compostella. Anche se i fatti sono storicamente inattendibili, Santiago di Compostella è diventato uno dei luoghi di pellegrinaggio più à la page. L’iconografia, sopratutto quella spagnola, ha subito più l’influenza delle leggende che della Bibbia (che invece, in tema di attendibilità storica…).
Giacomo può essere raffigurato in tre modi diversi:
- come apostolo: è un uomo maturo, con la barba rada e i capelli scuri divisi nel mezzo e spioventi ai due lati come quelli di Cristo. Ha come attributo la spada, strumento del suo martirio;
- come pellegrino (dal XIII secolo): porta il cappello a falde larghe tipiche del viandante, il mantello e il bastone. Appesa a quest’ultimo ha una bisaccia o una borraccia. Una conchiglia può essere raffigurata su uno dei suoi oggetti o abiti;
- come cavaliere e santo patrono della Spagna (Matamoros): è rappresentato a cavallo con lo stendardo. Indossa l’armatura o il mantello da pellegrino. Col cavallo calpesta un saraceno, in segno di pace.
Difficilmente viene accompagnato da iscrizioni. Quando presenti si tratta o di una frase tratta dal Credo degli Apostoli: “Qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine”, o di un adattamento di un tratto della Lettera di Giacomo: “Omnis homo velos exto” (che ogni uomo sia lesto).
Le numerose leggende spagnole che lo riguardano non hanno nulla a che fare con Porta Eburnea, ma alcune di esse sono fonti iconografiche e, in linea di massima, parlarne non ci farà del male. Si tratta di spot pubblicitari del X secolo, diffusi per promuovere i pellegrinaggi a Compostella. In uno si racconta della missione evangelica del santo dopo l’Ascensione di Gesù; a Saragozza la Vergine comparve a Giacomo comodamente seduta sopra una colonna di diaspro, e gli ordinò di erigere in quel luogo una chiesa: Nuestra Señora del Pilar. Tornando a Gerusalemme, Giacomo convertì e battezzò il mago Ermogene dopo averlo sconfitto in un duello con la spada laser. Io scherzo, ma le leggende no, e si parla esplicitamente di uno scontro tra poteri sovrannaturali; l’episodio è analogo a quello di san Pietro che sconfisse Simon Mago in una partita di Quidditch.
Dopo la decapitazione di Giacomo, i suoi discepoli ne riportarono il corpo in Spagna e, guidati da un angelo satellitare, giunsero in Galizia, dove seppellirono il santo nel palazzo di una donna pagana convertita. Nel IX secolo la tomba fu scoperta e il luogo fu ribattezzato Santiago (San Giacomo) di Compostella. Due secoli dopo, il santuario era già una delle più ambite mete turistiche per i pellegrini di tutta Europa.
La conchiglia
La conchiglia, nell’antichità, era un attributo di Venere, la dea nata dal mare o, secondo alcune fonti, dalla conchiglia stessa. Una conchiglia trainata da delfini o da ippocampi è in realtà il carro di divinità marine come Nettuno o Galatea e, a volte, della Fortuna. Tritone è spesso raffigurato mentre suona una conca marina. Difficile interpretare l’attribuzione della conchiglia ai pellegrini diretti a Compostella. Il simbolo sembra risalire al XII secolo e, col tempo, è divenuto attributo non esclusivo di San Giacomo. Una conchiglia, infatti, identifica anche San Rocco e Cristo in Emmaus. Nelle rappresentazioni dell’Età dell’Oro, coppe e vassoi sono sostituiti da conchiglie. In una scena tratta dalla storia di Granida e Daifilo e ambientata in uno scenario boschivo, il giovane compare inginocchiato ai piedi della fanciulla nell’atto di porgerle una conchiglia utilizzata come coppa. Le pietre posate sul capo o sulle spalle di Santo Stefano hanno a volte l’aspetto di conchiglie ma, in questo caso, si tratta probabilmente di un mero motivo stilistico.
Il miracolo degli uccelli selvatici
Secondo la leggenda, la figlia di un locandiere spagnolo cercò, senza riuscirvi, di sedurre un giovane pellegrino diretto con i genitori a Compostella. Siccome il ragazzo la rifiutò, lei si vendicò nascondendo una coppa d’argento nella sua bisaccia. Poi fece in modo che la coppa fosse trovata. Così il giovane, accusato di furto, fu impiccato. Quando i genitori, di ritorno dal pellegrinaggio, ripassarono di lì piangendo la morte del figlio, il suo corpo che pendeva ancora dalla forca parlò, invitandoli a non essere tristi poiché san Giacomo gli era accanto e lo sosteneva. Il padre e la madre corsero allora a portare la notizia al giudice che in quel momento si trovava a tavola, ma costui si beffò di loro dicendogli che il ragazzo non era più vivo degli uccelli che lui aveva nel piatto. Al che, naturalmente, gli uccelli si sollevarono e si misero a gracchiare; poco dopo, il giovane fu restituito ai genitori.
Santiago Matamoros
Pare che, durante la battaglia di Clavijo, combattuta contro i saraceni intorno al 930, quando le sorti degli spagnoli volgevano al peggio, san Giacomo apparve al re sul campo di battaglia, in groppa a un cavallo bianco, e si pose alla testa delle truppe spagnole che misero in rotta il nemico. Da allora il grido di battaglia degli spagnoli fu: “Santiago!”. In questo contesto il santo è noto come ‘uccisore dei mori’: Santiago Matamoros.
Antonio Senatore è scrittore e critico d’arte. Ha collaborato con riviste e istituzioni museali sia in Italia che all’estero. Attualmente opera nel circuito dei musei civici di Perugia e insegna Storia del design presso il NID – Nuovo Istituto di Design.