Privacy Policy La vite, il vino
Antonio Boco Alimentazione Vol. 6, n. 1 (2014)

La vite, il vino

Senza scomodare la tradizione biblica e il racconto dell’ubriachezza di Noè (Genesi 9, 20-27), per certi versi il primo viticoltore della storia, le donne del Neolitico, che circa dodicimila anni fa raccoglievano il frutto della vite e scoprirono il suo potenziale inebriante, possiamo cominciare col dire che la produzione su larga scala di vino è iniziata poco dopo il 3.000 avanti Cristo. Gli antichi Egizi erano maestri nelle tecniche di coltivazione della vite ma furono i coloni greci e fenici a favorire la diffusione del vino e di nuove varietà in quelle che ne sarebbero diventate poi le terre d’elezione: Italia, Francia e Spagna. Un’ulteriore impulso al consumo e alla cultura della bevanda di Bacco venne certamente in età romana, quando le nuove tecniche viticole raggiunsero l’Europa settentrionale, epoca in cui comparvero anche i barili di legno e le bottiglie di vetro.
Focalizzando l’attenzione sull’Umbria, furono invece gli Etruschi a precedere i Romani nella coltivazione della vite e nella produzione di vino. Segni del loro passaggio, delle loro tecniche agronomiche e del loro stile sono ancora oggi visibili nelle campagne della regione, e lo erano certamente ancor più fino alla metà degli anni Settanta. Solo l’impulso della così detta viticoltura specializzata ha progressivamente trasformato un paesaggio agricolo sostanzialmente promiscuo, capace di far coesistere diverse colture (e abbracciato nella filosofia di fondo dai contratti mezzadrili). Tra queste la vite, ovviamente, che doveva però dividere il territorio e magari “maritarsi” agli olmi. Una situazione molto diversa dal sistema specializzato dei Greci, padri degli allevamenti ad alberello ancora oggi visibili in molte aree della Puglia e della Sicilia.

1 Tramonto su una vigna del Chianti
1 Tramonto su una vigna del Chianti

 

Sul piano ampelografico, invece, le varietà regionali di allora sono quelle che oggi definiamo “tradizionali” e in certi casi autoctone. Plinio il Vecchio ricorda che il vitigno tudernis (di Todi) era molto presente mentre Marziale narra i vizi e le virtù dei vini di Spoleto. Forse riferendosi a quel trebbiano spoletino che sta oggi sta vivendo una seconda giovinezza e che nei campi, non solo nella memoria, cresce ancora maritato e rampicante, spesso addirittura a piede franco, sulla piana spoletina. Mentre è ormai solo un ricordo, purtroppo, la dominazione che faceva di alcune aree della Valnerina, ad esempio a Sellano, fino ed oltre i mille metri d’altezza! Nel Medioevo fu Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III e sommelier ante litteram, a definire eccellente il Sucano (nell’orvietano), mentre il Bacci parla dei vini di Gubbio, così come di quelli di Nocera, Assisi, Amelia, Norcia, Spello e Città di Castello. Tra i bianchi spicca il grechetto (a Todi ha la sua patria elettiva ma vegeta in ogni angolo della regione), che con il trebbiano e la malvasia compone una sorta di triade regionale (anche per la produzione di Vin Santo). Tra le particolarità locali, inoltre, c’è senz’altro la Vernaccia di Cannara. Questo vino dolce dal colore rubino scuro prende il nome da Vernum (inverno) in quanto la pigiatura e la conseguente vinificazione avviene in questa stagione e non in autunno, dopo il necessario periodo di appassimento; o forse da Vernaculum (del posto), ipotesi accreditata da molte altre Vernacce esistenti in Italia, che nulla hanno a che fare con quella di Cannara (la vernaccia di San Gimignano, di Oristano e via dicendo). Oggi viene prodotta con uva cornetta, ma un tempo erano molte le varietà impiegate, come dimostra questo passaggio di Giulio Baldaccini (Relazione sulle Condizioni agricole ed economiche del territorio di Cannara, Foligno, 1882):

Eccellente è la così detta vernaccia di Cannara, vino che usa farsi con uve appassite, alle quali vien mescolata una certa quantità di Sacrantino o Tintarolo che imparte un colore rosso rubino. La vernaccia è un vino ordinariamente dolce o abboccato, perché fatto con i soli acini dell’uva, i quali dopo essere stati franti vengono posti entro i tini ove si fan fermentare per un tempo più o meno lungo, a seconda delle condizioni termiche dell’atmosfera, del maggiore o minore grado di dolcezza che ad esso si vuol dare, o fino al momento in cui ha acquistato il suo colore rubino trasparente.

Una prelibatezza, insomma, prodotta tradizionalmente in casa e assaporata nel periodo di Pasqua, in abbinamento a una ricca colazione che prevedeva la classica torta al formaggio con il capocollo e le uova sode.
C’è da dire che il vino della storia meno recente era bevanda molto diversa da quella che conosciamo oggi, davvero difficile da accostare alle tante produzioni che le moderne cantine sfornano ogni anno, e che fanno bella mostra di sé sugli scaffali delle enoteche e nelle carte dei migliori ristoranti del mondo. Molto spesso erano vini dolci, ad esempio. Per gusto e soprattutto per mancanza di conoscenze riguardo le cause e i meccanismi della fermentazione alcolica. Uno stile che ci porta dritti dritti ad Orvieto. La conformazione tufacea della città della rupe, ricchissima di cunicoli, anfratti e cantine sotterranee, si dimostrò ideale per la produzione di vino. La temperatura delle grotte, tuttavia, rendeva i processi di fermentazione del mosto assai lenti, tanto che gli arresti delle fermentazioni erano all’ordine del giorno. Dunque, non riuscendo a svolgere l’intero processo di trasformazione degli zuccheri in alcol, quei vini risultavano tendenzialmente dolci o comunque abboccati. Fatto che contribuì certamente alla loro fama. Le imprese in loco degli etruschi e dei romani sono note, così come l’apprezzamento da parte di molti Papi (Paolo III Farnese ne era particolarmente “ghiotto”), mentre gli affreschi nel Duomo del Signorelli, che chiese come paga un vitalizio in vino locale (Item che la fabrica sia obligata a darli, per lo tempo che lui lavora continuo, dui quartenghe di grano al mese e dodice some di mosto per ciascun anno alla vendebia incomensando alla vendebia proxima che verrà) regalano continue suggestioni legate alla vite e all’uva. E che dire della celebre frase dannunziana che descrive l’Orvieto come il Sole d’Italia? In epoche più recenti, vale la pena ricordare le minuziose descrizioni del professor Giorgio Garavini, ispettore generale del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste che, nel 1931, delimita la zona di produzione del vino tipico di Orvieto, sottolineando come il tipo abboccato rappresentasse ancora quello più apprezzato e diffuso. Vino bevuto spesso nelle grotte, «color giallo oro pallido, limpido, con profumo aggraziato molto rassomigliante a quello di uva fresca, con abbondanza di eteri, sapore soavemente dolce, con retrogusto leggermente amarognolo come di mandorla, frizzante per l’anidride carbonica prodotta da lenta fermentazione». Caratteristiche precise, tanto che non sono pochi gli scrittori di enologia di inizio Novecento che paragonano l’Orvieto ai Sauternes francesi, considerandolo a volte anche meglio, «non essendo presente in esso quel sapore di zolfo che si riscontra quasi sempre in quei vini».
Un successo clamoroso che, come spesso accade, apre le porte a speculazioni commerciali e andamenti qualitativi altalenanti, spesso fuori controllo. Orvieto ha attratto gli appetiti dei grandi industriali del vino italiano e di altrettanti imbottigliatori, con gravi conseguenze, tutt’ora al centro della scena, legate all’identità e alla qualità percepita del prodotto. Detto questo, un timido sole rinascimentale pare illuminare i dorati grappoli di Orvieto e più di una cantina ha riallacciato i fili della sua storia più nobile. I vini di Palazzone, di Decugnano dei Barbi, di Barberani (che produce una Muffa Nobile divina chiamata “Calcaia”), o di realtà ancor più piccole come Custodi (ma ce ne sono altre in decisa crescita) sono una speranza per il futuro di Orvieto. Senza dimenticare le imprese della dependance umbra dei Marchesi Antinori, quel Castello della Sala che intorno alla metà degli anni Ottanta ha dato vita al Cervaro, diventato nel tempo uno dei bianchi italiani di riferimento, pensato con occhio rivolto ai grandi Borgogna e ai migliori bianchi di Francia.
Riprendendo il corso della storia enoica, è utile chiedersi quand’è che il vino comincia ad assumere, sia sul piano tecnico-produttivo che commerciale, i caratteri che oggi conosciamo. Dal lato della produzione, tra il 1650 e il 1850 si mettono a punto nuove tecniche in vigna ed in cantina, si cominciano a “creare” nuovi vini con la bussola della “qualità”, si introduce la viticoltura in nuove aree del mondo. Dal lato commerciale, invece, si sviluppa un mercato più ampio di tipo prevalentemente urbano, e comincia a prendere forma un commercio rivolto alle classi più agiate, come la nobiltà francese o la nascente borghesia inglese del tempo. La società evolveva e, come sottolinea Lachiver: «Quando il vino divenne un elemento del consumo di tutti i giorni, fu impossibile per i ricchi bere il vino comune» (Lachiver, Vini, viti e vignerons: storia della vigna francese,1988). In Italia le cose andarono un po’ più lentamente e le cantine di impostazione moderna, capaci di giocare la partita della qualità e stare sul mercato erano poco più di un pugno ai primi del Novecento. Fino agli anni ’60-’70 il settore del vino attraversa una fase di stanca, ma i mutamenti intervenuti a partire dal secondo dopoguerra creano le premesse per importanti cambiamenti. In Umbria la nascita della moderna enologia coincide con l’impresa di Giorgio Lungarotti e della sua famiglia. Per il celeberrimo wine writer Hugh Johnson è lui che «ha disegnato l’Umbria nella mappa enologica mondiale», mentre Daniele Cernilli, il più influente dei critici italiani, ricorda come fu questo autentico personaggio a realizzare a Torgiano «una vera cattedrale nel deserto, inventandosi una denominazione ed un vino, il Rubesco, che esordì con l’annata 1964 e che per una decina di anni almeno portò in giro per il mondo pressoché in solitudine l’immagine dei vini di qualità dell’Umbria». Di lì è poi ripartito tutto, perché fu chiaro che in Umbria si potevano fare splendidi vini, proprio come nella vicina Toscana, e in qualche caso persino meglio.
La svolta del 1986, anno dello scandalo del metanolo, è tuttavia determinante per il vino italiano e di conseguenza anche per quello umbro. Un vero spartiacque capace di far cambiare per sempre le cose, innescando un processo inarrestabile verso la qualità e la quantità delle aziende, che cominciano a spuntare come funghi. Episodi isolati a parte, i vini di Montefalco rappresentano senza dubbio un case history di incredibile importanza. Ma qui un passo indietro è necessario, perché le origini, il mito e la diffusione popolare del sagrantino meritano di essere raccontate.
Il primo documento che cita ufficialmente il vitigno risale al sedicesimo secolo, ed è conservato nell’archivio notarile di Assisi. Prima è ancora Plinio Il Vecchio a raccontare i vini della zona, in particolare l’uva itriola, che tuttavia non è certo fosse il sagrantino. Più sicura, ma non mancano le alternative, la teoria che vuole le barbatelle di sagrantino giunte direttamente dall’Asia Minore nel XIV secolo, importate da alcuni monaci seguaci di San Francesco. E da qui, forse, il nome, riconducibile ai sacramenti. Quel che è certo è che a Montefalco ne fecero la base per un ottimo vino passito, destinato ai riti religiosi, prima, e quelli più laici e popolari, poi. Oggi come ieri, tanto in famiglia quanto nelle aziende imbottigliatrici, l’uva viene raccolta e messa sui graticci ad appassire, fino al momento in cui la concentrazione degli zuccheri è sufficiente a farne un vino dolce, distinto dal tratto tannico tipico della varietà. Una leccornia, che in passato finiva addirittura sulla tavola di Pasqua, a far compagnia al classico agnello arrosto. Ma il legame popolare tra l’uva di Montefalco, la città e i suoi abitanti è ancora più forte nell’incredibile tracciato delle vigne domestiche, cinte dai muri alti degli orti, a testimonianza di una grande continuità temporale e di quanto queste fossero simbolo di identità, ricchezza e orgoglio. In tempi più recenti, molte sono le testimonianze dell’importanza della zona per il vino di qualità. Non è un caso che proprio qui si sia tenuta la “Mostra regionale di vini ed oli” del 1925, occasione in cui si ribadì come fosse proprio quello “il centro enologico più importante dell’Umbria”.
Nonostante tutto, però, il cambiamento di prospettiva è un fatto recente e l’invenzione del Sagrantino in chiave contemporanea, avviata sporadicamente dalle aziende di più lunga tradizione, come Terre dei Trinci, Adanti e Antonelli, subisce uno scossone con l’avvento sulla scena di Marco Caprai. Figlio dell’imprenditore tessile Arnaldo, che aveva acquistato la tenuta Val di Maggio nel 1971, il giovane Caprai ha compiuto una delle imprese più straordinarie della recente storia enologica italiana. Recuperando pezzi di tradizione e sistemandoli in modo innovativo e geniale, riesce a ricomporre, dandogli senso, l’insieme di un mosaico altrimenti incomprensibile. Riuscendo ad avviare un fenomeno che ha incuriosito molti, come dimostrano i numerosi investimenti che sono seguiti negli anni, e che hanno disegnato un quadro ricchissimo, complesso, ma spesso anche confuso, alla ricerca di una sua precisa chiave di lettura. Il Sagrantino è uno dei grandi rossi da invecchiamento italiani, con tratti unici e originali, e per questo radicali. Tenerne conto, magari tramutando le criticità in peculiarità è la sfida di oggi e di domani.
E se volessimo trovare la tendenza del momento, cercando di interpretare il futuro prossimo del vino umbro? Non c’è dubbio che una certa ondata modernista, la stessa che ha rinnovato la vitienologia italiana, non senza qualche errore e diverse scorciatoie, si sia oggi attenuata. Con il conseguente ritorno alla tradizione dei vitigni autoctoni, di una viticoltura più ragionata, di pratiche di cantina meno invasive. E con le denominazioni classiche sempre più attraenti rispetto a quelle svincolate da una stretta logica storico-territoriale.
Rispetto ai vitigni, dicevamo, tornano a far parlare di sé, splendendo di nuova luce, quelli della tradizione più antica. Dal grechetto al ciliegiolo, dal gamay del Trasimeno al trebbiano spoletino (oltre a sangiovese e sagrantino, ovviamente), è tutto un rifiorire di vecchie varietà che sembravano destinate all’oblio, e che invece si stanno rivelando un prezioso alleato dei vignaioli umbri. Di pari passo si registra un sostanziale affinamento stilistico dei vini. Smaltita la sbornia di quelli “dimostrativi”, “palestrati” o da “concorso”, anche in Umbria pare tornata la voglia di prodotti più originali e autentici, figli legittimi del territorio, delle uve coltivate e del gusto del loro ideatore. Con un occhio rivolto al passato, certo, ma con la voglia di rendere quei percorsi attuali e contemporanei.

 

Antonio Boco è nato e vive a Perugia. Collabora con alcuni dei più importanti editori enogastronomici italiani, tra cui il Gambero Rosso. Nel febbraio 2007 riceve un premio dalle Città del Vino «per aver contribuito a trasformare il modo di comunicare l’agroalimentare, il vino e i prodotti tipici in strumento di conoscenza e di valorizzazione delle tante diversità italiane». Nell’aprile 2010 l’Associazione Grandi Cru d’Italia gli conferisce il titolo di “Miglior Giovane giornalista del vino italiano”.

 

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