Le torte di Pasqua dolci e salate, queste ultime con l’immancabile presenza di formaggio grattugiato o a pezzettini nell’impasto, entrambe preparate con molte uova, sono uno dei punti fermi della cucina umbra. “Torte di Pasqua” sono chiamate nel linguaggio corrente della maggior parte degli umbri, indipendentemente dal fatto che si onori o no la Pasqua. “Torte di Pasqua” sono chiamate anche se il legame con la festività che celebra la rinascita della natura e per la Chiesa cattolica la Resurrezione di Cristo, è soltanto un lungo capitolo della storia di questo pane condito festivo. Il tema è infatti, assai ampio, nel tempo e nello spazio. Per quanto riguarda la torta al formaggio l’origine è di certo assai antica. La “mefa spefa” degli antichi Umbri, che già conoscevano l’arte della lievitazione, è sorprendentemente vicina alla nostra torta di Pasqua: farina, uova, latte, formaggio. Catone riporta, nel De Agricoltura una ricetta che è l’indubbia antenata delle nostre torte al formaggio, simile alla variante in uso comune fino agli anni ’60 del secolo scorso, a Tuoro sul Trasimeno. Dolci o salate, queste torte si ritrovano, nell’una o nell’altra versione, nell’una o nell’altra variante, in gran parte dell’Italia centrale: Marche, Abruzzo, Lazio, Toscana, anche se in modo non omogeneo. La torta pasquale al formaggio interessa quasi tutte le Marche, nelle altre regioni la sua diffusione si limita ad aree più circoscritte, in alternanza o in sovrapposizione con la torta dolce. L’Italia centrale ha una comune cultura anche gastronomica, la cucina di zona è l’espressione legata al territorio, a volte al micro territorio di questa più grande area. Nella stessa Umbria la geografia delle torte pasquali fino a metà del secolo scorso era assai variegata, con la prevalenza in alcune di quella salata e in altre di quella dolce, e all’interno delle due tipologie dotate di molte varianti, sebbene da secoli siano entrambe legate al periodo pasquale. La mattina di Pasqua le torte venivano poste sulla tavola, bene in ordine o in allegra confusione, ma in ogni caso assieme agli altri cibi che costituivano la ricca prima colazione pasquale, un lungo pasto che avveniva tra le 11 e le 13, rigorosamente dopo aver adempiuto ai riti religiosi. Tutto si consumava secondo una successione non ben precisata, non codificata. Alla torta si accompagnavano capocollo, salame, ciauscolo (quest’ultimo in Valnerina), ma anche uova sode (le uova comparivano, comprensibilmente nei pasti pasquali sotto molte forme), frittate, coratella d’agnello, vino e vinsanto. Salumi, uova sode e frittate si consumavano generalmente con la torta al formaggio. Ma in Valnerina, territorio dove ancora negli anni ’50 del Novecento era viva l’antica civiltà pastorale e il formaggio era ingrediente della quotidianità, perciò non poteva essere cibo di festa, era la torta dolce ad accompagnare ciauscolo e a volte, salame,. Spesso la minestra o zuppa che mai mancava nel pasto pasquale, consisteva in fette di torta al formaggio sulle quali veniva versato brodo di castrato. Un’eccezione alla torta consumata la mattina di Pasqua assieme ad altri cibi della tradizione è la torta che soprattutto in campagna si preparava il 6 gennaio, giorno dell’Epifania per il calendario liturgico della chiesa cattolica, prima Pasqua dell’anno. In questa occasione non vi era il dispiegamento di torte della ricorrenza successiva, ma in ogni famiglia si preparava una sola torta, dolce o salata. Quali che siano le varianti, le uova sono sempre molte e l’unità di misura è sempre l’uovo. Ad un uovo corrisponde la quantità di sale o altro, la farina non è quasi mai indicata a peso ma si spiega che deve essere in quantità sufficiente a dare all’impasto la giusta consistenza; per ogni uovo all’incirca si mette un etto di farina. Da sottolineare anche il fatto che le torte in città (Perugia, Terni) sono da almeno un secolo preparate secondo ricette più generiche, meno caratterizzate da spezie o ingredienti particolari e che da tempo nella preparazione si adottano soluzioni che facilitano la lavorazione. A Terni, città d’industria, seppure legata a doppio filo al mondo contadino, l’uso dell’impastatrice elettrica è entrata nell’ambito casalingo, almeno a partire dagli anni ‘60. Le torte servivano per l’uso di famiglia, per farne dono a parenti, amici, omaggio di fatto obbligato (per i contadini) al “padrone”, ma anche al prete, al medico, alle “autorità”. Venivano preparate in grandi quantità; la raccolta delle uova iniziava molti giorni prima della preparazione, venivano poste in cesti e tenute al fresco in cantina. La lavorazione delle torte coinvolgeva tutta la famiglia, anche gli uomini; veniva impastata una quantità enorme di ingredienti e occorreva l’impiego di grande forza fisica. Uno dei problemi della lavorazione era la lievitazione, anche a motivo delle abitazioni fredde.
Per ottenere la lievitazione delle torte nel tempo più breve possibile (era un’impresa nelle vecchie case piene di spifferi) si ricorreva a una serie d’espedienti. La lievitazione iniziava nel cuore della notte e un membro della famiglia, generalmente un ragazzino o una ragazzina, ne sorvegliava l’andamento. Le fasi di preparazione prevedevano l’impasto di farina, sale, uova, condimento e lievito, l’aggiunta di formaggio grattugiato e a pezzi, spezie varie. I tegami venivano riempiti a metà e quando l’impasto arrivava al bordo scattava il momento d’infornare. Momento prevedibile, ma solo in parte, a causa delle difficili condizioni ambientali per il lievito, un tempo sempre “pasta madre”, assai più ingovernabile del lievito di birra e del lievito chimico. Anche la cottura al forno era un rito, spesso collettivo, sia nei forni delle case contadine, dove talvolta si riunivano per la cottura più famiglie, sia in quelli collettivi o comunali, che fino agli anni ’50-60 erano attivi in quasi tutti i paesi. Spesso più famiglie si mettevano d’accordo per cucinare insieme nel grande forno di comunità le proprie torte; nel borgo era un vociare da una casa all’altra: le torte di due o tre nuclei dovevano raggiungere la giusta lievitazione contemporaneamente, allora le donne si davano da fare per ritardarla o affrettarla, giocando di scaldini e vapore acqueo. La cottura, come del resto per il pane, veniva accompagnata da rituali magico-religiosi. Era pratica comune, una volta chiuso il forno, tracciare su di esso il segno della croce e dire: “Dio t’accresca”. Ma tante erano le pratiche, a volte svolte e recitate frettolosamente e in modo occulto per assicurarsi la buona cottura delle torte. Qui erano le donne a scendere in campo in una vera e propria gara per la torta più buona, più bella, più grande. Un’infornata mal riuscita era una vera e propria disgrazia, la cui colpa, spesso, veniva imputata all’invidia e perciò al “malocchio” lanciato da qualche vicina. Ma anche i fornai di città ospitavano dietro un piccolo compenso, le teglie delle massaie, che le contrassegnavano, imprimendo un marchio con un utensile metallico o con mezzi più semplici per riconoscerle una volta cotte. Nei giorni immediatamente precedenti la Pasqua era un via vai di gente con recipienti e a volte le strade erano impregnate del profumo delle torte. ‘Torta’ nella vasta area del Perugino, ‘pizza’ in tutta l’Umbria di centro sud, ‘crescia ‘nell’Eugubino, ‘ciaccia’ nel Tifernate: questi i nomi per un pane il cui significato profondo era ed è condiviso, si può ben dire, da un’intera regione. Le torte dolci di Pasqua, un tempo in Valnerina unica tipologia di torta legata a questa festa, erano molto ricche d’ingredienti: all’impasto base s’aggiungevano uvetta, a volte canditi, rosoli; chiara d’uovo e confettini in superficie la decoravano all’esterno. Nell’Orvietano era ed è semplicissima: farina, uova, condimento, zucchero, lievito ma anche molte spezie, cannella in particolare specie in polvere e sotto forma di rosolio, tanto da renderla all’interno quasi marroncina. Qui la torta dolce è tuttora più importante (anche se da sempre in parallelo, si prepara e utilizza anche quella al formaggio), la si gusta insieme a pezzi di cioccolato, mentre nel giorno dell’Epifania l’unica torta che compare è quella dolce. In genere oggi è la torta salata a predominare. La torta al formaggio ha conosciuto negli ultimi cinquanta – sessanta anni alcuni cambiamenti negli ingredienti e un processo di omologazione, ma anche, se così si può dire, di espansione. L’ingrediente caratterizzante è il formaggio; un tempo solo pecorino locale (ogni famiglia contadina preparava in casa alcune “forme” per l’autoconsumo) mescolato a pecorino romano se la famiglia poteva permettersi di acquistarlo, mentre ora è pecorino mescolato a parmigiano o a grana padano; spesso pecorino, parmigiano e gruviera. Da considerare che il gusto piccante piace di meno e la torta s’adegua. Quanto al condimento, un tempo quasi sempre strutto (ma anche olio nelle località a vocazione olearia), ora vede prevalere l’olio. Alla pasta madre è subentrato quasi del tutto il lievito di birra, anche se negli ultimi due o tre anni è iniziato un processo inverso e l’antico lievito ricomincia ad avere i suoi sostenitori. Ma il cambiamento sostanziale è che la ricetta standard (farina, uova, sale, lievito, formaggio, condimento) prevale sulle tante varianti legate ai territori. Speziate e legate a ricette medievali quelle dell’Orvietano, dove un tempo passavano le vie dei mercanti di spezie; qui le famiglie legate tenacemente alla tradizione continuano a far bollire chiodi di garofano, bastoncini di cannella e pepe in vino bianco, da aggiungere, filtrato, all’impasto; mettono noce moscata e anice e quant’altro, a seconda della ricetta di famiglia o di zona. Nella selva di Burano, sopra Gubbio, si trovano ancora torte con anice e pancetta. A Tuoro sul Trasimeno qualche anziana signora prepara ancora una torta che è la diretta discendente di quella di Catone: pasta da pane, pecorino, uova e la forma allungata di un filone di pane, anche se non viene più cotta su foglie di cavolo.
Come dicevamo, in genere la torta standard prevale in negozi, panetterie e anche presso le famiglie, che spesso si riconoscono in essa più che in quella dei nonni e dei bisnonni. Comunque la torta di Pasqua al formaggio, seppure con gruviera e senza troppe varianti locali, gode ottima salute. In Valnerina, dove era pressoché sconosciuta, sta superando la torta dolce. A Città di Castello, dove il pane pasquale era una volta il crostello, una semplice pagnotta nel cui impasto compare lo zafferano, strofinato con una cotica ancora caldo di forno, (la mattina di Pasqua il pater familias lo spezzava con le mani, seguendo le linee impresse prima della cottura e ne distribuiva i pezzi ai familiari). Ora tutti riconoscono nella torta al formaggio il loro pane. La torta al formaggio ha invaso i quartieri cittadini per mano degli abitanti delle campagne dell’umbertidese inurbati tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Attualmente solo un vecchio forno su ordinazione e qualche famiglia preparano l’antico crostello. La torta di Pasqua da tempo è oggetto di gare per decretare la migliore (la più famosa viene organizzata dal palazzo del Gusto di Orvieto) e anche di manifestazioni (una per tutte quella che viene organizzata a Mantignana, con la partecipazione di fornai non solo locali e corsi “di torta” nella settimana santa). Quanto all’essere pane festivo, in gran parte, lo è rimasto. Perché se è vero che ora si trova tutto l’anno da fornai e anche in qualche rinomata pasticceria – in questo caso a uso più che altro dei turisti – non è cibo da tutti i giorni. Basti pensare alle torte tagliate in senso orizzontale e farcite con vari strati di salame, tonno, sottaceti, maionese e quant’altro, che spesso vengono proposte in buffet di vario genere (feste di battesimo, compleanni) fin dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. La ritroviamo anche in torte rettangolari, a forma di pancarrè o addirittura di piccoli cilindri, destinate ad essere la base di sandwich e tartine per feste familiari, ricevimenti e ricchi antipasti. Salvo riprendere l’antica forma, in quasi tutta l’alta Umbria, con la base più piccola che si ingrandisce andando verso la parte finale in occasione della Pasqua. I puristi della storia della gastronomia e del gusto forse inorridiscono ma l’antica torta, cambiando, è rimasta, fedele a se stessa, una delle preparazioni della cucina umbra. Perso il significato sacrale, in parallelo con il dissolvimento della civiltà contadina, è diventata cibo identitario di una grande comunità: l’Umbria.
Bibliografia consultata
Augusto Ancillotti, Giancarlo Gaggiotti, Dalle Tavole Eugubine… in Tavola, Gubbio, 2001.
Rita Boini, La cucina umbra, i sapori di un tempo, Perugia, 1995.
Luigi Catanelli, Usi e costumi del territorio perugino agli inizi del ’900, Edizioni dell’Arquata, 1987.
Rita Boini è autrice di libri di cucina regionale e tradizionale italiana e di cucina creativa, e di storie per bambini, con uno sguardo attento al territorio e alle tradizioni, ma anche al legame con la terra e la natura. Ha pubblicato con editori italiani e stranieri come Droemer und Knaur, De Agostini, Todaro. Nel 2001 ha vinto il premio Pennagolosa e nel 2002 è stata finalista al Gourmand World Cookbook Award. Lavora al “Corriere dell’Umbria”.