L’ulivo, al di là degli aspetti ecologici, possiede una solida connotazione di “pianta di civiltà” – per usare una felice espressione di Fernand Braudel – che determina e delimita lo spazio del Mediterraneo. Olio, vino e frumento sono i tre prodotti che hanno caratterizzato la dieta dei popoli mediterranei fin dall’antichità. L’ulivo occupa un posto di primo piano fra le piante che danno un carattere unico al mondo mediterraneo, nel suo paesaggio agrario, nelle sue abitudini alimentari, nei suoi aspetti simbolici culturali e religiosi. L’olio era utilizzato non solo come condimento, ma era presente nella farmacopea, nella cura del corpo, come combustibile per l’illuminazione e infine come componente essenziale nei riti religiosi. E non va dimenticato il consumo delle olive, anche se a tale proposito le conoscenze sono molto frammentarie. Tra le testimonianze, frammentarie come abbiamo detto, citiamo soltanto il medico e botanico di Gualdo Tadino, Castor Durante, che nel suo Tesoro della sanità, del 1586, suggeriva di consumare le olive alla fine del pasto per favorire la digestione, osservando inoltre che nell’Italia centrale se ne faceva grande uso in tutte le fasi del pasto, abbinandole a ogni vivanda.
Non sappiamo con certezza se la coltivazione dell’ulivo, che non è una pianta autoctona, sia, per quanto concerne l’Umbria, di importazione etrusca, mentre si ritiene che siano stati i greci a metterlo in coltivazione nel sud d’Italia. Ma su queste ipotesi non c’è un comune accordo tra gli studiosi, c’è infatti chi sostiene, sulla base del ritrovamento di noccioli di olive, che le prime messe a coltura dell’olivo si possano far risalire all’età del bronzo (circa 1700-1500 a.C.). Non tutte le zone dell’Umbria sono vocate alla coltivazione, principalmente per l’esigenza dei piantoni, che richiedono di essere inseriti in fasce altimetriche collinari comprese tra 250 e 500 m. e in terreni facilmente drenabili dalle acque. È per questa ragione che l’olivo compare in ben delimitate aree del territorio, in special modo sulle colline degradanti verso il lago Trasimeno e sulle pendici montuose tra Assisi, Trevi e Spoleto, così come nelle zone collinari nei pressi di Todi e Orvieto.
In età romana la coltivazione olivicola nell’Umbria meridionale è documentata attraverso gli scavi archeologici che hanno portato alla luce numerosi impianti produttivi annessi alle ville rustiche. È il caso del frantoio in località Tripozzo, nel comune di Arrone, ascrivibile alla prima metà del I sec. d.C., e di quello di Eggi, presso Spoleto, di incerta datazione. Anche le numerose ville individuate lungo il corso del fiume Nera, nel territorio di Narni, erano sicuramente dedite alla produzione di olio e di vino, fra il I secolo a.C. e la tarda età imperiale. Analogamente nelle ville scoperte nel territorio a sud di Orvieto, disposte lungo la riva sinistra del fiume Paglia ad una quota compresa tra i m. 100 e 400 slm., sono stati individuati i settori per la produzione di vino ed olio. Come è accertato che l’antico porto fluviale di Ocriculum (nei pressi dell’attuale Otricoli) sul Tevere servisse al trasporto dell’olio umbro verso Roma. Possiamo dire che la cucina romana, così come la conosciamo dai pochi documenti rimasti, era un cucina che “grondava d’olio”.
La caduta dell’Impero romano e le invasioni dei cosiddetti barbari determinarono un periodo di stallo nella coltivazione dell’ulivo, anche perché i nuovi popoli che entrarono nella Penisola provenienti dal nord e dall’est dell’Europa, avevano un’alimentazione diversa da quella mediterranea, incentrata sulla triade burro, birra e carne. Va comunque detto che, nel passaggio dall’Antichità al Medioevo, l’olio mantenne inalterato il suo valore culturale, sia come bene di consumo, sia come strumento indispensabile alla liturgia: tanto per le unzioni sacramentali quanto per alimentare le lampade votive. La tradizione dell’illuminazione sacra ottenuta da lampade alimentate con olio di oliva conosce nella legislazione carolingia precisi dettami, fra cui il mantenimento perpetuo delle lampade nei luoghi sacri. La tradizionale coltivazione degli ulivi nei terreni appartenenti alle comunità religiose era determinata, con molta probabilità, anche da questi motivi oltre che dalla normativa ecclesiastica che bandiva l’uso di grassi animali per più di un centinaio di giorni all’anno. Molti studiosi, come lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, sostengono che nel medioevo la destinazione principale dell’olio di oliva non fosse alimentare, ma liturgica.
La presenza della popolazione nordica dei Longobardi in molte aree della penisola, fra cui l’Umbria, in qualche modo condizionò – per lo meno nella fase iniziale dell’occupazione (fine VI-VII secolo) – l’uso dell’olio, sia in ambito liturgico (i Longobardi erano pagani), sia nella pratica alimentare. L’originaria lontananza del mondo longobardo dal consumo dell’olio ci viene da un significativo episodio relativo alla vita di Santulo di Norcia, riportato nei Dialogi di Gregorio Magno, siamo al volgere del VI secolo: stando al racconto Santulo intervenne miracolosamente a vantaggio di alcuni longobardi che invano avevano tentato di estrarre l’olio dalle olive molite. Solo mezzo secolo più tardi, all’interno di un generale processo di acculturazione del popolo Longobardo, un provvedimento contenuto nell’Editto di Rotari prevedeva una pena, per chi avesse abbattuto una pianta di ulivo, tre volte superiore rispetto a quella comminata a colui che abbatteva un qualsiasi altro albero da frutta.
Il consumo dell’olio, comunque, in Umbria come in altre aree non rappresentò, fatta eccezione per le élite, una presenza strutturale nell’alimentazione quotidiana dei consumatori (almeno al di fuori del periodo quaresimale), mentre molto più utilizzato era il lardo e lo strutto che si ricavava dal maiale. La coltivazione olivicola era relativamente intensa ma d’importanza circoscritta e sostanzialmente locale; si puntava al massimo all’autosufficienza cittadina.
Nelle fonti trecentesche e quattrocentesche il più delle volte l’oliveto è citato in terre “chiusurate”, spesso strettamente legate all’abitato e a volte addirittura dentro le mura come ad Assisi e a Trevi, mentre in quelle provenienti dal tardo sedicesimo secolo in avanti l’olivo appare spesso frammisto a terre arative o a sodo. Dato il valore commerciale dell’olio e il suo gradimento da parte dei ceti più elevati della popolazione, la coltura dell’ulivo tra XVII e XIX secolo tende a conquistare superfici sempre più ampie e l’olio dei territori umbri risulta apprezzato, specialmente sul grande mercato di Roma, anche se va sottolineato che nelle zone mezzadrili, come l’Umbria, la specializzazione olivicola di alcune aree in funzione del commercio dell’olio era molto limitata se non inesistente (alla fine del Quattrocento risulta, però, che l’olio di Spoleto era acquistato dai fiorentini). Le fonti ci mostrano come una grande attenzione alla diffusione di questa coltura sia particolarmente presente nelle vaste proprietà degli enti religiosi. Ad esempio, in uno dei pochi ricettari rimastici, quello riguardante il monastero di San Tommaso a Perugia, fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, redatto da Maria Vittoria del Verde, risulta che delle 170 ricette pervenuteci in 40 di esse l’olio è ingrediente per la cottura e in 14 è condimento; lo strutto è presente in 13 per la cottura e in 4 per condimento; infine il lardo è utilizzato tre volte per la cottura e 7 volte per condire. I dati riportati confermano l’uso urbano dell’olio, nettamente prevalente rispetto agli altri grassi. Riferendoci al consumo nei monasteri va ricordato anche che i giorni di magro del calendario liturgico ammontavano ad oltre la metà dell’anno, ed inoltre è bene ricordare, fatto non trascurabile sotto il profilo economico, che molto di frequente il monastero stesso era proprietario degli uliveti da cui si ricavava l’olio per il consumo interno. Anche se una vulgata molto resistente continua a presentare gli umbri come grandi consumatori di olio, vale la pena ribadire la natura “di classe” del consumo alimentare dell’olio di oliva, e la diversificazione tra alimentazione urbana e rurale, caratteristiche che si sono mantenute fino a tempi recenti. L’olio era un bene prezioso da usare con parsimonia, tanto da connotare la sua dispersione come segno infausto. Dell’importanza della coltivazione dell’ulivo nella regione, tale da caratterizzarne il paesaggio, hanno lasciato testimonianza i numerosi viaggiatori che hanno transitato in Umbria.
Ancor prima che prendesse piede il Grand Tour, il filosofo francese Michel de Montaigne giunge in Italia nel 1581 e nel suo pellegrinaggio verso Loreto attraversa l’Umbria, così scrive dei dintorni di Terni: «al di là i colli più coltivati, abitati, e fra l’altro così fitti d’olivi, che nulla è più bello a vedersi», e più avanti, quando si trova a passare accanto alle pendici della collina dove sorge Trevi: «Fatto sta che è una città costruita su un alto monte, e da un lato si stende lungo le pendici fino a mezza costa; è una posizione amenissima, su quella montagna, carica tutt’intorno d’olivi».
I viaggiatori – per lo più proveniente dal nord Europa, dove l’ulivo non attecchisce -, oltre a sottolineare la presenza numerosa di ulivi, vengono colpiti dal fatto di trovarsi di fronte a piante di grande dimensioni e che danno quindi l’idea di essere particolarmente vecchie. Così descrive, nel suo viaggio fatto nel 1758, il francese Pierre Jean Grosley allorché si trova nei dintorni di Foligno: «I fianchi delle colline da dove arrivammo, sono coperti di olivi, la cui antichità dimostra l’eccellenza del clima: noi non abbiamo visto da nessuna parte degli alberi di questa specie così vecchi, e nello stesso tempo così vigorosi. La maggior parte sono smembramenti di antichi fusti che hanno formato dei nuovi alberi che aderiscono alla radice primitiva». Il botanico francese André Thouin, nel 1796, così parla dei dintorni del Trasimeno: «Un’antica foresta di ulivi a foglie lunghe e strette, alcuni dei quali hanno fino a sei piedi di diametro e si alzano di più di venticinque piedi, precede Torricella, frontiera della Toscana e primo villaggio dello Stato dei papi». Goethe, nel suo celebre viaggio in Italia del 1786, nel frettoloso passaggio attraverso l’Umbria per raggiungere Roma, s’imbatte nella raccolta delle olive nei dintorni di Terni e annota: «Comincia ora (fine ottobre) la raccolta delle olive. Viene fatta a mano; altrove si abbacchiano con le pertiche. Se l’inverno arriva precoce, quelle non raccolte rimangono sugli alberi fino a primavera. Oggi, su un terreno sassoso, ho visto degli ulivi enormi e vecchissimi». Il passo del poeta tedesco ci ricorda il sistema di raccolta effettuato a mano, detto brucatura; solo i rami più alti venivano battuti con le pertiche – modelli praticati ancora oggi -, ma le olive venivano raccolte anche a terra, in questo caso la qualità dell’olio che se ne ricavava era nettamente inferiore, più adatto all’illuminazione che alla nutrizione. Il periodo di raccolta iniziava tra novembre e dicembre, ma poteva continuare anche per tutto l’inverno.
Gli ulivi contribuirono non poco alla creazione di quell’immagine di “Umbria verde” che dalla seconda metà dell’Ottocento affascinò i viaggiatori e divenne una caratteristica peculiare del territorio. Ne è un esempio, fra i tanti, quello che scrive gli anni Novanta del XIX secolo lo scrittore francese Jacques Camille Broussolle: «Gli ulivi fanno ormai sulla terra pallida una macchia immensa, monotona, scura. Quanta poesia comunque! Cercate sulla vostra tavolozza una nota che ricordi il mistero di quest’ora deliziosa; non la troverete! E se vi dimenticherete nel velare il disegno di rosa, dolcemente intenerito, ecco che vi sembra di tradurre, almeno un po’, quel raro spettacolo dei tramonti d’Umbria in mezzo a campi d’ulivi. Ora, è inverno! Con le olive di cui si è appena finita la raccolta, le ultime foglie sono cadute dagli alberi. Ma l’ulivo conserva le sue: è lui che, aspettando la primavera, metterà nel paesaggio la nota perpetua di verde tenero, modesto, misterioso, senza la quale il paese di San Francesco non sarebbe più l’Umbria verde».
Bibliografia consultata
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