La prima volta che sono entrato nella Chiesa di S. Maria di Colle, progettata quasi cinquant’anni fa dall’architetto Vincenzo Tutarini, sono rimasto colpito dalla più rara qualità che può avere un edificio, una struttura plastica, quella di catturare un processo in una forma statica.
La Chiesa di S. Maria di Colle di Perugia è uno strano posto che trasmette la sensazione forte di un movimento progressivo e inarrestabile, di uno sbilanciamento insanabile, che mette a disagio, come deve fare ogni opera forte che si rispetti, e lo fa all’interno di un rigore formale e strutturale e di un equilibrio “squilibrato” che sono degni di nota.
Si aggiunga a questo la “verità” e crudezza del materiale usato, il cemento armato, simbolo delle nostre città troppo spesso negletto e additato come responsabile dei disastri ambientali e architettonici e che invece qui mostra la sua bellezza diretta, senza mediazioni, non priva di un’asprezza raffinata.
L’edificio religioso e la sfida dell’architettura: un segno nel contesto storico della Città
Nel presentare il mio intervento non posso non ripercorrere, brevemente, il contesto storico nel quale sono stato chiamato ad operare. Anche questa storicizzazione dà conto di un dinamismo della comunità religiosa che segue e s’incontra con le esigenze della società civile: ad uno sviluppo suburbano della città, con la creazione di quartieri nuovi, la Chiesa di Perugia, per decreto dell’Arcivescovo mons. Pietro Parente, il 1 luglio 1957, risponde sopprimendo la Parrocchia di S. Maria di Colle in Porta S. Pietro (poi adibita ad Auditorium Musicale) trasferendo il titolo di Parrocchia a un nuovo edificio a valle, lungo via dei Filosofi. La progettazione viene affidata all’arch. Vincenzo Tutarini[1].
È questa una tra le prime parrocchie di Perugia, voluta al tempo del Pontefice Onorio III e contemporanea ad un’altra importante struttura, il Convento di Monteluce, primo convento di S. Chiara dopo l’originaria sede di S. Damiano in Assisi, che proprio ora sta trovando una forte e importante riqualificazione urbana[2].
Accordatura dello sguardo: il congegno, non i moduli
Qui ho trovato in architettura ciò che penso dell’arte che si possa davvero chiamare arte, cioè nulla a che fare con il decoro, il ben fatto, l’artigianato o anche il grande esercizio della tecnica: la perfetta nota stonata. Fondamentale per entrare in un sistema armonico differente ed organico, è lo spostamento dell’obiettivo. Ciò che si deve intonare, infatti, non è la nota apparentemente stonata (perché diversa) ma proprio l’osservatore, il suo sguardo, la sua percezione.
C’è, infatti, qualcosa che non torna subito in questa Chiesa ed è proprio questo che rappresenta lo stimolo costante all’inquietudine di chi vi sta dentro.
Sono convinto che tale intuizione sia di gran lunga il colpo di genio dell’architetto Tutarini, il suo vero “manifesto” intellettuale e strutturale. Sono convinto che fosse davvero in anticipo sui tempi, come concezione, quando è stata pensata, da farla apparire contemporanea oggi, fatto questo che porta ad ammirare non solo l’idea di Vincenzo Tutarini ma anche il suo coraggio nel proporla e realizzarla. Per quanto mi riguarda l’empatia è stata immediata, totale, “facile”, e l’idea della necessità di pensare un interno che fosse all’altezza della struttura mi è apparsa logicamente conseguente. In un anno di riflessioni e sviluppi delle idee non vi è stata sosta, ed è come se la struttura stessa mi avesse suggerito le soluzioni.
Un appunto fondamentale. Alla base di una sintonia con l’idea originaria pur nell’autonomia dell’ideazione, sta un meccanismo che mi si è rivelato immediatamente. È un errore concettuale e pragmatico pensare alla coerenza con la struttura in termini di moduli. La pedissequa ripresa di questi non porta a nulla se non ad una debole ripetizione in scala di ciò che è già potente nelle sue dimensioni e forma originaria. Quello che invece qui mi è successo ed ha rivelato la sua potenza di processo cognitivo, è l’immediata, naturale sintonia con il “congegno” strutturale alla base dell’edificio. Questa è la chiave per poter cominciare a creare. Non avessi percepito questo, non sarei stato neanche interessato alla sfida. La ritmica, i contrappunti, gli accenti con cui i vari elementi sono in rapporto tra loro, rappresentano l’intimo nucleo del problema.
I contrappunti… fondamentali qui e altrove. Ma qui li troviamo come in una partitura musicale: contrappunti sul piano delle direzioni, sul piano dei materiali, sul piano della luce. Si potrebbe dire, per prendere a prestito una metafora dall’analisi matematica, che non sono le coordinate singole ad essere importanti quanto la funzione che le lega.
Urbano, primordiale, arcaico, contemporaneo: gli ossimori di Santa Maria di Colle
La Chiesa in questione appare come un incrocio tra una Cattedrale, un’Archeologia postindustriale e un Tempio antico, assoluto e al tempo stesso disagevole. È giusto che un posto dove si parla di Verità sia disagevole, nel senso che deve stimolare un’inquietudine che spinga a muoversi e non a morire nell’illusorietà del consueto. Probabilmente la mia provenienza da Londra dove risiedo per buona parte dell’anno, dalla Londra della post-industrializzazione dove si vive il backlash del post-impero, con tutto ciò che è il suo portato positivo in termini di contaminazione ed ibridazione culturale, ma anche di inquietudine dei continui spostamenti (spostamenti del pensiero, oltre che fisici), mi ha permesso di entrare subito nel suo meccanismo architettonico, un po’ ibrido, come posso esserlo anche io.
Arte, non decoro. Poesia, non stucchi. Segni, non servizi. La Chiesa antianestetica, la Chiesa nomade
La Chiesa di S.M. di Colle è certamente una ricchezza per Perugia e la sfida di ripensare e risignificare il suo interno, perché entri in armonia con la mirabile intelaiatura architettonica, è una sfida di grande responsabilità, ma non ha generato in me un attimo di titubanza. Finalmente un’occasione in cui un artista contemporaneo incontra un’architettura potente e controversa dove può pensare gli spazi in termini artistici e non decorativi, con il portato contemporaneo di pensiero in una forma piuttosto che di una forma senza pensiero che, come si può vedere in molteplici casi, diviene anestetizzante.
Questa riflessione sgorga spontanea dalla mia stessa identità d’artista, la necessità del segno. Siamo stati oltremodo soverchiati da una mentalità che tende a regolamentare tutto, dimenticando che la bellezza è per sua natura ribelle alle convenzioni, mentalità che rendendo tutto servizio in realtà lo rende amorfo, asettico, privo di vita e d’identità con tutte le preziose irregolarità che essa comporta: anestetica, appunto, perdendo lo stimolo alla riflessione barattata per la comodità.
Ora la Chiesa di S. M. di Colle è antianestetica per definizione, invito all’inquietudine che è vitale per rompere il circolo vizioso dello stato di dormiveglia così attuale in cui tutto sembra assomigliare molto ad una replica proteiforme e fantasiosa del “Prozac”.
Abbiamo urgenza di riparlare di segni piuttosto che di servizi, perché per assurdo è proprio questo il servizio di cui ha bisogno l’uomo oggi. Così come abbiamo urgenza di riparlare d’arte e non decorazione, poesia e non “mestiere”. Quindi ho pensato che tutto ciò che rappresentava l’interno della Chiesa dovesse diventare segno, a partire dalle fondamenta strutturali e formali dell’impianto architettonico in cui è contenuto. La Chiesa di Santa Maria di Colle ha catturato una istanza dinamica in una tensione statica? Bene, ogni elemento, nel suo specifico, sarà estensione di questo concetto. Il rappresentare la dinamicità della vita, e non la morte nella stasi.
Fermare processi che sembrano sull’atto del compiersi, in una strana sfasatura incrociata del prima e del dopo, dove quindi non sia possibile effettivamente stabilire anteriorità e posteriorità ma un mentre, un mentre instabile e vibrante.
Trasmettere l’idea del permanente impermanente, che curiosamente viene a raccordarsi con l’idea di tenda nomade, che come struttura non rappresenta, come pensiamo nella nostra banalizzazione occidentale, il peregrinare indefinito per se stesso, bensì il preciso concetto di una casa mobile-stabile, l’identità solida che gira il mondo portandosi dentro quest’idea di ossimoro dinamico del fermo-movimento. E, non a caso, dentro i significati strutturali della Chiesa di S. M. di Colle si trova anche quello della tenda. Il portale che ho pensato, in fondo è l’accesso ad una tenda . Su queste linee di fondo si sono articolate le soluzioni spaziali e materiali che ho elaborato.
Fulcri significanti della struttura: una ridefinizione verso l’altare
Una delle caratteristiche di S. M. di Colle che chiedeva una fondamentale risposta è l’indefinitezza di un punto fulcro, che per ciò che riguarda il pensiero di una Chiesa cristiano-cattolica, coincide con l’altare. Rimaneva, infatti, incompiuto il processo d’inclinazione e rotazione dei portali strutturali, nel senso della diminuzione delle dimensioni verticali e della convergenza verso un ipotetico punto di arrivo.
La parete absidale rappresentava quasi un fondo artificioso che impediva alla struttura di estrinsecare fino in fondo il suo carattere dinamico.
Come fare in modo che l’abside trovasse la sua collocazione di punto d’arrivo rimanendo in della struttura? La soluzione nasce da un congegno che è parte integrante di tutta la struttura: il controcanto. Si verifica, infatti, che nelle travi di volta l’inclinazione è diretta in senso opposto e quindi contrappuntata dalla direzione sagittale del vertice assiale di volta, che unisce parte destra e sinistra. La ridefinizione del punto di arrivo avviene attraverso tre livelli di processo formale: uno cromatico, uno di elevazione e uno di progressivo allineamento delle diagonali.
Partiamo da quest’ultimo. Nell’idea di una risoluzione unitaria le geometrie del pavimento sono nate dalla proiezione delle geometrie di volta. Per il meccanismo prima identificato esse indicano chiaramente una direzione “esterna” opposta a quella absidale. Prima operazione per riportarle nella logica dello sbilanciamento dei portali è stata l’inserimento al centro di un corridoio a “cuneo” che stringe verso l’abside e che fa immediatamente rientrare la direzione risolvendo la tematica degli opposti. Seconda operazione è l’identificazione di una geometria del presbiterio che nell’arco dei suoi cinque gradini presenta ettagoni irregolari a vertice assiale rivolto all’interno, con un angolo che si apre via via fino all’angolo piatto del quadrato (che identifica il punto di fine e risoluzione del moto) del bema dove viene posto l’altare.
Il Corpo è processo: pavimenti e pareti come “veste” ovvero la bellezza, il cromatico, è il vero patrimonio
In qualche modo si realizza in questa struttura architettonica una sorta di metonimia tra esistenza significante e processo. Ogni manifestazione dell’essere trova il suo catalizzatore nel corpo che rappresenta il processo per antonomasia. Quando pensiamo il corpo esso è già da un’altra parte, ma, indiscutibilmente, mantiene comunque un’identità stabile. Parafrasi di un altro dato esistenziale: la possibilità dell’infinito di essere contenuto nel finito e viceversa in una sorta d’osmotica significanza reciproca.
Il paradosso strutturale di questa Chiesa esprime bene questo paradigma di un esodo ineludibile e continuo del reale verso un compimento, che però è già realizzato, ma che non nega, anzi esalta, la possibilità di una permanenza pre-esistente e costantemente da venire.
Risulta chiaro che tutte le tematiche, anche quelle dei materiali, in questo contesto divengano sfida al pensiero omologato rivisitando le comuni gerarchie di priorità. Qual è il senso di un materiale in un contesto di questo tipo, di grande riflessione spirituale, concettuale e strutturale? Ho dato una risposta dialogica nel senso di una catarsi del significato di duraturo: dal mio punto di vista duraturo è ciò che il materiale o la struttura restituiscono in termini di bellezza, di armonia, di percezione, di ispirazione; e non l’ossessione prioritaria della durata “fisica” nel tempo. Per un solo apparente paradosso, infatti, questa ricerca della “durata” a fronte di un pensiero vivo, diventa la negazione materialistica del divenire e quindi, in conseguenza, negazione della possibilità della “trasfigurazione” della realtà. La bellezza è segno tangibile della realtà, non viceversa.
Torno ancora sul concetto che qui la partita che si gioca è quella del significato: ovvero dell’arte. Il termine “dialogico” che ho usato è riferito al fatto che proprio in quest’edificio si può realizzare il confronto e la compresenza tra l’arcaico ed il futuro, in una sorta di passaggio del testimone che qui, date le peculiarità che ho molto sinteticamente esposto, ha un senso legato all’intuizione generale.
Le geometrie del pavimento saranno in materiale antico, il marmo, mentre le campiture cromatiche saranno in materiali resinosi, che meglio d’ogni altro, in questo contesto, risolvono insieme le intenzioni originarie dell’architetto, il mio impianto cromatico e la modernità con il suo portato di mutabilità e di costante ridefinizione.
Uno spazio come questo sottintende l’assolutezza e profondità mistica di un tempio antico in una concezione e contesto urbani. Ne consegue che il concetto stesso di addobbo perde di senso; ecco, ne prende il posto la mistica dello spazio, la sublimazione delle sensazioni. E, va da sé, che la luce acquista un ruolo primario a questo fine, e la luce s’estrinseca nella percezione cromatica. Tutto il percorso che ho pensato per la Chiesa, con la risoluzione nel punto absidale dell’altare, è basato sulla progressione cromatica che accompagna, veste, la progressione strutturale.
I “portali trapezoidali” estrusi, che rappresentano la geniale intelaiatura di S. M. di Colle, la dividono in sei settori: le geometrie sul pavimento saranno la proiezione, come accennavo, del disegno di volta di questi portali, e quindi anche il pavimento avrà una suddivisione in sei settori. I sei settori nel pavimento, sulle pareti, sulla volta avranno ciascuno una valenza monocroma uniforme ma vibrante, a schiarire nel procedere verso l’abside che sarà bianco. Il percorso dall’ingresso all’abside sarà caratterizzato da una progressione cromatica verso la luce, dallo scuro al chiaro, dall’ombra alla luce del compimento mistico e strutturale.
Vorrei così introdurre una riflessione sulla possibilità di cominciare a pensare al pavimento e alle pareti non più in termini di pavimento e di pareti, ma di vera e propria veste: una veste cromatica, che rappresenta il primo potente strumento d’immersione in uno stato dell’anima.
Il degrado che mantiene la potenza è segno di speranza
Il Novecento, nelle sue infinite rivoluzioni ed evoluzioni, ci ha dato l’esatta percezione della deperibilità del reale, di un uomo e di un mondo che si portano dentro un processo di decadimento temporale e spaziale che però non sono segni di distruzione, ma rappresentano esattamente i prodromi di una nuova bellezza, una bellezza che non teme l’inquietudine, che non teme la contaminazione, che non teme l’esodo, ma che ne fa invece i cardini di una nuova possibile visione, permanente e impermanente, profondamente genuina e a tratti anche dura: le basi per un nuovo umanesimo. Cito uno stralcio da un mio scritto :
«…l’infinito ci attraversa, ci incarna, se ne va e ritorna, non è immaginabile ma è esperibile, e la sua esperibilità è legata a quanto di più distante dal suo concetto, proprio il corpo, il corpo di carne, il corpo con i suoi processi, unico catalizzatore possibile, perché solo attraverso il corpo, almeno in questo universo, siamo in grado di percepire e generare pensiero, e attraverso il corpo, fosse anche la sua negazione, il diapason della nostra musica può entrare in sintonia con le profondità della superficie che ci si rivela e nasconde costantemente, in un misterioso tentativo di celare il suo disvelarsi»[3].
Da queste intuizioni è scaturita la progettazione di tutti gli elementi: l’ambone, il fonte battesimale, l’altare, la bussola, la porta e il portale.
Cemento e vetro, povertà e trasparenza
I materiali che ho scelto sono il cemento, in coerenza con la struttura della Chiesa, e il vetro. Il primo pensiero è stato la povertà e la trasparenza. Si sono aggiunti, poi, altri livelli di lettura. La povertà non significa inferiorità, tanto è vero che nella gerarchia strutturale della nuova chiesa ci sarà un altare di pietra povera che insiste sopra il marmo, a significare un cambiamento nella lettura che rende i materiali poveri più importanti di quelli ricchi se abitati da un’idea forte che li incarna e significa. Inoltre il cemento è il materiale con cui si è edificato nei centri urbani fin dai tempi di Roma, con un incremento, non sempre controllato, nella seconda metà del secolo scorso. È giusto e rigoroso che in una struttura, che è stata pensata in maniera decisamente urbana, i materiali rispecchino questa vicinanza e scelta. Queste in estrema sintesi sono alcune delle riflessioni ed immagini che sono al centro del mio progetto che riguarda Santa Maria di Colle.
Concludo ringraziando con affetto l’amico e consulente teologico liturgico P. Vittorio Viola OFM, docente presso il Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo in Roma e Direttore dell’ufficio liturgico della Conferenza Episcopale Umbra le cui considerazioni sono aiuto prezioso nell’impresa, Mons. Pietro Ortica in qualità di parroco di Santa Maria di Colle, e tutti gli amici che sostengono l’intervento. Un cenno anche a coloro che sono contrari perché la dialettica delle opposizioni spesso tira fuori da tutti, e da me in particolare, il meglio che si possa dare.
[1] cfr. Chiara Falcone, Progetto di sistemazione del complesso parrocchiale della chiesa di Santa Maria di Colle a Perugia, Università degli Studi di Perugia – Facoltà di Ingegneria, relatore prof. Ing. Paolo Belardi, 2007.
[2] cfr. Giuseppe Cerbini, Storia della Parrocchia di S.Maria di Colle in Perugia, Giuseppe Piria Editore, 2002. http://www.diocesi.perugia.it/parrocchie/smariadicolle
[3] cfr. Raul Gabriel, Clandestino Rivista di Avanguardie poetiche ed artistiche, n.2, 2006, pag. 11. http://www.raulgabriel.net/
Raul Gabriel, artista italo-argentino, è nato nel 1966 a Ensenada (Buenos Aires). Vive e lavora tra Londra, Milano e Roma. A Raul Gabriel sono state dedicate numerose mostre pubbliche e private. Da ricordare, fra le più importanti, la personale a Londra alla Broadbent Gallery nel 2006, la personale a Roma nel 2007 alla Galleria Pino Casagrande, la mostra e le fiere a Berlino e Miami nel 2008-2009, l’installazione multipla all’inaugurazione della Fondazione Wunderkammern a Roma fine 2008, l’imponente video-installazione al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2009.