Spostando l’attenzione dalla figura umana a quella carne, sostanza materiale che imprime inquietudine per la crudezza dei particolari e prossimità alla persona, ebbene la carcassa eviscerata mostra ciò che manca ai quarti raffigurati: proprio il “quinto quarto”, come viene definito nella nostra culinaria tutto quello che è commestibile delle interiora; ovvero l’insieme delle frattaglie costituita dagli organi interni o visceri degli animali: fegato, cervello, rene, stomaco, cuore, milza, polmone. Andrebbero aggiunte anche le cosiddette animelle (pancreas, timo e ghiandole salivari) simili per consistenza e composizione chimica.
«La frattaglia è la parte umorale dell’animale dove sfida l’uomo in tutte le sue sfaccettature. Dalla dolcezza dell’animella, alla durezza della trippa fino al carattere acre del rognone passando dalla morbidezza del cervello alla tenacia del cuore»
Frattaglia e rigaglia (insieme di interiora): la prima presenta il suffisso peggiorativo (-aglia) che fa curiosamente contrasto con l’originario etimo dell’ultima: infatti rigaglia viene da “regalia” parte destinata al re o al capo cacciatore come regalo, quindi parte prelibata o comunque significativa per intrinseche e simboliche pregnanze.
Il nostro sugo di rigaglie, tipico della domenica per pastasciutta, risotto o polpette, mostrava le budella del pollo garbatamente intrecciate piuttosto che tagliate, forse anche a scopo di predisporle per il consumo a parte, come “umido”.
Tra definizione e descrizione, seguendo una pista gastronomica secolare, è noto che le frattaglie sono la base per alcuni dei cibi di strada più diffusi. A Palermo per esempio, il pane con la milza (detto “pani ca’ meusa”), mentre la frittola consiste in pezzetti di carne, grasso e nervi; a Firenze il lampredotto e la trippa. Rimangono appannaggio esclusivo dei veri devoti molte altre prelibatezze di strada: musso (muso di manzo), peri (piede), scannaruzzatu (esofago), i piedini di maiale (carcagnola), strifizzi, testa di quagliata e centopelli, parti dell’intestino molle e della parte superiore dello stomaco, che costituiscono la cosiddetta quarume (o caldume).
L’Umbria a sua volta, come altre regioni, ha un sapiente trattamento e consumo delle frattaglie. Coratella (fegato, polmoni, cuore) – Pagliata (in comune con il Lazio pajata) o budella di vitello – Trecciola, budella di agnello giovane – Trippa, da parti diverse dello stomaco di cui una, la pregiata millefoglie ormai quasi introvabile – Animelle – Cervello, Schienali (midollo spinale), Lingua, Rognoni e altre parti molli “di recupero”.
In occasioni di feste o raduni ma soprattutto nei giorni di mercato, si trovano in luoghi fissi furgoni o piccoli chioschi per la Porchetta, maiale intero cotto al forno con aromi; ogni paese ha leggere varianti della preparazione e cottura, di norma nel forno a legna. Nel pane o dentro incarti profumati, si consuma insieme alle interiora nere di pepe, erbe e umori che la farciscono; sono prelibatezze per intenditori insieme al cicotto, che sublima tutte le parti gelatinose e di scarto (piedini, muso, orecchie, coda) in sapiente cottura; viene di solito preparato e venduto a parte.
Consideriamo coerente a questo contesto anche l’uso culinario del sangue; sia perché cibo di recupero o
addirittura di scarto, sia per il suo carattere affine alle parti interne.
Di sapore arcaico e fattura casalinga il Sanguinaccio, sorta di salame dolce ormai quasi scomparso che si ottiene dal sangue del maiale variamente mischiato a noci, mandorle, uva passa, zucchero e vino cotto. Particolare non trascurabile: una leccornia molto simile a questa è l’unica pietanza descritta con una certa precisione nell’Odissea.
Intensa la loro valenza simbolica nei rituali; per rapidi cenni: quello propiziatorio in ambito ellenico che mischia sangue, latte e miele prima di pratiche divinatorie e di contatti con l’oltretomba; lo opera Ulisse suggerito da Circe per rivelare la traccia e il fine del suo peregrinare.
Il fegato in bronzo etrusco del Museo di Cortona ricorda il rituale millenario della divinazione come quelli disegnati in antichi manufatti; esso sta a quello destinato al consumo (intero o sezionato) in misura diversamente simbolica rispetto alle macellerie che lo espongono appeso a ganci insieme alle altre frattaglie.
Sembrano davvero crudezze troppo visibili, segni espliciti cruenti che diventano cibo dopo accorta elaborazione e cottura (sanguetto, sanguinaccio, mazzafegata). Ai nostri tempi appaiono preparazioni discutibili per abitudini gastronomiche e culinarie normalizzate, eppure rivelano finezze di gusto e sapori sorprendenti.
Da notare infatti che l’uso e il gusto alimentare hanno designato una nomenclatura delle parti che suona affettuosa e gentile; sembrano quasi stemperare la potenza evocativa/repulsiva delle interiora: animelle, coratella, sanguetto, di contro a più cupe definizioni che certo non riescono a fugare l’incisivo potere dell’ingrediente primario: il sangue.
Quello del maiale , bestia che richiede adeguata e potente uccisione , specie nella pratica antica dello “scannamento” (termine tuttora in uso), il sangue dicevamo, offre un’immagine di truce abbondanza ed era utilizzato per integrare l’alimentazione, tanto più in economie povere e deprivate, realizzando il consumo completo dell’animale.
Entra da protagonista, con le tinte oscura del budello, nella mazzafegato[1] o mazzafegata e nel citato sanguinaccio, tutti confezionati in forma di salsiccia più o meno grande; ingentiliti da uve, pinoli, zucchero o sapido pepe. Il cosiddetto sanguetto invece, piatto ormai dimenticato, è quello del pollo, bestiola di casalinga e modesta considerazione; raccolto e immediatamente rappreso in acqua calda, veniva poi tagliato a tocchi e cotto in tegame con intingolo di aromi per una frugale consumazione.
La scena gastronomica evoca altri scenari: quello che sta dentro viene esposto, quello che si considera scarto entra nella giaculatoria delle tradizioni culinarie. Ecco dunque le frattaglie, impudiche sessioni di carni immolate e poste in vendita, desiderata minoritarie nell’esercizio dell’acquisto e del consumo sia domestico sia pubblico, seguendo le norme del percorso che si fa spia di pratiche e culture, dalla strada alle osterie.
Il colore smorto e livido oppure atro e sanguigno, una percezione visiva così viscerale che non offre scampo a “quel che resta” di un’uccisione. Non è l’inanimato che si mostra ma proprio lo smembrato, esito di un atto che toglie la vita.
Appare inquietante alla vista la parte vitale occulta che si rivela/sviscera, e le interiora sono quanto di più nascosto quindi più intollerabile a vedersi.
Hanno consistenze liquide e indistinte, forme mutevoli: budella, animelle, cervello, fegato, milza, polmoni, pancreas, stomaco. Il rituale espositivo della vendita prevede custodia e confezioni chiuse, mentre appese, una volta cotte, resistono ormai solo come ‘cibo di strada’, celebrato in tempi recenti dal belletto modaiolo e globale che certo ne ha contenuto la scomparsa, senza però affrancarle del tutto dall’idea di vitto del limite sociale, relegato all’ambito popolare, venato dal ribrezzo dell’origine (forma e colore), lontano dall’asettica porzione di carne sezionata e impacchettata posta in vendita, che certo non ricorda il vivente e le implicazioni etiche e pratiche del relativo allevamento e macellazione.
Si dovrebbe almeno riflettere che dove si pratica il consumo integrale delle carni, si afferma di fatto anche un’etica del consumo, quindi una forma di rispetto del sacrificio dell’animale; mangiarne tutte le parti, eliminare lo spreco della preferenze verso porzioni non a caso definite “nobili” o tagli canonici, corrobora verso una buona pratica di utilizzo delle risorse alimentari; al contrario il sistema di allevamento, uccisione, confezione, vendita quindi consumo seriale, industriale, asettico, decretando repulsive e inadatte le frattaglie, le rende meno appetibili e di conseguenza induce una modesta domanda da parte del consumatore.
Dove risiede sangue e materia, lì persiste l’ombra della vita marchiata dalla morte. Questa è la forza residua dello scaldalo: ciò che resta di una uccisione. Attraverso di essa è necessario passare per riconoscerla, mentre con il suo oblio o rimozione si rende possibile considerare l’animale macellato come prodotto inerte, organizzato ed elaborato nel rito centrale delle moderne modalità di utilizzo.
La società del benessere deve rimuovere in molteplici istanze ogni sospetto di malessere; la carne e quella animale prima di tutto, sbarazzata dagli scrupoli di qualsiasi spiritualismo, si presta alla messa in opera dell’uso e consumo secondo queste modalità di massa ma nemmeno il tempo della smitizzazione riesce a cancellare gli antichi rituali simbolici dell’uccisione e della relativa pratica alimentare e cultuale. Tali rituali sopravvivono nella tenacia delle tradizioni culinarie e sociali attraverso gli usi locali, nelle abitudini familiari delle festività e delle pratiche stagionali (il periodo invernale con il maiale, quello pasquale con l’agnello, l’estivo con l’oca nel solleone della mietitura).
In questa scia arrivano a mescolarsi povertà degli ingredienti e ricchezza delle preparazioni; la gustosità ormai acclamata delle mille ricette regionali offre agli occhi e alla memoria la rievocazione di certi affreschi celebrativi; nature morte ridondanti disposte al pari di quei cortei intasati di divinità, cocchi, nuvole e animali fantastici che convergono verso un centro, blasone o personaggio, dove tutti si precipitano a celebrare non la gloria “di casa Salina” ma quella dimessa, eppur succulenta, delle Frattaglie, a loro volta gloria della sapienza della tavola e della vita.
[1] Mazzafegato, (salsiccia di maiale con una percentuale di carne di fegato di maiale): quando si parla di mazzafegato ci si riferisce a salsicce prodotte addizionando del fegato di suino al normale impasto, molto saporite, preparate con un diverso contenuto di sale ed aromi, da cui la denominazione dolci o salate. Il nome ha due possibili origini. La prima sembra derivare da “mezzo fegato”, ad indicare la percentuale dello stesso presente nell’impasto. L ‘altra potrebbe indicare il termine ammazzafegato, proprio per sottolineare il fatto che non si tratta di un prodotto delicato, ma di un piatto robusto.
Angela Margaritelli lavora al Centro Studi del Teatro Stabile dell’Umbria. Esperta in arte dello spettacolo, svolge da tempo attività di promozione e divulgazione artistica e culturale.