Cosa c’è di più forte della passione artistica?
Difficile rispondere, ma le arti, destinate a essere veicolo di comunicazione e quindi rivolte agli altri, sembrano avere un posto privilegiato.
Se poi si innalzano oltre l’artigianato, allora meritano menzioni e ricordi particolari.
La scoperta della nuova musica portata dagli americani, il jazz, in tutt’Italia determinò la svolta di vita per molti musicisti, professionisti e non.
Il ritmo della ripresa nel dopoguerra s’innestò perfettamente con quello base di quel nuovo genere, lo swing: trait d’union sovranazionale e sovraetnico, poiché di matrice nera.
Dopo le successive svolte che portarono alla nascita negli ultimi anni Cinquanta e nei Sessanta dei nuovi fenomeni musicali giovanili – da rock’n’roll, Beatles e Bob Dylan in poi – che cambiarono ulteriormente gli scenari della cosiddetta pop-music, alcuni quaranta-cinquantenni si ritrovarono sotto un antico sogno: formare una Big Band, la grande orchestra di jazz, proprio come quelle scoperte dai dischi portati in Italia dagli Alleati, capeggiate da nomi fino allora (anni Trenta) proibiti, o italianizzati: Luigi Fortebraccio per Louis Armstrong, ad esempio.
Le big band di Glenn Miller, Benny Goodman, Duke Ellington, CountBasie, Tommy Dorsey rappresentavano il mainstream, la corrente principale del jazz, popolare anche grazie alla ballabilità di quelle musiche, sontuose e complesse perché proposte con grosso organico strumentale.
Anche con gruppi più piccoli si ballava il jazz, il boogie, lo swing; e le orchestre normali, in relazione alla grandezza del locale, si conformavano in quattro ritmi (pianoforte, basso, chitarra e batteria), due o tre sax\clarinetti, una o due trombe, un trombone; in Italia si aggiungeva a volte un violino, e più spesso la fisarmonica e il cantante.
Ma quei dischi arrivati con la liberazione facevano sentire altro, qualcosa che elevava la semplice esecuzione a qualcosa di speciale, diverso anche dalla orchestra classica con archi e fiati.
Così scoccò finalmente la scintilla in alcuni perugini che avevano suonato, prima e dopo la guerra, nelle nostrane formazioni come descritte sopra.
Nel perugino non si era mai formata un’orchestra più grande, oltre che per mancanza di veri maestri arrangiatori – seppure alcuni di essi onorevoli e bravi musicisti – anche per evidenti ragioni economiche: i maggiori costi si sarebbero trasformati in minori guadagni per gli strumentisti nel periodo della loro affannata ricerca di lavoro che fortunatamente si apriva copioso per l’euforia di ballo e divertimento nel dopoguerra.
Così, dopo l’ascolto all’Altro Mondo di Rimini della Big Band di Angel Pocho Gatti col meglio del jazz italiano di allora, nell’estate del 1973 Vinicio Pagliacci, già tenorsassofonista nelle orchestre locali fino ai primi anni Sessanta, si mise in testa di formare una vera big band, complice l’aria che Umbria Jazz nascente faceva tirare: ora il jazz era musica da concerto, e nel mondo ormai considerato l’altra forma d’arte musicale tipica del Novecento.
Pagliacci contattò Ledo Lazzerini, egli stesso provetto sassofonista e jazzista, gestore del celebre negozio perugino di musica Ceccherini, intorno a cui ruotavano i musicisti locali. L’entusiasmo fu subito contagioso, e i colleghi di 15-20 anni prima, di cui sapevano forte la passione per quel jazz classico, ripresero gli strumenti lasciati da parte dopo il cambio di musica generazionale degli anni Sessanta.
Passione. Fervore. Realizzazione disinteressata del sogno. Valori musicali… Quello che di più bello spinse a volare fu il segreto dell’avventura.
La prima Big Band, a cui lo scrivente è forse più attaccato, coinvolse oltre ai due citati: Memmo Bianconi, Oliviero Ciacci, Orfeo Morettini (sax), Tullio Scortecci, Gianfranco Ticchioni, Claudio Jacopi (trombe), Augusto Marcelli, Aurelio Tacconi (tromboni), G. Franco Caligiani (pianoforte), Sauro Peducci (basso), Nando Roselletti, Silvano Pergalani (chitarre), Sigismondo Giostrelli (batteria).
Ricordo tutta l’eccitazione di quei momenti preparatori, quando mio zio Oliviero mi raccontava, e assistei anche alla loro prima prova, nel salone di casa di uno di loro, col primo maestro, l’assisiate Miro Graziani, talentuoso autodidatta con belle vene di compositore e arrangiatore. Di lui, tempo dopo, registrarono il loro primo disco 45 giri, una Rapsodia americana con bei richiami alla tradizione del musical e di Gershwin, e una bella trasmissione di Radio3 a lui dedicata, con concerto dal vivo dei suoi arrangiamenti. Graziani voleva farne un’orchestra itinerante, forse la sua orchestra; ma essi avevano già un lavoro, diverso, e volevano imparare, suonare i classici, migliorare. Così la diversità di obiettivi fece arrivare alla guida un altro illustre perugino, Alfio Galigani, il primo jazzista concittadino a raggiungere la vera professionalità, con diploma di clarinetto al Conservatorio (allora Liceo Pareggiato) e concorso vinto presso l’orchestra di musica leggera della RAI di Roma, di grande prestigio. Molte volte lo vidi negli show del sabato, a Canzonissima e così via, gioendo poi a seguire le prove del lunedì sera nel locale che il Comune aveva loro assegnato, ora parte del Conservatorio. Assistere ai primi concerti in Sala dei Notari, al Morlacchi, nei paesi, sempre strapieni di gente che li conosceva o che veniva ad ascoltare quella rara formazione ogni volta migliore e più sicura nel repertorio, era una fonte di piacere e ammirazione. Ciò che li contraddistingueva era da una parte la serietà: il desiderio di onorare quella musica che veneravano li faceva applicare individualmente e coralmente come io stesso, nella mia ormai lunga militanza professionale, non credo di aver mai visto. E poi il vero valore aggiunto: l’amicizia, derivata dai lunghi anni di pratica comune nelle orchestre citate, e dalla felice sorpresa di poter finalmente ritrovarsi con quel desiderio comune mai sopito. Le prove, serissime, erano intercalate da irrefrenabili momenti di gag e battute, che rendevano l’ambiente bellissimo, anche per un ragazzotto come me, che assisteva rapito, desideroso in futuro di occuparsi di quelle musiche. Idem per i concerti, sempre affrontati con spirito che i professionisti spesso dimenticano.
Galigani, forte delle conoscenze didattiche (di lì a poco fu anche il primo docente della neo istituita cattedra di sax al Conservatorio perugino) e degli ambienti musicali nazionali, li raffinò nel linguaggio, portandoli in breve a poter esibirsi anche in due edizioni di Umbria Jazz, di fronte a pubblico e critica di tutto il mondo, che apprezzò nelle recensioni nazionali le loro performance, pure con riguardo alla scelta di rimanere nel repertorio classico da big band, apprezzando di più proprio quest’aspetto. Thad Jones, capo orchestra e trombettista di fama mondiale li omaggiò di un ricordo scritto, sul piacere di averli ascoltati prima della sua esibizione a Todi, per Umbria Jazz 1974. Suonarono pure, nello stesso ambito, col grandissimo Tony Scott, italo-americano (Antonio Sciacca) che per vari anni era stato votato dalla più importante rivista di jazz americana come miglior clarinettista di jazz nel mondo.
Seguirono anni di concerti, in media venti e più a stagione, dentro e fuori regione, cosa che nessun organico analogo in Italia riusciva a fare, nonostante nomi blasonati, e anche tournée in Romania, Germania, Cecoslovacchia. Pure Canale 5 e RAI 1 ospitarono le loro esibizioni.
Ulteriore e definitivo stacco avvenne con l’arrivo alla direzione del romano Giancarlo Gazzani, segnalato dallo stesso Galigani quando egli non poté più conciliare gli impegni orchestrali romani con quelli a Perugia. Musicista completo, trombonista, arrangiatore per la Rai, compositore e docente di Esercitazioni Orchestrali al Conservatorio, Gazzani era un vero direttore, e Galigani trovò il meglio per l’orchestra, sempre smaniosa di progredire; egli stesso, nonostante l’età, si perfezionava con lui in arrangiamento. Il salto fu definitivo, e dalle prime entusiastiche parole di mio zio, capii che anche per me poteva essere una fortuna. Assistendo alle prove mi resi conto subito di quanto completo e competente fosse nel lavoro, e quale gratificazione e progresso stesse dando all’orchestra che se ne innamorò, inserendolo facilmente in quell’aria familiare e complice, e rendendogli facile il lavoro di affinamento, arrangiamento e direzione. Arrivato come aiuto nei tromboni in qualche occasione, in quel ruolo di direttore fu subito principe, e mi resi definitivamente conto che anch’io avrei voluto fare quel lavoro. Così anche per lui, di spirito gioviale ma serissimo nel lavoro, furono anni bellissimi e di soddisfazione, coronati da un LP di arrangiamenti suoi e di Marcello Rosa, grande trombonista romano, che fu ospite in varie occasioni. Entrambi hanno ricordato tutto il piacere della loro esperienza con la Perugia Big Band nel libro, curato da C. Pagliacci e G. Ticchioni, Jazz e non solo jazz a Perugia e dintorni. I gruppi di musica leggera dagli anni ’30 agli anni ’60 del XX° secolo e la Perugia Big Band. Altri direttori da segnalare, per periodi brevi, Paul Jeffrey (del prestigioso Berkley College di Boston che gestisce i corsi estivi di perfezionamento per Umbria Jazz da più di trent’anni, Danny Richmond, sassofonista professionista che a Perugia studiava Medicina, Daniele Fusi (allievo di Gazzani ai corsi internazionali di jazz di Siena che Giancarlo ha tenuto per molti anni), e Nando Roselletti, storico componente fin dagli esordi, bravo arrangiatore oltre che esperto chitarrista.
Ulteriori musicisti famosi ospitati: Bruno Biriaco, Lucio Dalla, Tullio De Piscopo, Gabriele Mirabassi, Renato Sellani, Massimo Urbani, e altri per i quali si rimanda al già citato volume di Pagliacci e Ticchioni.
Una menzioneparticolare per la vocalist Lalla Morini, aretina, vera musicista completa, una delle rare voci paragonabili per raffinatezza e swing alle lady d’oltreoceano, e che nel disco si può pienamente apprezzare. Si unisce alle altre belle voci che hanno cantato con l’orchestra, citate in appendice, assieme ai musicisti che nel quarto di secolo d’attività hanno contribuito a far continuare il sogno, l’utopia reale di un gruppo di bravi, umili e profondi cultori dell’arte, qui nella forma della “Big Band”; essi hanno dimostrato a tutti quanto vero sia poter nella vita realizzare i sogni: ma bisogna conquistarli e crederci col massimo impegno, senza arretrare. Il risultato poi si vede, e il bello trasuda da imprese come l’avventura della Perugia Big Band.
Vivificate da questo sincero spirito, oggi merce rara, volano alte nel ricordo, e regalano ancora emozioni.
Appendice
Perugia Big Band 1973 – 1997
Elenco Musicisti che si sono alternati, oltre i già citati nel testo
Sax
Andrea Cavallucci; Carlo Orazi; Sergio Pieri (Pierucci); Alberto Sabatini; Francesco Santucci.
Trombe
Alberto Antonini; Alessandro Bulletta; Augusto Giostrelli; Augusto Mencarelli; Sesto Temperelli.
Tromboni
Aurelio Bruni; Galliano Cerrini; Raffaele Monni; Flavio Polegri; Emanuele Ragni; Mario Sambuchi; Antonino Ticchioni.
Basso
Stefano De Simone; Stefano Mora.
Batteria
Daniele Fusi; Renato Peppoloni.
Vocalist
Maria Teresa Borsellini; Antonella Falteri; Silvia Pierucci; Adriana Regali.
Paolo Ciacci (Perugia, 1960), è docente dal 1999 di Strumentazione e Composizione per Orchestra di Fiati presso il Conservatorio “D. Cimarosa” di Avellino. E’ anche compositore di musica per film (studi con E. Morricone all’Accademia Chigiana di Siena), arrangiatore e direttore per orchestre ed ensembles corali. Ha pubblicato il libro autobiografico Tutto ciò che è stato…È (ed. Futura, Perugia 2015).