Premessa
La città medioevale di Perugia, quella che oggi chiamiamo ZTL, si è sviluppata nel medioevo in cinque rioni, dipendenti dalle porte principali, che le donavano una graziosa forma a stella. Ad ognuna delle porte corrispondevano un emblema ed un colore: Sole in campo bianco per Porta Sole, Orso in campo turchino per Porta Santa Susanna, Cavallo in campo Rosso per Porta Sant’Angelo, Cervo in campo verde per Porta Eburnea, Leone in campo giallo per Porta San Pietro. A queste si sono aggiunte nel corso del tempo numerose altre porte monumentali, ognuna a scandire un livello stratigrafico del percorso della città verso il futuro.
L’annosa questione relativa all’iconografia delle porte risale al momento in cui gli abitanti di porta san Pietro si resero conto di non aver mai visto un leone. Per allora gli emblemi storici dovevano già essere stati sostituiti: dai santi a cui le porte sono intitolate, o dai santi a cui sono dedicate chiese nelle pertinenze della Porta o, ancora, da oggetti connessi per particolari ragioni ai quartieri stessi. Pare che l’ampio spettro di possibilità non spaventasse, né in alcun modo confondesse, miniatori e lapicidi del tempo, anche se questi ultimi si sono chiesti fino all’estinzione quale fosse il proprio lavoro.
Porta Sant’Angelo, così chiamata per il tempio paleocristiano dedicato a san Michele, è rappresentata dall’arcangelo in veste di guerriero. A volte, la figura dell’arcangelo è solo richiamata dalla presenza di una spada alata in campo rosso alla quale si sospetta potesse essere associato un cartiglio recante la dicitura torno subito. Infine, in rari casi, la Porta è simboleggiata da una clava, forse perché dalla Porta entrava in città la maggior parte della legna combustibile. La sintesi della tradizionale iconografia del santo rappresenta un’abbreviazione dell’unità minima di significato utilizzata dal linguaggio artistico, l’icona, ovvero lo strumento utilizzato da un emittente per trasmettere informazioni ad un ricevente. Per molto tempo i potenti si sono avvalsi dell’arte per interagire con il popolo analfabeta in modo immediato e diretto, poi è stata inventata la televisione. L’insieme delle icone rappresenta il codice attraverso cui si veicola il linguaggio. Le icone rispettano formule fisse e possono chiamarsi significanti, mentre il loro significato, variabile, dipende dal contesto in cui l’icona è rappresentata. Linguisticamente parleremmo, per riferirci a quello artistico, di un codice iconico secondario, anche se in molti casi si è parlato anche di una gran noia. Il termine iconico viene convenzionalmente utilizzato per identificare un codice in cui l’espressione somiglia al contenuto che esprime, come nei segnali che indicano la presenza di toilette, il divieto di accedere in alcuni locali, il pericolo di attraversamento espresso con punti esclamativi.
L’aggettivo secondario implica che un codice abbia per contenuto l’espressione di un altro codice, così come avviene, per esempio, con il codice Morse. Infine vi è la sintassi, ovvero il modo in cui le parole – le immagini – si combinano in unità di livello superiore per combattere la noia. Nella lingua parlata la sintassi è alla base della costruzione delle frasi. In arte fa sì che la compresenza di più figure in una stessa scena assuma significati complessi: ad esempio, tredici uomini sazi in attesa di scoprire chi pagherà per tutti possono essere identificati come i dodici apostoli e Gesù Cristo nell’Ultima cena, un uomo alato e una donna che fissano intensamente una colonna sono un’Annunciazione, e così via. Altra fondamentale funzione della sintassi è quella di ridurre l’ambiguità del messaggio, grazie ad aspetti quali linearità e struttura. La struttura è organizzazione interna della costruzione linguistica, mentre la linearità caratterizza le cosiddette “catene linguistiche”: struttura, non le priva del significato. In arte la linearità fa sì che si possa costruire un ciclo di affreschi senza dovere in ogni scena reintrodurre il tema generale delle storie. Riassumendo, l’iconografia studia la sintassi delle opere d’arte e il suo mutare nel tempo.
San Michele
San Michele compare la prima volta nella fiction “Antico Testamento” come difensore del popolo; nel Nuovo Testamento viene indicata la sua funzione di latore di un messaggio divino di suprema importanza, rappresentante ed esecutore in terra della volontà divina. Le descrizioni di apparizioni di angeli nella letteratura profetica e apocalittica ebbero un’influenza determinante sull’arte medioevale prima di essere soppiantate dagli UFO. Nell’Apocalisse di Giovanni, san Michele è il capo dell’esercito celeste che sconfigge il male. Sta sempre alla presenza di Dio, a differenza di Gabriele, ed è stato adottato dalla Chiesa come santo protettore del cristiano militante. Le sue origini risalgono probabilmente alla religione dell’antica Persia, il cui pantheon era fondato sul principio della contrapposizione tra bene e male, prima che fosse coperto da copyright. San Michele ricorre frequentemente nell’iconografia religiosa: è raffigurato come un giovane angelo che indossa un’armatura e spesso una corta tunica. Mentre convenzionalmente impugna una spada nella mano destra e regge una bilancia con la sinistra, a volte è connotato da altri attributi: lo scudo, una lancia e in rari casi un globo. Satana, rappresentato sia con sembianze antropomorfe, sia come drago, giace ai suoi piedi. L’arcangelo è spesso rappresentato mentre attende alla cosiddetta “pesatura delle anime” o “psicostasia”: su ciascun piatto di una bilancia pesa un’anima, rappresentata come una minuscola figura umana nuda. L’anima degli eletti è leggera, perché priva del peso del peccato, mentre quella dei dannati è pesante, oppressa dai mali che l’affliggono e dalla cattiva digestione. In molte rappresentazioni è ritratto un diavolo che di soppiatto trae a sé un’anima destinata al Paradiso. Nella veste di pesatore delle anime, San Michele svolge, se presente, un ruolo centrale nelle scene di Giudizio Universale, nelle quali pare chieda a Dio: «che faccio, lascio?» Questa scena presenta equivalenti in altre religioni. In quella greca era compito di Hermes, che conduceva le anime dei morti agli inferi presso Caronte il traghettatore e pesava su una bilancia quelle degli eroi. Una gemma incisa, databile ai primi anni del Cristianesimo, mostra San Michele con il caduceo e il petaso, classici attributi del dio greco. Spesso i santuari dedicati a San Michele sono situati sulla cima di colline o su luoghi elevati, dove in precedenza esistevano templi dedicati a Mercurio, come nel caso del santuario sul monte Gargano, uno dei più antichi dedicati all’Arcangelo, risalente al V secolo d. C. Nella religione egizia la psicostasia rappresentava il test d’ingresso al quale veniva sottoposto il defunto prima di poter accedere all’aldilà. Il defunto implorava quattordici Dèi-giudici mentre veniva condotto per mano da Anubi, Dio dell’imbalsamazione, verso una bilancia. Anubi poneva su un piatto della bilancia il cuore del defunto, mentre sull’altro giaceva una piuma: Maat, Dea della verità e della giustizia. Il Dio della saggezza, Thot, prendeva nota dell’esito della pesatura: se il cuore – che registra tutte le azioni, buone o malvagie, compiute durante la vita – bilanciava la piuma, il defunto passava la selezione per il regno dei morti; in caso contrario, il cuore finiva nella ciotola di Mermeth, colei che ingoiava il defunto e non puliva il bagno. La rappresentazione del Giudizio Universale appare nel IX secolo, ma acquisisce importanza nel XIII, dopo una lunga gavetta. Ancora nel XII secolo non era ritenuta indispensabile. Intorno all’anno Mille, in Occidente si diffuse l’uso di collocarlo sulla controfacciata della chiesa, come monito ai fedeli in uscita dall’edificio. Il Gotico classico ha consacrato al Giudizio il rosone occidentale delle chiese. Numerose rappresentazioni del Giudizio non contemplano la scena della separazione tra eletti e dannati.
Analisi iconografica
L’immagine del santo rappresenta di per sé una scena, una combinazione di significanti che, coordinati tra di loro, fanno bella figura: alcuni sono fissi, altri variano da santo a santo. Il primo passo dell’analisi iconografica consiste nel rilassarsi e definire il ruolo del personaggio da identificare: mentre a livello percettivo l’impatto con la figura ci porta a definirne il sesso e subito dopo a sbadigliare, lo studio iconologico prevede un’appassionante scansione dall’alto verso il basso che distingua, in funzione della presenza o meno di elementi quali il nimbo dorato e le ali, se si tratti di un santo e, in caso, se sia anche un angelo. Grazie alla fattura dell’abito si può distinguere l’eventuale appartenenza del santo a un ordine monastico, a un ordine cavalleresco, a un’etnia. L’abito permette di definire la pertinenza del santo a una categoria – “guerriero”, “padre della chiesa”, “penitente” e così via – e di attribuire un valore gerarchico ai ruoli di cui è investito. La decostruzione della figura da identificare necessita dell’esame delle mani. La destra, tradizionalmente riconosciuta – ceci n’est pas une blague – come “mano dell’azione”, reca un significato “attivo”. La sinistra, definita “mano del simbolo”, svolge n significato “concettuale”. A facilitare l’identificazione concorrono i contesti: quello in cui la figura è collocata nell’opera, quello per il quale è stata commessa, quello in cui è l’opera è posta. La posizione – da protagonista, da comprimario, al seguito, sullo sfondo – è definita dalla quantità di spazio occupato dalla figura, mentre la collocazione fisica dell’opera ne rivela, oltre a dettagli utili ai fini di schedatura, inventariazione e catalogazione, la rilevanza cultuale e la corrispondenza, anche relativa, ai motivi predominanti del luogo, del tempo e del buon gusto. Al fine di comprendere il messaggio veicolato dalla scena vanno interpretate e valutate anche le altre, eventuali, figure che la compongono, sia quelle che agiscono contestualmente al personaggio, sia quelle che completano il quadro narrativo con azioni indipendenti. San Michele è sempre raffigurato come un giovane dall’aspetto agile e atletico. Più in alto della testa si collocano l’aureola e le ali. L’aureola – o nimbo – è l’alone luminoso che, fino all’avvento dei futuristi, circondava la testa di figure divine o sante. Poi è diventato identificativo dei lampioni. Le antiche divinità indiane e cinesi venivano raffigurate con aureole di bassa qualità. Era un attributo di divinità solari – Mitra, Elio e Apollo – e veniva rappresentata in forma di raggi luminosi irradiati dal capo. Con umiltà venne utilizzata per l’iconografia degli imperatori romani divinizzati. La comparsa del nimbo nell’arte cristiana risale al V secolo circa. Dapprima fu riservata alle figure della Trinità e agli angeli, poi fu progressivamente concessa agli apostoli, ai santi e ad altre figure, infine smise di essere uno status symbol. Nelle regioni orientali era un simbolo di potenza più che di santità e nella più antica arte bizantina lo si trova anche applicato alla figura di Satana. Può assumere varie forme: 1) cruciforme è generalmente riservata al capo di Cristo, anche se saltuariamente la si ritrova in rappresentazioni del Padre e dello Spirito Santo; 2) triangolare allude alla Trinità ed è usata esclusivamente per Dio Padre; 3) quadrangolare si trova sul capo di contemporanei viventi sia laici che religiosi quali l’imperatore, il pontefice e in alcuni casi il Presidente del Consiglio; 4) esagonale caratterizza le Virtù Teologali e Cardinali e altre figure allegoriche; 5) circolare appartiene alla Madonna, agli angeli e ai santi. Nell’arte tardo-medioevale era un disco dorato piatto e, soprattutto nel XIII secolo, recava il nome della figura che la portava e il suo codice fiscale. Nel primo Rinascimento divenne un anello visto di scorcio. In seguito riscosse sempre meno favore, e nell’arte post-rinascimentale compare più raramente. Un alone di luce può essere irradiato non solo dal capo, ma dall’intera figura rappresentata: questa caratteristica è propria della figura divina ed è riservata a Cristo, soprattutto nella Trasfigurazione, e alla Madonna. Le ali sono attributi propri dei messaggeri degli Dèi della mitologiagreco-romana: Vittoria, Mercurio e Iris. Questi discendevano da figure alate più antiche, di età pre-classica. Dalla Vittoria romana deriva la figura cristiana dell’angelo, messaggero dell’Onnipotente, che compare la prima volta alato nei mosaici del VI secolo. Passando all’esame della figura in senso stretto si analizza la testa. Alcune figure sono identificabili dalla capigliatura – in ambito classico Sansone, Semiramide e Venere Anadiomene; in ambito cristiano Maria Maddalena e Maria Egiziaca – dagli occhi – Argo, Polifemo, santa Lucia, Dio – o dal cappello. Nell’antica Grecia, il copricapo del semplice contadino e del viaggiatore era il petaso: un berretto di forma circolare, poco profondo e dotato di tesa. Il petaso alato è un attributo di Mercurio. In varie forme il copricapo rappresenta vescovi, cardinali, sacerdoti di vari culti, maghi, re, imperatori e imbianchini. L’elmo è parte dell’equipaggiamento tipico del guerriero: è proprio di Alessandro Magno e della dea Minerva, e viene utilizzato per caratterizzare la Fede e la Fortezza. L’armatura è l’insieme degli elementi di difesa indossati dal guerriero. Nello specifico, la corazza è la parte dell’armatura con cui si proteggono torace e dorso, ed è tipica di Marte e Vulcano. Nelle opere di carattere narrativo l’arma del soldato è la spada, e usualmente rappresenta l’autorità e la giustizia di chi la impugna. È attributo involontario di tanti martiri, in quanto strumento del loro martirio. Compare nell’iconografia di San Paolo, San Giacomo Maggiore, Sant’Agnese, Santa Giustina, Sant’Eufemia, Santa Lucia, San Pietro Martire, San Tommaso Becket, San Bonifacio, Sant’Adriano, San Protasio, San Martino di Tours, San Giuliano Ospitaliere e San Michele. Sette spade trafiggono il petto della Madonna nella scena dei Sette dolori della Vergine. La spada compare anche a lato del volto di Cristo Giudice nel Giudizio Universale. Tra le figure allegoriche, sono munite di spada la Giustizia, la Costanza, la Fortezza, l’Ira, la città i Venezia, la Retorica, la musa Melpomene, la Temperanza e la Disperazione. La lancia è l’arma del soldato a cavallo o del cacciatore. Come attributo, è tipica e identificativa di Longino e Giuda Taddeo; spezzata, di San Giorgio. Reggono una lancia anche la Dea Minerva, la Fortezza, la Costanza e la figura allegorica dell’Età del Bronzo. La punta fiammeggiante di una lancia trafigge il petto di Santa Teresa e diverse lance colpiscono San Tommaso che abbraccia la Croce. Di regola, l’arma è raffigurata nel campo dell’azione: la mano destra.
Il globo, stretto da un monarca, indica la sovranità sul mondo. Fu usato la prima volta con questo significato dagli imperatori romani. In epoca cristiana, sormontato da una croce, divenne simbolo del Sacro Romano Impero e più tardi emblema dei re d’Inghilterra dopo Edoardo il Confessore. Nell’arte sacra è retto da Cristo nel ruolo di Salvator Mundi o da Dio Padre. Il globo figura in molte allegorie, dalle Virtù alle Arti Liberali, e come simbolo di universalità di alcune divinità pagane. Compare in mano alla Verità, alla Fama, all’Abbondanza, alla Giustizia. Fa da piedistallo alla Filosofia e, nella stessa posizione, ha rappresentato l’instabilità della Fortuna, in contrasto con la saldezza del piedistallo cubico della Fede. Lo stesso contrasto iconografico compare nelle rappresentazioni di Occasione e Nemesi. In ambito divino il globo è attribuito ad Apollo, Cibele e talvolta Cupido. Il globo terrestre figura in alcune nature morte, quello celeste compete a Urania, musa dell’astronomia, e alla personificazione dell’Astronomia stessa. Infine, raddoppiato, sovradimensionato e trasfigurato dal linguaggio parlato, rappresenta la noia mortale. La bilancia è il simbolo prediletto del giudizio, in quanto serve a pesare il bene e il male, il torto e la ragione. Fin dall’epoca romana, insieme alla spada è l’attributo della Giustizia personificata e, nell’arte sacra, di San Michele nel ruolo di ‘arcangelo psicopompo’. Tra le Arti Liberali, la Ragione usa la bilancia per valutare il vero e il falso. L’Occasione tiene la propria bilancia in bilico sul filo di una lama. Uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse regge talvolta una bilancia. Anche il giovane Mauro, discepolo di San Benedetto, ha tra i propri attributi una bilancia. Brenno, capo dei Galli le cui armate attaccarono Roma nel 390 a.C., è raffigurato nell’atto di gettare la propria spada su una bilancia al fine di alzare il prezzo del riscatto per la libertà della Città. In quanto difensore dei fedeli, San Michele è spesso munito di scudo. Solitamente, in arte, gli scudi recano un motivo decorativo che facilita l’identificazione delle figure che li reggono, come nel caso della Dea Minerva che porta uno scudo ornato dalla testa di Medusa, della Fortezza che ne ha uno su cui è raffigurato un leone o un toro, della personificazione allegorica dell’Età del Ferro, sul cui scudo compare un serpente dalla testa umana. Lo scudo è tra gli attributi della Retorica e della Castità, che lo usa per ripararsi dalle frecce di Cupido. Lo scudo di San Michele non prevede un disegno specifico, anche se talvolta è rappresentato munito di una grande croce, a significare il suo ruolo di protettore dei fedeli. Con San Michele sono spesso raffigurati dei demoni. Sono i messaggeri di Satana come gli angeli lo sono di Dio e conducono all’inferno le anime dei peccatori come gli angeli portano in paradiso quelle dei giusti. L’immagine del male quale creatura zoomorfa composita appartiene alle religioni egizia e persiana e ricorre spesso nelle imprecazioni. I mostri a più teste dell’Apocalisse e la figura di Satana sono frutto dell’influenza orientale e bizantina. Gli artisti medievali occidentali modificarono tale immagine facendone una figura sostanzialmente umana, ma conservandole alcuni tratti ferini: artigli al posto di mani e piedi, coda, ali e un pessimo temperamento. Nel Rinascimento gli artisti trassero ispirazione per le rappresentazioni del demonio dal satiro dell’antichità, dotato di corna e piedi caprini. Satana compare a volte travestito da monaco o da viandante, ma il piede caprino o l’artiglio che spuntano da sotto il mantello rivelano la sua identità. Meno male che non si sono ispirati a Priapo. Satana compare nella Caduta degli angeli ribelli, nella Tentazione nel deserto, nella Discesa al Limbo, nel Giudizio Universale. Diavoli compaiono nell’iconografia di Sant’Antonio Abate, San Bartolomeo, San Benedetto, San Zeno. Un demone giace ai piedi di San Geminiano e di Santa Caterina da Siena. In alcune raffigurazioni del Giudizio Universale e in quelle di San Michele uno o più demoni cercano di far pendere a proprio favore i piatti della bilancia che pesa le nime dei defunti. Nella Crocifissione portano via l’anima del ladrone impenitente. Nelle rappresentazioni del mito di Orfeo trascinano verso gli inferi l’anima di Euridice. Un demone parla all’orecchio di Giuda Iscariota, un altro spegne la candela di Santa Genoveffa. Alcuni demoni uccidono i figli di Giobbe. Simon Mago si libra in aria sostenuto da demoni. Demoni fuggono da Cristo nella Discesa al Limbo; da Sant’Ignazio di Loyola mentre predica; da una nave, nel mare in tempesta, cacciati da tre santi: San Marco, San Giorgio e San Nicola. Alternativa ai demoni, è la figura di un Drago, o serpente, o mostro. Nell’antico Oriente è una divinità benefica connessa all’elemento acquatico. Nella cultura cristiana, invece, è simbolo di Satana. Gli artisti medievali e rinascimentali rappresentano Lucifero nella fauci del Leviatano a volte dipinto come drago. Il termine latino “draco” significa sia drago sia serpente, perciò le due immagini possono considerarsi intercambiabili. Un drago incatenato o schiacciato dai piedi di un santo è simbolo della sconfitta del male. Compare così sotto i piedi della Vergine dell’Immacolata Concezione e come attributo di San Bernardo di Chiaravalle, Santa Marta, San Silvestro e Santa Margherita di Antiochia. Quest’ultima può essere rappresentata mentre esce dal ventre della bestia oppure mentre lo trascina con una cavezza. Il ‘serpente antico’ viene gettato nell’abisso da un angelo nell’Apocalisse. Nella tradizione sconfiggono e uccidono un drago: San Michele nella Guerra nel cielo dell’Apocalisse, dove il drago è in realtà Satana trasformato; San Giorgio; l’eroe greco Perseo e il cavaliere pagano Ruggiero. Il drago è un attributo di San Teodoro e due draghi trainano il carro di Cerere creando disagi alla viabilità. Il drago è anche un attributo della Vigilanza. Il serpente oltre a essere simbolo del male è utilizzato come simbolo di fertilità, della sapienza e della scienza medica. La Vergine è raffigurata nell’atto di schiacciare la testa del serpente, immagine che rappresenta la sconfitta del peccato, o, nell’arte barocca, del protestantesimo. Il serpente può comparire ai piedi della croce. Un serpente in un calice è tra gli attributi di San Giovanni Evangelista, in una pagnotta di San Benedetto. Anche l’Invidia ha una serpe come attributo. Una donna con la capigliatura formata da serpenti è Medusa. Minosse, giudice delle anime all’inferno, circonda il proprio corpo con le spire di un serpente un numero di volte corrispondente al girone infernale di destinazione del dannato. Cleopatra si porta un serpente al seno per darsi la morte. Euridice ha spesso un serpente attorcigliato alla caviglia; Cadmo, leggendario fondatore di Tebe, viene rappresentato avvinto dalle spire di un grosso serpente durante una lotta furiosa. Laocoonte e i suoi due figli vengono uccisi da due serpenti marini, Ercole neonato uccide a mani nude due serpenti, adulto uccide l’idra di Lerna a volte raffigurata in sembianza di drago. Apollo uccide un pitone con le sue frecce. San Paolo apostolo viene a volte rappresentato nell’atto di scagliare un serpente tra le fiamme.
Conclusioni
L’iconografia tradizionale di San Michele deve essersi perfezionata nel corso del medioevo, quando l’Umbria era divisa tra il territorio conosciuto come ‘corridoio bizantino’ e quello di pertinenza del Ducato di Spoleto. Sappiamo che nell’arte bizantina assumevano valore la ieraticità dei personaggi rappresentati e il loro isolamento dal contesto e dalle figure vicine, ottenuto raffigurando i soggetti distanti l’uno dall’altro o marcando il disegno di contorno in modo da evidenziare distacco. Dell’arte longobarda, invece, conosciamo la tendenza all’horror vacui e il conseguente eccesso decorativo. Riassumendo e semplificando – fin quasi all’eccesso – possiamo dire che l’arte bizantina ritrae prevalentemente figure ‘immobili’ mentre quella longobarda le immortala “in movimento”. Basando lo studio su campioni estratti da un arco temporale che va dal XIII al XVII secolo è probabile che la sopravvivenza di questi caratteri non sia dovuta alla diretta discendenza dall’uno o l’altro tipo, bensì spesso a caratteri aleatori e variabili quali ad esempio la bravura o la formazione culturale dell’artista. Tuttavia, due artisti tra loro contemporanei quali Niccolò Alunno, operante maggiormente in area spoletino-folignate, e Pietro Vannucci, che si muoveva invece nei territori che, un tempo, facevano parte del dominio bizantino, dipingono San Michele in modi che sembrano riflettere questa considerazione. Gli arcangeli Michele di Niccolò Alunno sono tesi, calpestano il demonio quasi saltandoci o danzandoci sopra, quelli di Pietro Vannucci invece sono sempre immobili, saldamente ancorati al terreno. In questo caso si tratta di due grandi maestri e penso sia possibile affermare che la differenza nell’impostazione delle immagini non sia frutto di un vezzo della personalità artistica dei due, ma riconducibile a veri e propri ‘tipi’ iconografici sviluppatisi in origine in modo diverso nelle due zone della regione e poi diventati oggetto di uno scambio culturale, che li ha resi intercambiabili e talvolta li ha fusi insieme. Tale considerazione è in larga parte confermata dalle minature di dedicazione che adornano le matricole di Perugia. In tutti i casi in cui Porta Sant’Angelo è rappresentata da San Michele, egli appare raffigurato a gambe larghe, ben piantato in terra, immobile e vittorioso, teso a riempire lo spazio pittorico. Si è parlato di attributi “caratterizzanti” l’immagine. La figura che leggiamo “San Michele” è composta da più significanti che, come parole e congiunzioni nel linguaggio parlato, concorrono a costruire una frase. Questa può diventare essa stessa un significante, e veicolare così un significato diverso dalla somma dei significanti che la costituiscono. Per fare un esempio, prendiamo Gesù Cristo: ovunque sia rappresentato, è chiaramente identificabile. Eppure non ha sempre lo stesso significato: le scene di Natività svolgono un significato diverso da quelle di Passione, Crocifissione, Resurrezione, e così via. Cristo è, per queste scene, un rafforzativo, un simbolo che ne amplia e magnifica il ignificato. Lo stesso accade per altre figure maggiori del mondo cristiano, compreso l’arcangelo Michele. Il problema è identificare il ruolo che di volta in volta il santo interpreta. L’impostazione formale sembra non fare più alcuna differenza ai fini del significato, altrimenti la distanza iconografica tra le varie rappresentazioni sarebbe maggiore. Ciò che invece caratterizza e definisce il significato dell’immagine sono le combinazioni di attributi. Posto che aureola e ali siano presenti in tutte le raffigurazioni, possiamo dire che sono caratterizzanti in senso generico dell’immagine di San Michele e non influiscono sul ruolo che interpreta.
Essendo riuscito a non dimostrare nulla, passo e chiudo.
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Antonio Senatore è scrittore e critico d’arte. Ha collaborato con riviste e istituzioni museali sia in Italia che all’estero. Attualmente opera nel circuito dei musei civici di Perugia e insegna Storia del design presso il NID – Nuovo Istituto di Design.