La figura di Giuseppe Terragni (Meda, 1904 – Como, 1943), centrale per comprendere le vicende dell’architettura del Novecento, stimola ancora molti interrogativi.
A prima vista essa sembra infatti quasi prigioniera della sua importante e frastagliata fortuna critica, nella quale si sono alternati e sovrapposti punti di vista molto diversi. Oggi, a più lunga distanza di tempo, grazie alla meritoria opera svolta negli ultimi anni dall’ Archivio Giuseppe Terragni, che ha permesso di acquisire nuovi materiali e studi, si può forse ritenere che quella diversificata vicenda critica[1] sia anche un ulteriore segno di vitalità della sua opera. Quest’ultima infatti, come spesso accade per i grandi protagonisti, contiene in sé una tale complessità e stratificazione di significati da essere passibile di interpretazioni legittimamente differenti e a volte quasi opposte. Né va trascurato che, anche in relazione alle vicende personali e ai tempi che gli toccò di vivere, il suo operato è stato, a seconda delle generazioni che vi si sono confrontate, anche una cartina di tornasole per risolvere (o rimuovere) problemi insoluti della cultura nazionale all’interno del dibattito internazionale.
Alcuni nodi sembrano tuttavia comunque imprescindibili per tentarne una lettura – che qui si proporrà a grandi linee.
L’ADESIONE MODERNA
Per un verso una adesione convinta alla modernità.
Emblematica al riguardo l’inventiva, la libertà e la ricchezza compositiva del suo uso dei materiali: si pensi al vetro, al vetrocemento e al linoleum.
“(…) dall’avvento del cemento armato e delle strutture in ferro” derivano nuove possibilità. “le finestre possono finalmente seguire la forma degli ambienti e tendere all’orizzontalità. (…) l’apertura di vetro integrale diventa conseguenza logica dello sfruttamento delle possibilità di leggerezza e di non lavoro delle pareti.
Gli architetti moderni si impadroniscono di questo concetto e da Lloyd Wright a Sant’Elia, a Le Corbusier è come una gara a spalancare finestre vere sulle pareti che diventano subito nella metafora sorgenti di luce nuova, di nuova morale costruttiva e civile, porte alla natura affinchè riprenda traverso il filtro della tecnica il suo posto preminente nella vita dell’uomo che se ne era erroneamente allontanato”[2].
“Sono i primi passi verso la casa di vetro. Noi adoriamo il vetro. (…) Il vetro rivela ciò che è, non può nascondere, è sinonimo della chiarità, è l’unico materiale fratello della luce, dell’aria, dello spazio.
E’ per questo che vogliamo costruire la città di vetro. (…) Dare luce, godere luce. Non respingere questo dono perfetto della natura.
(…) Tuttavia, illusioni da parte, il nostro programma paradossale di costruire le città di vetro contiene e divulga un principio ormai entrato nella mente dell’opinione pubblica: far entrare più luce nella casa. (…)
Le due grandi rivoluzioni dell’architettura: vetro e acciaio. Due materiali che non hanno bisogno di retorica; e nemmeno di antiretorica. (…)
Il vetro che entusiasma i medici che lo vogliono nella costruzione dei loro sanatori, tonificatore di corpi e di menti, il vetro reclamato dal maestro di scuola, dall’operaio, dal contadino. Il vetro invocato.”[3]. Così scriveva Terragni nel 1936 nella rivista «Quadrante», che aveva contribuito a fondare. Tali affermazioni erano inserite nelle sue Tavole polemiche, schede teorico-critiche incentrate su singoli argomenti. All’uso del vetro infatti riserva in quegli anni molte riflessioni, alcune della quali appunto ripubblicate nell’Atlante Terragni, di Attilio Terragni, Daniel Libeskind e Paolo Rosselli[4]. Appare evidente la molteplicità di motivi che accompagnavano la scelta del vetro: estetici ed etici, tecnici e igienici, metaforici e sociali, in una complessità di considerazioni e consapevolezze, propria del ruolo dell’architetto[5].
Nella seconda metà dei Venti istanze di modernità provenivano al giovane comasco, che si era laureato a Milano nel 1926, da plurime fonti – mentre certamente le sentiva come esigenza prettamente personale. Anche elementi del dibattito politico, nei suoi ambienti culturalmente più sensibili, proponevano istanze volte a rendere linguisticamente una società che si voleva ossessivamente nuova, giovane e moderna, e a presentarne una consimile immagine, per ragioni di autorappresentazione del potere e propaganda, sia all’interno che all’estero. Si pensi ad esempio a Novecento e al lavoro svolto da Margherita Sarfatti. Quest’ultima affiderà proprio a Terragni l’omaggio più doloroso e sentito – il monumento funebre per il figlio, caduto in guerra giovanissimo – e in seguito gli assicurerà il suo sostegno anche nelle vicende, politicamente pericolose, relative alla Casa del fascio[6]. Inoltre si andava implementando un’azione, volta, con molte contraddizioni, a migliorare le condizioni abitative – ad esempio con la costruzione di case popolari – e l’edilizia scolastica.
Frattanto proseguiva, con varie vicissitudini, lo stesso dettato futurista. Al proposito si dovrà ricordare l’annosa querelle relativa ai rapporti tra l’architettura futurista di Sant’Elia e l’architettura di Terragni, così come l’accordo raggiunto in occasione della realizzazione del Monumento ai Caduti di Como, allorquando intervenne lo stesso Filippo Tommaso Marinetti[7]. Sebbene alcuni presupposti iniziali possano essere stati comuni, la sensibilità di Terragni era per molti versi lontana da quella di Sant’Elia e il suo talento troppo originale per un confronto più proficuo con quell’antecedente tanto prossimo. In generale quella di Sant’Elia rimase una prefigurazione disattesa e insoluta. Gli architetti moderni italiani percorsero un’altra via e bypassarono gli interrogativi da lui sollevati, costituendo in polarità elementi che avrebbero potuto essere in dialogo.
L’immagine della società italiana (e del regime fascista) doveva essere adeguatamente moderna, comunicando una sostanziale discontinuità con i decenni precedenti. A quell’altezza cronologica, il linguaggio umbertino forse sembrava quanto di più passatista potesse esserci, mentre erano peraltro rapidamente invecchiati, travolti in parte anche dalla prima guerra mondiale, certi stilemi desunti dall’Art Nouveau. E’ piuttosto dunque un linguaggio del tutto nuovo – quello del Movimento Moderno e in particolare del Razionalismo – a esprimere in modo incisivo esigenze rappresentative e funzionali ugualmente nuove.
Terragni si confronta con questo sorgente linguaggio sin dalle prime prove.
UN ARTICOLATO PROBLEMA NAZIONALE/1
Va segnalato che si trattava di un linguaggio precipuamente internazionale – significativo che fosse portato avanti in contesti nazionali diversi; che talvolta fosse proposto nelle grandi esposizioni internazionali; che i suoi autori si riunissero in organismi volutamente internazionali (quali ad esempio il CIAM).
Si porrà quindi implicitamente un problema nazionale. Nodo imprescindibile ma scivoloso ed equivoco. Per un verso, le realizzazioni chiare ed esemplari nel nuovo linguaggio consentivano all’architettura italiana di inserire la sua voce in questo innovativo e propositivo concerto, per altro verso Terragni ne fornisce una interpretazione profondamente legata a istanze territoriali ma sempre proficuamente lontana sia da qualsiasi tentazione vernacolare sia da espliciti canoni presunti nazionali, che a lungo andare avrebbero potuto rivelare corto respiro. Anzi, del problema nazionale in qualche misura Terragni fu anche vittima, in vita e in morte.
L’ANTIRETORICO RAPPORTO CON L’ANTICO
Intrinseca alla vocazione moderna appare una riflessione sottesa e fondante sulla tradizione.
Ci soccorrerà, ancora, la poetica dei materiali: si pensi al marmo.
“3016 metri quadrati di lastre di vari spessori (da 6 cm a 2) si adagiano sulle murature perimetrali rivestendo di uno spessore di marmo tutte le parti in vista del fabbricato. Questo rivestimento non va inteso come un fatto decorativistico, ma come una necessità pratica, e come un “problema risolto”. L’Italia, ricchissima di pietre naturali (calcari, saccaroidi, gneis, graniti, brecce ecc.) è nella fortunata situazione di poter fornire ai suoi architetti moderni la soluzione conveniente (se confrontata con il costo di certi rivestimenti in graniglia, praticati all’estero) del problema delle grandi, nude pareti che la rigorosa esegesi della moderna architettura pretende nelle nostre costruzioni.”[8]. Parole vergate dall’architetto a proposito della Casa del fascio, nella quale il marmo è adottato come materiale di rivestimento esterno (“senza nessun aggetto” scrive l’autore, che ne nota anche la straordinaria capacità di resistenza agli agenti atmosferici) e anche interno, sia per fini pratici, ove è previsto maggiore uso, sia a fini estetici, come dimostra l’accorto e parco uso interno del colore.
Niente nazionalismo in ogni caso: la realizzazione architettonica lo dimostra ampiamente e, se ancora non bastasse, lo dimostrano le polemiche che gli rivolsero l’accusa di esterofilia. Piuttosto, evidenti risultano l’attenzione e l’amore al paesaggio, naturale e antropico, unendo inscindibilmente, come l’architettura ci insegna, il piano pratico e le scelte teoriche.
Utile un confronto con l’uso di questo materiale nella tradizione, già classica, e poi, ad esempio, rinascimentale. Ponendo mente all’uso che ne fa Terragni, nella Casa del fascio di Como e successivamente, si vedrà la reinvenzione del materiale che l’architetto opera, in una complessiva modernità che stride del tutto con l’uso certamente enfatico e citazionista dell’E42, del resto posteriore di alcuni anni. Frattanto era peraltro intervenuto un irrigidimento delle posizioni ufficiali divenute tradizionaliste e retoriche – bypassando il problema di un rapporto invece autentico e proficuo con la tradizione, sollevato dal Nostro – e frattanto era intervenuto, non a caso, un notevole contrasto tra l’architetto e gli ambienti più ufficiali e governativi.
L’uso del marmo, materiale nobile e allusivo, potrebbe anche essere una chiave di lettura per il suo intero rapporto con la tradizione e in particolare con l’antico.
Elementi di grande spicco per una lettura, a monte ed a valle, della Casa del fascio ed anche per la comprensione delle polemiche divampate dopo la sua realizzazione.
Sin dai Venti il regime fascista propose un uso strumentale del passato romano, operando un abuso politico e totalitario dei resti archeologici presenti nel territorio nazionale e inserendo nel proprio programma simbolico numerosi elementi, tratti in particolare dall’eredità imperiale, arbitrariamente chiamata ad assumere in sé l’intera classicità. Travalicando gli effettivi dati storici, ne sorse un’antichità in gran parte forzata, che fece parte di numerose imprese architettoniche e decorative di destinazione pubblica. In questi complessi i simboli del regime apparivano intrecciati a quelli dell’antichità, ricavandone una legittimazione antistorica e sovratemporale e nello stesso tempo suggerendo l’impressione di una sostanziale continuità. Il sistematico uso delle vestigia antiche ai fini del consolidamento simbolico del proprio potere e alla ricerca di una legittimazione falsamente storica del proprio dominio, interno e coloniale, era dunque volto a fini nazionalistici. Urbanistica, architettura, arte, oratoria politica, strumenti di inculturazione di massa convergono nella percezione e creazione di un mito romano e imperiale. Già nella seconda metà dei Venti tale processo è chiaramente avviato, sebbene contrastato dalle riflessioni e dal metodo di personaggi quali Lionello Venturi e Ranuccio Bianchi Bandinelli[9]. Tuttavia, furono soprattutto gli sviluppi politici e culturali dei Trenta a sistematizzarlo. In quegli anni vengono dunque avviate alcune grandi campagne nelle quali si adottano programmi iconografici che alludono, in funzione simbolica, al passato glorioso di Roma e comprendono l’iconografia politica e simbolica del regime[10]. Tra le grandi imprese decorative dei Trenta si potrà citare per inciso, stante la nostra pertinenza territoriale, l’affresco dottoriano La luce dell’antica madre dell’Università per Stranieri di Perugia del 1937[11].
A fronte di questo rapporto con l’antico, Terragni ne assume un elemento emblematico, il marmo, e lo trasforma in un materiale moderno; anzi contemporaneo. Sintomatica la scelta nella fronte sulla piazza della Casa del fascio: il marmo, “senza aggetto”, diventa una superficie neutra fino allo status di puro schermo. Scelta folgorante, che qualifica come sfondo l’antico materiale denso di simboli – e forse anche ironico rovesciamento delle istanze che strumentalizzavano l’antico. Ben lungi dal divenire monumento di se stesso, feticcio di una pseudoantichità che si propone all’adorazione, il marmo diviene talmente disponibile a nuove interpretazioni da poter essere risemantizzato addirittura come parete – erano previste le opere di Nizzoli – o come telone da proiezione. La superficie pura, proposta dalla “rigorosa esegesi” moderna, presenta caratteristiche nuove, utili per usi impensati. Si erode così dall’interno il retorico rapporto con l’antico – imperiale e nazionalistico – e si prospetta invece un rapporto di libertà ed eversione, a partire dalla stessa sostanza storica di koinè sovranazionale che l’antico evidentemente aveva. Le parole supra citate, dello stesso architetto, sagacemente riconducono l’uso moderno del marmo per un verso a una tradizione costruttiva nazionale (di contro a scelte puramente imitative), per altro verso alla pronta ed economica reperibilità dei materiali, in vasta scelta, per altro ancora alle caratteristiche costruttive e funzionali, evitando di cadere nella trappola di un sovraccarico ideologico e anche di alludere, ad esempio, al mito mediterraneo che pure era caro allo stesso Le Corbusier – si veda quanto su Le Corbusier, ma in proposito di Terragni, scriverà Zevi molti anni dopo[12].
LE POLEMICHE SULLA CASA DEL FASCIO E IL COMPLICATO POSIZIONAMENTO DI TERRAGNI
Che questi fossero “argomenti sensibili” lo dimostrano gli stessi prodromi della polemica sulla Casa del fascio, di cui abbiamo un intenso “dietro le quinte” nel relativo carteggio tra Alberto Sartoris e l’architetto[13]. Un primo fuoco alle polveri potrebbe essere stato un intervento di Ugo Ojetti che lodava[14] il Padiglione italiano all’Esposizione Universale di Parigi del 1937, firmato da Marcello Piacentini, esponente massimo dell’architettura ufficiale, con Pagano e Valle. Il confronto con il Settizonio di Settimio Severo, operato da Ojetti, vuole infatti essere elogiativo. Nasce, poco dopo, la campagna polemica ma soprattutto diffamatoria contro Terragni, accusato addirittura (anonimamente) di plagio dalla Casa di ricovero per anziani di Otto Haesler a Kassel, del 1932, e dalla scuola della massaia “Vesna” a Brno, di Bohuslav Fuchs, del 1930; architetture una tedesca e l’altra “bolscevica”, che traslavano l’accusa di scarsa originalità in quella di mancato nazionalismo. Pronta e adeguata la controffensiva, poi rivelatasi vincente, sferrata da Terragni e Sartoris, a cominciare dall’articolo di Pier Maria Bardi Le fonti della fantasia[15], che citava la Casa del fascio come ulteriore ispirazione del Padiglione parigino. Significativo osservare che il legame con l’Esposizione sarà nuovamente in gioco con le rimostranze di Piacentini, riportate verbalmente da Bontempelli a Terragni[16], ma volte ad accusare Sartoris, reo, a suo dire, di un tentativo di boicottaggio del Padiglione italiano. Il rapporto con l’antico (miscelato al Razionalismo) di Piacentini si dipanò secondo vari momenti e modalità[17]; tuttavia, se nella realizzazione dei Padiglioni italiani era già lunga prassi alludere a glorie architettoniche del passato nazionale – prassi che si poteva comunque infrangere – e la scelta di Piacentini, Pagano e Valle si poneva dunque nel solco di una tradizione che risaliva alla presenza italiana nell’Esposizione Universale di Parigi del 1867[18], quella specifica antichità, nella cui chiave si sceglieva di interpretare il Padiglione, era un chiaro messaggio. Proprio la sottigliezza – dirimente – delle differenze diventava un’allusione bruciante.
UN PROBLEMA (INTER)NAZIONALE/2. RIPENSARE IL RAZIONALISMO
La chiarezza esemplare, la bellezza moderna, la complessità e funzionalità della Casa del fascio, che pure aveva usato anche materiali tradizionali – che in fondo era fatta di candido marmo – colpì fortemente, motivando un attacco quasi senza precedenti per virulenza e organizzazione. Un edificio che della magniloquenza della facciata faceva almeno in parte uno schermo, che discuteva la gerarchica preminenza della facciata principale, costruendo quattro facciate – una verità quadridimensionale, si potrebbe dire oggi – metteva evidentemente in discussione sia il Settizonio sia i Colossei – e citeremo nuovamente l’affresco perugino di Dottori – sia i (venturi) colossei quadrati. Rifiutando peraltro una performatività scenografica o un diretto rapporto vernacolare – temi pure insiti nello stesso luogo, con cui perferisce instaurare un libero dialogo – e bypassando deliberatamente forme di modularità o articolazioni gerarchiche delle fronti, quella straordinaria architettura polverizzava molte costruzioni scritte nello stesso linguaggio in Italia e si allontanava decisamente anche dai prototipi internazionali, quali lo stesso Le Corbusier, di cui si revocavano in discussione sia la modularità sia le tentazioni puriste tendenzialmente classiciste mentre veniva meno il diktat della struttura chiaramente leggibile in facciata o comunque dall’esterno. Sin dall’epoca, alcuni distinguo apparivano evidenti e talvolta proprio le critiche, spesso disoneste, come quelle appena citate, finivano per chiarire, con la loro rabbia e pretestuosità, alcune cose fondamentali; tuttavia, oggi appare più indiscutibile l’articolazione interna di un continente vasto quanto lo fu il linguaggio architettonico moderno.
In quegli anni forse l’essere o non essere era principalmente l’adesione al Movimento Moderno ma in seguito sono intercorse riletture d’autore che hanno proposto ipotesi interpretative spesso illuminanti. Tra queste merita di essere citata quella di Bruno Zevi che, nel 1980, dedica una breve e intensa monografia all’architetto comasco[19]. Apprezzabilmente Zevi rilegge Terragni in termini di ispirazione e cospirazione manierista e in particolare michelangiolesca. A partire dagli interessi di Terragni negli anni di studio e da numerosi schizzi ritrovati nelle sue carte, lo storico dell’architettura, che nel 1964 aveva curato a Palazzo delle Esposizioni un’importante mostra su Michelangelo architetto, traccia un parallelo tra la tormentata sensibilità religiosa di Michelangelo e il rapporto di adesione e dissidio di Terragni nei confronti del suo tempo. (Pochi anni prima Achille Bonito Oliva, sia pure in altra direzione, aveva riassunto negli artisti del Manierismo la figura dell’artista in genere[20]). Ad ogni modo, rileggere Terragni in chiave di rapporto con la tradizione, ma con un tipo particolare di tradizione, ha avuto il grande merito di sbrigliarlo dal legame, sostanzialmente presente ma fuorviante se considerato preminente, con il Razionalismo coevo. Zevi dunque si assume il compito di mettere in luce le sue profonde connessioni con la tradizione dell’architettura cinquecentesca e con Michelangelo in particolare. Si tratta di un’altra accezione del rapporto con Roma, rispetto a quella sempre più fortemente proposta dal regime. La sensibilità dell’architetto nei secondi Venti e nei pieni Trenta si volge invece a un confronto acuto e sotteso con la tradizione, confronto tutt’altro che imitativo o monumentalizzante ma teso a recuperare e a studiare elementi concreti di grammatica architettonica come, complessivamente, uno spirito e una misura ancora utili per risolvere i problemi del costruire e dell’abitare – e i destini umani. All’interno del rapporto con la tradizione e accanto allo studio dell’antico (in chiave egizia, greca, romana, citando i suoi scritti) sistematica è l’attenzione per l’architettura rinascimentale, di cui, già difendendo il progetto per la risistemazione dell’Albergo Metropole Suisse a Como, un Terragni ancora giovanissimo cita molti esempi[21]. All’altezza cronologica del 1980, Zevi, proponendo un Terragni michelangiolesco e postmanierista, coglieva forse alcuni elementi di fondo del suo operare. Ad ogni modo, certamente, se quell’operazione serviva per certi versi a sganciare il suo percorso, non in senso antistorico da concrete vicende e occasioni, certamente condivise e da lui sentite, ma da un orizzonte storico, che lo sostiene e motiva senza per questo esaurirlo, per altri versi, liberandolo dal legame immediato con la sua epoca, sgombrò il campo da un equivoco, ricollocandolo correttamente nel solco della grande tradizione e lasciandolo libero per possibili nuove letture. L’interpretazione, contesta anche di filosofia e letteratura, di Manfredo Tafuri, di pochissimi anni prima[22], pur essendo sostanzialmente diversa, operava un tentativo in fondo convergente. Si vide così chiaramente che i legami con il Razionalismo, certo presenti e anche dettati dalle stesse nuove possibilità tecniche, non erano però dirimenti. Si vide ancor più di prima che, all’interno del continente del Movimento Moderno, c’erano personalità molto differenti e che i rapporti con il passato potevano utilmente essere addotti a chiarire tali differenze. Anche su quella base possiamo oggi sentirci liberi di definire Terragni un razionalista eterodosso o anche di discuterne in modo deciso l’appartenenza a quel filone. Mies o Gropius ci sembrano sostanzialmente lontani dalle sue soluzioni[23] – diverso a mio avviso, in parte, il discorso per Le Corbusier[24], comunque pure distante. Il senso possente delle masse, le linee curve e le torsioni degli spazi interni, che richiamano la composizione michelangiolesca e certe movenze romane, sono in effetti importanti in opere che vanno dal Novocomum in poi. Certamente, le operazioni, opposte ma convergenti, di Tafuri e di Zevi ci hanno consentito di slatentizzare altre possibili letture e di “derazionalistizzare” o almeno ripensare l’appartenenza razionalista della sua architettura (Tafuri parlò di identità sospesa[25]), costituendo una piattaforma, sulla quale innestare nuove lezioni. Zevi, appunto, fa notare, anche grazie ad una analisi filologica delle vicende redazionali dei progetti e dei quaderni di schizzi, il fondante rapporto con la tradizione. Quel rapporto con l’Umanesimo-Rinascimento si può oggi rileggere – non nello specifico ma metodologicamente – con le importanti indicazioni dell’intenso saggio La mente inquieta di Massimo Cacciari[26], dedicato proprio a Manfredo Tafuri, e che a suo modo può essere letto come una operazione di pedagogia nazionale.
ALCUNI PROGETTI E OPERE
Nell’arco troppo breve della sua esistenza Terragni dedicò quasi tutte le sue energie all’architettura. Di lui ci rimangono circa ottanta progetti, spesso portati avanti in sincronia. I primi noti sono il cosiddetto Progetto per casa Saibene del 1925-26 e quello per il concorso di primo e secondo grado per il Monumento ai Caduti di Como (con Pietro Lingeri e gli scultori G. Mozzanica e G. B. Tedeschi) del 1925-26, l’ultimo il Progetto per una cattedrale del 1943. Tra le molte opere, tutte di enorme rilievo, ne analizzeremo, per brevità, solo alcune, distribuite cronologicamente nel suo percorso.
NOVOCOMUM DI COMO
Il primo progetto realizzato, dopo la ristrutturazione dell’Albergo Metropole Suisse, fu il Novocomum, a Como, nel 1927-29. Aggirando le maglie delle Commissioni per l’edilizia, piuttosto conservatrici, l’architetto modificò radicalmente il progetto già approvato e realizzò un edificio di grande originalità e inventiva. Esposto nelle mostre di architettura razionale, sin da quella del 1928, fu considerato, insieme a Casa Gualino di Pagano, la prima opera razionalista italiana. Echi lecorbuseriani si potevano cogliere in questa casa per appartamenti che fu subito ribattezzata Transatlantico. Di grandi dimensioni, ha una lunghissima fronte di oltre 60 metri. La forma risulta mossa sia per l’invenzione bellissima delle torri cilindriche in vetro, che di fatto sostituiscono gli angoli, sia per la potenza espressiva del colore, che gioca da protagonista. Da lontano si sente un’influenza mendelsohniana ed espressionista – forse corretta alla luce di un maggior peso delle masse volumetriche – mentre discusso appare un rapporto con il Costruttivismo. Zevi, che interpreta in questa chiave il Novocomum, scrive: (l’architetto privilegia) “gli angoli scavati, ove s’annidano cilindri vitrei che, addentati al secondo piano, lasciano il quinto sospeso nel vuoto. S’intrecciano così etimi dell’espressionismo tedesco e del costruttivismo sovietico. In questa stagione di creatività irruente, Terragni non si accontenta dei metodi razionalisti di Le Corbusier, Gropius, Mies e Oud. Lacera le stereometrie pure, mordendone gli spigoli, cioè i nodi in cui la facciata si muove per conquistare, tramite un non-finito, la profondità volumetrica.”. In una direzione non distante il Novocomum era stato, già all’epoca, accostato (problematicamente) anche a un’opera di Golosov. Pagano, citato anche da Ciucci[27], esaltava invece giustamente nel 1930 l’uso compositivo del colore. Il solo Persico[28], discostandosi anche in questo caso dalla vulgata intepretativa, assegnava invece all’edificio un forte dialogo con la temperie di Novecento, in cui l’architetto, anche pittore, esponeva.
LA CASA DEL FASCIO DI COMO
“Pietra miliare dell’architettura moderna europea. Quest’opera dipana la fragranza creativa di Terragni (…) Prisma perfetto, pianta quadrata con lato di m 33,20 ed altezza di m 16,60. (…) Impianto rigido in partenza, tale da sollecitare un travaglio accanito per bruciarne le virtualità classiciste. Quadrato e prisma sono infatti canoni del purismo corbuseriano, ma qui esso viene contestato, poiché il volume non è sospeso sui pilotis e le facciate non sono libere rispetto all’intelaiatura strutturale, anzi vi si coinvolgono per estrarne una stratificata profondità. Il risucchio dell’atrio e lo sfondamento sul cielo garantiscono la trasparenza del blocco.” scrive Zevi[29].
Se infatti il Novocomum aveva segnato l’autorevole ingresso del giovanissimo autore (ventitreenne) nel consesso architettonico moderno, la Casa del Fascio, del 1932-1936, segna uno sviluppo in parte imprevedibile. Le suggestioni lecorbuseriane sono certo presenti ma appunto riviste per contrario.
Più che altrove viene inoltre revocata in discussione l’equivalenza tra Razionalismo e funzionalismo. Un equivoco sfatato definitivamente in sede storiografica da Giulio Carlo Argan, nel convegno dedicato nel 1968 a L’eredità di Giuseppe Terragni, organizzato da Zevi. Argan sottolinea, in quell’occasione “…l‘importanza che ha, nell’opera di Terragni, la ricerca sull’unità formale indivisibile afunzionale: casi tipici la tomba e il monumento. E’ una ricerca pura, quasi di laboratorio, sul raffronto diretto, a parità di valore, dell’antico e del moderno, senza l’identificazione corrente ed arbitraria dell’antico col bello e del moderno con l’utile.”[30]. Gli studi sull’architettura razionalista costituivano a ben guardare un capitolo, o meglio una fase, dell’operazione di pedagogia nazionale arganiana[31], intrecciata all’adesione alla storia, sub specie di storia dell’arte, e poi alla redazione (ulteriore) del celeberrimo manuale e all’insegnamento universitario. Argan scrive, significativamente, alla fine di un periodo nodale per lui e per i destini delle arti, non solo nazionali[32], all’indomani, peraltro, del tramonto della sua ipotesi dell’artista designer, quale progettista integrale del reale, in grado di sostituire il precedente e declinante statuto dell’artista[33]. Va detto che in modo meno metaforico, e nell’ambito dell’architettura, tale figura era stata in qualche modo preconizzata in Italia dallo stesso Terragni, che in effetti progettava sia gli edifici, in tutti i particolari e integrandosi con la ricerca artistica, sia gli arredi. Si aggiunga che Argan, della genealogia venturiana, aveva avuto una precoce carriera e aveva frequentato ambienti prossimi allo stesso protagonista, cogliendo lo scontro maturato tra Pagano e Terragni “dall’interno” di «Casabella», come ricorda Giorgio Ciucci[34]. Riprendendo alcuni elementi dell’interpretazione arganiana, quest’ultimo sgombra il campo da etichettature soverchianti, riconducendo l’architettura di Terragni a forme ricorrenti: “cilindri e volumi angolari aggettanti tondi e squadrati per segnare il rapporto dinamico tra nuova architettura e rinnovata immagine (non ancora struttura) urbana; (…) Dunque, un Terragni (…) alla ricerca, giusto Argan, di una funzionalità della forma dal valore simbolico. Una ricerca che si spinge fino all’impalpabile immagine della trasparenza e luminosità esaltate nel negozio Vitrum o nella Casa del fascio di Como o nell’Asilo Sant’Elia”. E, riguardo alla Casa del fascio, sottolinea i : “contenuti simbolici… manifestati con illuminante chiarezza e in forme semplificate al massimo. (…) Nella Casa del fascio, risolta architettonicamente in un compatto e armonico volume si può cogliere l’idea del movimento rotatorio (…) qui esso è racchiuso nella sequenza delle quattro facciate, legate l’una all’altra da un consequenziale eppur mutevole riproporsi della maglia strutturale di travi e pilastri, articolate in superfici piene e vuoti che le espandono in griglia tridimensionale. Il legame tra le quattro fronti lo si percepisce ruotando attorno all’edificio, giungendo così a leggere in sequenza lineare le diverse soluzioni formali: agli angoli, il gioco di pieni e di vuoti non solo definisce il passaggio da una fronte all’altra ma al tempo stesso dà a ogni fronte autonomia rispetto al volume (…) all’interno si coglie nella copertura del grande salone centrale a doppia altezza una “quinta facciata” attraversata per tutta la lunghezza da una finestra a nastro orizzontale dalla quale si vede il cielo.”.
Il visitatore ma anche il semplice passante, nonostante la forma estremamente armonica (di cui abbiamo viste, con Zevi, le ragioni), sono percettivamente e sottilmente invitati a tener desti sensi e attenzione. Girandovi intorno o passandovi vicino, a maggior ragione osservando l’edificio ed entrandovi, un senso di imprevedibilità e sorpresa, mai fine a se stesso, istiga il senso critico. La verità quadridimensionale delle fronti della Casa del fascio svela non solo la modernità di questo testo esemplare ma anche una bruciante contemporaneità.
Nella direzione metodologica di un’architettura come testo, Peter Eisenman, in vari interventi[35], ha scritto pagine decisive, ponendosi poi esplicitamente come erede e interprete dell’architetto, nella sua ricerca architettonica veritativa – che pone sul tappeto ancora una volta il grande problema dell’arte come produttrice di verità – e con realizzazioni[36] in cui sviluppa il senso di rotazione che nella Casa del fascio e nella Casa Giuliani-Frigerio emergono con evidenza, tuttavia mai troppo palese.
Notevolissimo anche l’interno, in cui si sviluppa ancora di più il tema della trasparenza e del vetro, una delle cifre della poetica dell’architetto, da cui non a caso siamo partiti. Una lettura accurata delle superfici interne, quasi integralmente vetrate o ricoperte di vetri, è stata condotta, anche con una splendida analisi filologica, da Attilio Terragni, che ripubblica le fotografie, probabilmente scattate da Ico Parisi, con lo stesso architetto, per il numero monografico di «Quadrante» che doveva documentare la Casa del fascio. Ne emerge un gioco di rifrazioni e riflessi, calcolatissimo e spettacolare, suscettibile di molte letture. Se in prima battuta non può non venire in mente un’allusione, se non al Barocco certo al Manierismo, d’altra parte la scomposizione e le riflessioni dell’immagine con la sua moltiplicazione potrebbero portare a riconnettere questo momento della sua opera anche a presupposti visti nell’allestimento della Sala O – e dunque a meditare i suoi rapporti con il Futurismo, non per via architettonica e santeliana ma piuttosto con l’arte e la pittura futurista della prima e seconda generazione, e forse anche con alcune movenze del fotomontaggio coevo tedesco. Non va nemmeno taciuta una suggestione quasi cinematografica, da immagine in movimento, ben messa in luce da Attilio Terragni nel testo citato dell’Atlante: allo sdoppiamento illusorio delle proporzioni si aggiunge una simultaneità visiva che allude a “un diverso durare dell’architettura”.
L’ASILO SANT’ELIA DI COMO
Grazie a una capillare, precoce e sostanzialmente favorevole ricezione l’Asilo, del 1936-37, fu all’epoca molto ben accolto. La luminosità degli spazi, le ampie superfici vetrate, che illuminano le esistenze quotidiane dei bambini, convivono qui con una articolazione spaziale complessa, di sviluppo sostanzialmente orizzontale. “Il blocco viene frantumato in una integrazione esterno-interno, che è la generatrice insieme funzionale e poetica della composizione” scrive Argan. Nella sua relazione l’architetto così descrive la sua opera: “La costruzione è ad un solo piano non molto sopraelevata sul terreno per ridurre al minimo le scale d’accesso”(…)“L’atrio, ampio e luminoso, fa parte di un più grande spazio coperto che è il ricreatorio. (…) Il concetto esposto precedentemente che l’Asilo sia considerato come una casa per una grande Famiglia ha consigliato di evitare lunghi monotoni corridoi, dislocando gli ambienti principali, aule, refettori, uffici intorno a questo atrio-ricreatorio che sta al centro dell’edificio.”.
In una Tavola polemica dedicata a Scuole e bimbi aggiungerà: “L’economia, questa eterna nemica delle iniziative sane, è assunta troppe volte come pretesto per architetture meschine e insufficienti. E così accade magari che il pregiudizio della “facciata in stile” si mangi i quattrini occorrenti per una costruzione semplice e luminosa. Quattro muri bastano per creare un edificio scolastico. La vera economia consiste nell’aprire in questi quattro muri altrettante finestre grandiose traverso le quali irrompano la luce e l’aria, le sole medicine che occorrono ai bambini.”[37]. In questo caso la poetica del vetro di Terragni sembra raggiungere un’acme mentre la destinazione dell’edificio ne qualifica la chiara scelta etica e sociale.
LA CASA GIULIANI-FRIGERIO DI COMO
Eisenman, esegeta di Terragni scrive: “La Casa del fascio e la casa Giuliani-Frigerio possono essere considerati esempi di testi critici di architettura, in quanto i significati delle loro facciate, piante e sezioni possono essere letti come spostamenti rispetto a un’architettura fatta di gerarchia, unità, sequenza, progressione e continuità, verso un’architettura fatta di frammentazione, disgiunzione, contingenza, alterazione e oscillazione. In questo senso la Casa del fascio e la casa Giuliani-Frigerio non sono più classificabili come razionaliste o moderniste” (…) “se solitamente l’architettura tradizionale è descrivibile come sequenza e come somma delle percezioni volute dall’architetto, la casa Giuliani- Frigerio avanza la possibilità che vi sia un tipo diverso di percezione, fatta di accrescimenti, contingente con l’aspetto fisico, trasversale rispetto all’edificio e al suo intorno: significativamente, questa trasversalità avviene rispetto a un percorso, che non è il solo, e neppure gerarchico.”[38].
Aggiungerei che ciò è tanto più evidente grazie a un uso pittorico del colore e dei materiali, ovvero di piccole tessere in un grigio estremamente sobrio, che crea degli effetti di interazione e rifrazione luministica, in grado di rendere l’edificio vibrante e atmosferico, quasi naturale e vivente, mentre le articolazioni spaziali seguono un intrinseco ritmo, afunzionale, che ha profondamente ispirato l’architettura del decostruzionismo.
La lettura per frammenti incoerenti suggerita da Eisenman chiama in causa anche un rapporto disgiunto e attivo con l’osservatore, che, proseguendo quanto abbiamo già detto supra per la Casa del fascio e il suo rapporto con il visitatore o il passante, mi pare prefigurare per un verso esiti di co-operazione del riguardante con l’opera d’arte, che saranno, ancora una volta, pienamente sviscerati solo dall’arte dei Sessanta e successiva, e per altro verso uno statuto di opera dell’arte, parafrasando Genette[39], anch’esso al di là da venire all’epoca della realizzazione, nel 1939-40.
Ulteriori elementi di controprova della profonda contemporaneità dell’architettura di Terragni.
IL DANTEUM
Molti studiosi hanno appuntato la loro attenzione, negli ultimi anni, su un progetto rimasto non realizzato: il Danteum, del 1938. A quest’ultimo è stata dedicata anche una bella mostra, qualche tempo fa, al CIAC di Foligno[40].
Elementi visionari e introspettivi dell’architettura di Terragni sembrano qui esplodere, complice il tema, che favoriva una trattazione fantastica e che suggeriva anche una tesa riflessione sull’architettura e il suo ruolo sociale come itinerarium mentis verso la grazia.
Sia Eisenman sia Daniel Libeskind, altro erede del linguaggio architettonico di Terragni, hanno dedicato importanti parole al Danteum: “Ma sicuramente la storia più incredibile è quella del Danteum. Quest’opera per Terragni non è semplicemente su Roma o su Dante, è una storia sull’inferno sul purgatorio e sul possibile paradiso. E sono tutte queste cose insieme, l’inferno, il purgatorio e il paradiso, che devono essere tenute in considerazione come parte della grandiosità di Terragni, perchè lui non è stato solamente qualcuno che ha scelto uno di questi tre momenti ma un artista coinvolto nell’intero spettro dell’esistenza umana.”[41], scrive Libeskind.
Le dinamiche percettive, la lettura simbolica, il dispiegarsi quasi teatrale della poetica dei materiali dalla lavagna di marmo dell’inferno alla foresta di vetro del paradiso – allusione alla luce paradisiaca ma anche quasi al giardino edenico, in una dimensione più umana, e ai labirinti di una coscienza gloriosa e liberata – qualificano l’opera, mentre grande serietà ed impegno emergono nelle tese considerazioni che l’architetto scrive nella sua relazione. Impegno commisurato al personaggio da celebrare, il sommo poeta.
Una “perfetta macchina della memoria”, come l’ha definita Attilio Terragni[42], profondamente attenta alle proporzioni della Commedia e in cui per un verso le meditatissime leggi armoniche diventano stimolo e viatico per la storia come coscienza civile – molti temi memoriali anche negli eredi di Terragni, si osserverà – per altro verso suggestioni lontane di architettura utopica si riplasmano in una fede che fa trasumanar.
Le novità, soprattutto simboliche e percettive, del progetto, che avrebbe dovuto inserirsi con grande autorevolezza nell’area dei Fori Imperiali, spostano verso una prospettiva nuova la sua architettura, lasciando in sospeso il rimpianto dei mancati sviluppi, e confermando la molteplicità di letture possibili attraverso la contemporaneità.
Un’architettura dunque che oggi, paradossalmente, ci appare vicina alla contemporaneità, grazie anche al fecondo passaggio critico ed architettonico dei suoi esegeti.
Un’architettura contemporanea, e gravida di futuro.
[1] Per una ricostruzione ragionata si veda Giorgio Ciucci Terragni e l’architettura in Giuseppe Terragni,catalogo della mostra a cura di Giorgio Ciucci e Marco De Michelis, Triennale di Milano, Milano, 11 maggio – 3 novembre 1996, Electa, Milano 1996, con bibliografia precedente completa a cura di Annalisa Avon.
[2] G. Terragni Progresso dell’arialuce, Tavola polemica, in «Quadrante» n. 35-36, Documentario sulla Casa del fascio di Como, 1936
[3] G. Terragni La rivoluzione del vetro, Tavola polemica, in «Quadrante» n. 35-36, Documentario sulla Casa del fascio di Como, 1936
[4] Attilio Terragni Daniel Libeskind Paolo Rosselli Atlante Terragni Architetture costruite, Skira, Milano 2004.
[5] L’uso del vetro è diventato una categoria quasi metastorica del linguaggio moderno in architettura: innumerevoli gli esempi, tra i più recenti si potrebbe citare la nuova sede BNL di Roma di Gianluca Peluffo, del 2016.
[6] Si tratta del Monumento alla Medaglia d’oro Roberto Sarfatti, del 1934-1935, su cui cfr. Thomas L. Schumacher Tra, intorno e dentro i monumenti e le tombe di Terragni in Giuseppe Terragni, catalogo della mostra a cura di Giorgio Ciucci e Marco De Michelis, cit. Per il sostegno relativo alle polemiche divampate sulla Casa del Fascio cfr. Marina Sommella Grossi Sartoris e Terragni: la polemica sulla Casa del fascio di Como in Giuseppe Terragni, cit.
[7] Il Monumento, con Attilio Terragni, risale al 1930/ 1931-33. Realizzato a partire da uno schizzo di Sant’Elia e sviluppato da Prampolini, fu affidata allo Studio Terragni la direzione ed esecuzione dei lavori, e a Giuseppe la progettazione della cripta. Si veda, tra altri, la ricostruzione di Alberto Longatti in La linea tra due frontiere in Giuseppe Terragni, cit.
[8] Giuseppe Terragni I marmi in «Quadrante» n. 35-36, 1936, ripubblicato in A. Terragni D. Libeskind, P. Rosselli Atlante Terragni, cit.
[9] Venturi, con il suo concetto di gusto, proponeva una ricostruzione storica delle epoche passate non verticistica ma storicamente complessa e motivata cfr. Lionello Venturi Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna 1926; Bianchi Bandinelli da parte sua iniziava a proporre (approfondendola poi a partire dal decennio successivo) una versione antiretorica dell’antico, indagando con acume zone prima desuete, e lontane cronologicamente, geograficamente e per intenti dalla classicità di maniera degli intellettuali fascisti.
[10] Da rilevare che quella idea dell’antico che il regime aveva propugnato, non è stata mai del tutto discussa, un elemento che farebbe propendere per una liquidazione incompleta di questo specifico aspetto di quella eredità culturale.
[11] Sulle vicende dell’affresco di Gerardo Dottori cfr. il mio Perugia liberata Arte e sistema dell’arte a Perugia da fine anni Trenta ai primi anni Cinquanta, con prefazione di Enrico Crispolti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
[12] “Il linguaggio razionalista, specie nella versione lecorbuseriana dominante negli anni trenta, nutre in sé i germi letali del classicismo (…) riesuma la geometria elementare, il quadrato e il cubo, figure chiuse e statiche, nonché la sezione aurea del Rinascimento”, cfr. Bruno Zevi Terragni, cospiratore manierista in Giuseppe Terragni a cura di Bruno Zevi, Serie di Architettura 7, Zanichelli, Bologna 1980.
[13] Marina Sommella Grossi Sartoris e Terragni: la polemica sulla Casa del fascio di Como in Giuseppe Terragni, cit
[14] Forse con qualche ambiguità.
[15] P. M. Bardi Le fonti della fantasia, in «Meridiano di Roma», 20 dicembre 1936.
[16] Così Terragni scriveva a Sartoris cfr. Marina Sommella Grossi Sartoris e Terragni: la polemica sulla Casa del fascio di Como in Giuseppe Terragni, cit.
[17] Spesso comunque troppo poco italiano, secondo Ojetti.
[18] In quell’occasione si citava il linguaggio bramantesco cfr. B. Pedace L’Italia delle arti all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 in «Perusia. Rivista del Dipartimento di Culture Comparate dell’Università per Stranieri di Perugia», Nuova Serie N.8, 2012, Guerra Edizioni, Perugia 2012.
[19] Giuseppe Terragni a cura di Bruno Zevi, cit.
[20] Propugnando la libertà di tradire prototipi e modelli, ai fini della citazione cfr. Achille Bonito Oliva L’ideologia del traditore. Arte, maniera e manierismo, Feltrinelli, Milano 1976.
[21] Metropole Suisse, Lettera di Giuseppe Terragni alla Commissione d’ornato della Città di Como, pubblicata in Attilio Terragni Daniel Libeskind Paolo Rosselli Atlante Terragni Architetture costruite, Skira, Milano 2004.
[22] Manfredo Tafuri Giuseppe Terragni: subject and “mask” in «Oppositions», 11, Winter 1977; poi, Il soggetto e la maschera. Una introduzione a Terragni in «Lotus» , 20, settembre 1978.
[23] Si veda anche quanto scrive Attilio Terragni in A. Terragni, D. Libeskind, P. Rosselli Atlante Terragni, cit. (“Più ci s’inoltra nelle opere presentate dall’Atlante e più diviene facile cogliere la distanza delle opere di Terragni da quelle di Le Corbusier, Mies e Gropius, i maestri della prima generazione del Movimento Moderno”).
[24] I rapporti tra i due furono relativamente più stretti e Le Corbusier pronunciò un importante discorso in occasione della Prima mostra commemorativa di Giuseppe Terragni, tenutasi a Como nel 1949.
[25] M. Tafuri Il soggetto e la maschera. Una introduzione a Terragni in «Lotus» , 20, settembre 1978.
[26] Massimo Cacciari La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019.
[27] G. Ciucci Terragni e l’architettura in Giuseppe Terragni,catalogo della mostra a cura di Giorgio Ciucci e Marco De Michelis, cit.; il testo citato è G. Pagano I benefici dell’architettura moderna (in proposito di una nuova costruzione a Como) in «La Casa bella», III, marzo 1930, 27.
[28] Cfr. Edoardo Persico Brinkman e Van der Vlugt in «Casabella», 87, marzo 1935.
[29] Giuseppe Terragni a cura di Bruno Zevi, cit.
[30] G. Carlo Argan Relazione al convegno L’eredità di Terragni e l’architettura italiana 1943-1968, Como, 14 settembre 1968 in L’architettura. Cronache e storia, 163, maggio 1969.
[31] Sul ruolo giocato da Argan in quegli anni mi permetto di rimandare al mio Interrelazioni tra l’arte italiana e gli Stati Uniti (1963-1971). Problemi estetici e critici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.
[32] Furono anni dirimenti sia per i mutamenti di statuto e di canoni intercorsi sia per le interrelazioni tra Italia e Stati Uniti cfr. B. Pedace Interrelazioni tra l’arte italiana e gli Stati Uniti (1963-1971). Problemi estetici e critici, cit.
[33] Ibidem.
[34] G. Ciucci Terragni e l’architettura in Giuseppe Terragni,catalogo della mostra a cura di Giorgio Ciucci e Marco De Michelis, cit.
[35] Tra cui: Peter Eisenman The use of ambiguity as a transformational method in «Perspecta», 13-14, 1971; Id. Giuseppe Terragni e l’idea di testo critico, in Giuseppe Terragni, catalogo della mostra a cura di G. Ciucci e M. De Michelis, cit.
[36] Tra cui: IBA Social Housing, 1981-1985, Berlino (Ovest); Koizumi Sangyo Corporation, 1988-1990, Tokyo; Haus Immendorf, 1993; Aronoff Center for Design and Art, 1996, Cincinnati, Ohio; Il giardino dei passi perduti, 2005, Verona, 2005; Yenikapi Archaelogical Museum and Archeo-Park, Istanbul, 2012- in corso.
[37] Relazione di Terragni, pubblicata in A. Terragni, D. Libeskind, P. Rosselli Atlante Terragni, cit.
[38] P. Eisenman Giuseppe Terragni e l’idea di testo critico, in Giuseppe Terragni, catalogo della mostra a cura di G. Ciucci e M. De Michelis, cit.
[39] G. Genette L’opera dell’arte. La relazione estetica, CLUEB, Bologna 1998.
[40] Giuseppe Terragni. Danteum: un viaggio nell’architettura, mostra a cura di Attilio Terragni e Italo Tomassoni, CIAC, Foligno, 6 ottobre – 9 dicembre 2012. ali&no editore, 2012. In quella occasione gli allievi di Ingegneria-Architettura dell’Università di Perugia hanno seguito un workshop progettando un analogo tema per Piazza Italia a Perugia cfr. Paolo Belardi Danteum. Oggi, ibidem.
[41] D. Libeskind Life after life in A. Terragni, D. Libeskind, P. Rosselli Atlante Terragni, cit
[42] A. Terragni Premessa in Giuseppe Terragni. Danteum: un viaggio nell’architettura, mostra a cura di Attilio Terragni e Italo Tomassoni, cit.
Formata all’Università di Perugia e dottore di ricerca in Storia dell’Arte all’Università di Siena con E. Crispolti, Bianca Pedace ha conseguito un dottorato all’Università per Stranieri di Perugia. Docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Perugia e a quella di Reggio Calabria. Curatrice indipendente; è autrice di monografie tra cui: Vittoria Lippi, Rubbettino, 2011; Perugia liberata. Artisti e sistema dell’arte a Perugia da fine anni Trenta ai primi anni Cinquanta, Rubbettino, 2012; Interrelazioni tra l’arte italiana e gli Stati Uniti (1963-1971). Problemi estetici e critici, Rubbettino, 2018. Pratica e professa l’interrelazione tra il versante storico, critico e teorico.