Non si è mai parlato così tanto di arte e di artisti come ai tempi nostri. Eppure, e questo è sconcertante, mai come ai tempi nostri il concetto di arte sembra distante ormai da quelle prerogative e da quei valori significativi che ne hanno segnato la storia, almeno fino al secondo dopoguerra. Ridimensionata sconsideratamente da una società della quale era stata a lungo elemento sostanziale, condividendone i momenti di sviluppo e i periodi di decadenza, oggi l’arte non interpreta più quel ruolo sociale e culturale determinante che la vide protagonista per secoli. Il lessico artistico contemporaneo, al contrario, si è arricchito di nuovi termini e di molteplici espressioni creative: performance, installazioni, grandi eventi, e poi fiere ed esposizioni e mostre colossali, che hanno certamente contribuito ad una divulgazione di massa di artisti e correnti, ma insieme rischiano di decretarne lo svuotamento di significato e la spettacolarizzazione superficiale. L’arte si è ritrovata così al centro di un vero e proprio sistema economico di cui è, di volta in volta, oggetto e soggetto: solitamente accessoria e decorativa, sofisticata distrazione intellettuale per conoscitori, appare oggi sempre più separata dal tessuto sociale e, allo stesso modo, testimone disattenta di questa lenta deriva che sono i nostri anni. A subire poi le conseguenze, nell’ultimo mezzo secolo, di un’ostinata quanto miope intenzione nel voler tagliare i ponti con una tradizione ed un passato considerati inutili (esausto e logoro retaggio delle avanguardie storiche, tornato di moda negli anni sessanta), è stata soprattutto la pittura.
Azzerata dal minimalismo prima e dall’onda lunga concettuale dopo, considerata sbrigativamente, e con disinvolta presunzione, obsoleta, e a lungo relegata ai margini del dibattito artistico, da qualche tempo, tuttavia, osserviamo la pittura figurativa (contestualmente ad un insolito sviluppo trasversale di linguaggi e di tendenze, frutto della globalizzazione culturale e, forse, di neanche troppo celati interessi di mercato), tornare vivacemente ad affacciarsi nelle gallerie e nelle grandi rassegne internazionali, con esiti e declinazioni, certamente, il più delle volte discutibili.
Chiudo qui queste note: da anni considero quanto accade nel panorama artistico contemporaneo con uno sguardo, mio malgrado, realista e disincantato, ma anche con la profonda convinzione che l’arte sia tuttora, nonostante gli opachi orizzonti odierni, un’avventura dello spirito straordinaria, uno strumento che ci è offerto per avvicinarci a categorie di pensiero forse poco frequentate oggi.
Per questo, quando ho conosciuto Riccardo Secchi (un pomeriggio di marzo dello scorso anno mi recai a visitare una sua mostra, curata e segnalatami da Emidio De Albentiis), ho avuto ancora una volta la certezza che il lavoro artistico, quello autentico e paziente e appassionato, svolto in silenzio e che, come scriveva Rilke, nasce da necessità interiori e non cerca ad ogni costo il favore del pubblico e l’apprezzamento della critica, è una sorta di vocazione che ci è data e che come tale va seguita con attenzione e costanza, nonostante le difficoltà e gli ostacoli e i momenti di pause creative. Non ho intenzione di tentare un’analisi critica del lavoro di Secchi: dal nostro incontro è nata un’amicizia che, in tempi come questi di relazioni superficiali e approssimative, ritengo cosa rara e pregevole, e che mi suggerisce quindi una lettura meno tecnica e più personale dei quadri di Riccardo.
Nato a Reggio Emilia in una famiglia ricca di predisposizioni artistiche (il nonno fu scultore di primo piano nella sua città e, seppure in tempi e modi diversi, anche lo zio ed il padre si dedicarono, con buoni risultati, all’arte), Riccardo Secchi si trasferisce nel 1973 a Perugia. Dopo gli studi superiori si iscrive al corso di pittura dell’Accademia di Belle Arti, seguendo, tra le altre, le lezioni di padre Diego Donati e di Bruno Orfei, e si diploma nel 1978. Risale a quegli anni la conoscenza e la frequentazione di William Congdon, protagonista di spicco della pittura americana del dopoguerra, vissuto ad Assisi e Subiaco in un momento significativo della propria vicenda artistica ed esistenziale, dal quale Secchi riceverà fondamentali insegnamenti intorno all’arte e al mestiere dell’arte, e che si riveleranno essenziali per il proprio lavoro: una visione sintetica del soggetto pittorico che viene costruito a grandi campiture di colore, stese a spatola su tavole di legno. Dopo un periodo di attività e di esperienze anche e soprattutto nel campo della ceramica artistica, Secchi si dedica esclusivamente all’insegnamento, riprendendo a dipingere con regolarità solo nel 2004.
Ora, in una società e in un contesto culturale come il nostro, dove vengono celebrate quotidianamente le imprese di talenti sempre più precoci, questo è senza dubbio sorprendente: ci vuole passione vera per la pittura e grande determinazione per accettare la sfida, rimettersi in gioco a cinquant’anni e riprendere da dove si era lasciato. Ma l’arte ha tempi propri che non corrispondono alle età anagrafiche, e ci indica a volte traiettorie inattese che necessitano, per essere percorse, di temperamento e di impegno. Passione sincera, temperamento e determinazione a Secchi non mancano. Riparte dal paesaggio, tradotto con saldezza ed ampio gesto espressivo, memore certamente della lezione di Congdon, ma ripensata attraverso una libertà compositiva originale ed un particolare, vigoroso impiego di gamme cromatiche che trovano equilibri delicati e precari ma efficacissimi nella narrazione pittorica. I panorami sono quelli dei luoghi dove Riccardo vive: Perugia, la campagna umbra, il Trasimeno, o, più raramente, gli orizzonti emiliani e lombardi. Non troviamo, nella sua pittura, altro che il dato apparentemente semplice della realtà che ci circonda e dentro la quale siamo stati chiamati a vivere le nostre storie: ma proprio questo, a mio parere, è l’aspetto più coinvolgente della sua pittura. Non ci sono iperboli visive, invenzioni, allegorie: le colline, i monti, gli olivi, i campi arati sono lì, evocati dall’azione risoluta ed esplicita della spatola che non ammette rifiniture e descrizioni particolareggiate, interpretati dalla sensibilità di Secchi che ne racconta i silenzi, le vastità, le stagioni.
Il dipinto non è più, allora, convenzionale illustrazione mimetica del vero ma, attraverso il gesto pittorico, ogni volta unico ed irripetibile, diventa una personale lettura del mondo.
In Trasimeno con cielo nuvoloso, ad esempio, le rive del lago e le colline, costruite con larghi tratti decisi, delimitano acqua e nubi che si affrontano in un addensarsi luminescente di grigi e di verdi: dalla intensa esperienza del visibile affiora, come da epoche remote, la forza primordiale della natura nella quale risuona da sempre, assoluta, la presenza del divino.
Anche nella serie di ritratti che Secchi ha realizzato negli ultimi anni ritroviamo la stessa immediatezza ed energia degli altri suoi dipinti, e insieme la stessa lieve, assorta sospensione: volti di persone comuni, colte in atteggiamenti abituali ma che forse, proprio per questo, esprimono compiutamente la molteplicità preziosa che ciascun uomo porta, comunque, dentro di sé.
Lontani dalle mode e dai ritorni, i paesaggi e, più recentemente, i ritratti, sono certamente ben piantati nella tradizione pittorica europea ma rivelano un temperamento schietto e autonomo. Se dovessi trovare riferimenti o modelli (beninteso solo formali), non saprei dove cercarli. Forse in alcune opere si apprezza una qualità costruttiva nella cui solidità si riconosce la lezione di Cézanne (Subasio, Campi a Montemelino), o in alcune altre l’utilizzo sapiente di gamme di bruni e di grigi ricorda certe tavolozze sironiane (Interno di San Pietro), o, ancora, l’esplorazione spregiudicata di ampie gradazioni di colori primari possono richiamare, magari, l’avventura fauve; poi, certamente, il magistero di Congdon, che Secchi elabora però, come si è notato, con linguaggio e sensibilità proprie, sino a raggiungere un codice personale e maturo che gli permette di proseguire una ricerca espressiva, è bene sottolinearlo, sempre convincente e rigorosa.
Al patrimonio pittorico di Riccardo Secchi, infatti, non appartiene l’eccedenza visiva, il colpo d’occhio ad effetto. Non troviamo l’espediente tecnico che rende la prospettiva più incisiva, le lontananze più sfumate, i toni più attraenti. Tutto è ridotto all’osso, governato da una grammatica essenziale di segni e colori che rivelano una poesia felicemente scarna ed efficace.
Ad uno sguardo più attento emerge poi, dalle opere di Riccardo, gran parte del suo mondo interiore, dove ad una visione ampia e libera della realtà si accompagna un’esigenza spirituale profonda e vissuta con coerenza.
Così, l’incontro con un solitario rudere di fabbrica, segno del moderno al crepuscolo, ci rammenta, nella sua trascorsa grandezza, la dignità antica del lavoro, le speranze, i sogni e le incertezze di un’umanità tesa da sempre tra coscienza del provvisorio e necessità del trascendente. E ancora, nell’apparente semplicità di un cielo e di un orizzonte immersi nella luce di un pomeriggio estivo, si percepisce la bellezza sommessa e insieme travolgente della natura, il respiro lieve e sublime del creato, la certezza di cadenze temporali ben più vaste che sovrastano l’urgenza delle nostre esistenze.