Tempo addietro una mia amica giornalista mi regalò il libro che aveva appena scritto dal titolo un po’ banale: Guida ai musei di Roma. Pensai ad una delle tante guide ad uso dei turisti, ovvero dei viaggiatori più o meno colti che non si vogliono fermare ai Musei Vaticani, al Colosseo e alla Galleria Borghese; ma non era così.
Aperto il libro, se non altro per obbligo affettivo, scoprii che si trattava di un’accurata e meticolosa ricerca sui musei che la capitale ospita. Un elenco interminabile. È forse naturale che sia così: la capitale raccoglie ed esprime gli interessi culturali di una nazione, ma mai avrei pensato che esistesse il museo delle lamette da barba e tanto meno il museo delle Anime del Purgatorio.
A cosa si deve ancora dedicare un museo? Se le lamette da barba hanno già trovato uno spazio, i fiammiferi ancora no. Così almeno a Roma, perché a Padova, invece, un museo dei fiammiferi esiste, così come a Verbania c’è il museo dell’ombrello, ad Alessandria del cappello e a Novara del rubinetto; non mancano neanche il museo della malaria, dell’orrore e così via. Se posso consigliarvi un gioco, andate su Internet e provate ad abbinare a “museo” una qualsiasi altra parola; troverete senz’altro un indirizzo, una località, un’istituzione, un gruppo, un privato che ha deciso di dare una dimora ad un oggetto o a una situazione, assecondando un’ansiosa voglia di mettere tutto a sistema. Certo manca ancora un approfondimento dedicato all’intercalare più usato nella nostra lingua; per quello bisogna arrivare fino a Reykjavík, ma la strada è ormai segnata.
Esiste insomma una grande domanda di realizzatori di musei cui corrisponde ovviamente anche un’offerta. Ecco, io sono l’offerta. Non sono tutta l’offerta, ma diciamo che rappresento quella che, siccome utilizza spesso tecnologie avanzate, viene considerata più moderna e quindi più efficace. Naturalmente so bene che non è così. Ma spesso una fiducia mal riposta nel futuro porta a dare credito ai tempi a venire che ci si immagina portino con sé cose stupefacenti e miracolose. La tecnologia e l’utilizzo di strumenti mediali ha fatto quindi il suo ingresso anche nei musei, a volte in maniera timida, altre volte in maniera preponderante, e qualche volta a sproposito.
Certamente il museo è molto cambiato negli ultimi anni, da quando il suo scopo primo era la tutela del bene e la sua conservazione. Il museo era il luogo della catalogazione, fatto da esperti per gli esperti, che consideravano il pubblico come un intruso. Ogni didascalia che accompagnava ciascun oggetto in esposizione era destinata ad un pubblico di specialisti ed utilizzava un linguaggio strettamente scientifico. Uso il verbo al passato, anche se, a dire il vero, questo è l’atteggiamento tenuto tuttora nella stragrande maggioranza dei musei del nostro paese. La sola eccezione riguarda le strutture museali rivolte a bambini e adolescenti, i soli cui viene riconosciuto il diritto di essere ignoranti. Solo in questo caso, infatti, si presta particolare attenzione al linguaggio.
Il cambiamento è avvenuto con le grandi mostre che cominciano a girare per l’Europa circa trenta anni fa. Si tratta di mostre di richiamo internazionale con allestimenti accurati ed accattivanti che presto cominciano a fare scuola e ad essere imitati. Anche i musei che ospitano mostre speciali, via via iniziano ad adottare gli stessi procedimenti per la loro collezione permanente. Nel frattempo le grandi esposizioni e le fiere cominciano ad essere prese a modello, ed il museo, con i suoi immancabili negozi e ristoranti, diventa un luogo in cui trascorrere il tempo libero. Si crea così un merchandising legato all’oggetto della mostra o del museo, per ottenere un ritorno economico, visti i costi sempre più alti degli allestimenti. Con l’arrivo di nuove complessità gestionali diventano necessarie nuove competenze, che affiancano quelle dello staff scientifico tradizionale e che sono le stesse dell’industria della comunicazione, o di una qualsivoglia industria. Infatti l’organigramma completo di un museo prevede attualmente un direttore del marketing, un responsabile della comunicazione, un addetto stampa e un ufficio per le pubbliche relazioni. Tuttavia nel momento in cui si decide di realizzare un museo ex novo o di allestire una mostra temporanea, si devono aggiungere competenze esterne: l’elaboratore del concept, lo studio d’architettura, la società di allestimenti mediali.
Il successo di un museo o di una mostra temporanea dipende non solamente dalla qualità dei soggetti coinvolti nel lavoro, ma anche e soprattutto dall’efficacia della relazione tra di loro. Nonostante la diversità delle tipologie espositive, normalmente si tende ad operare una prima distinzione relativa all’oggetto della mostra. Non sempre, infatti, la mostra e il museo hanno come finalità l’esposizione di oggetti; spesso l’oggetto è un tema o un argomento. Nel primo caso si tende a minimizzare l’apporto degli allestitori, in quanto si suppone che l’oggetto parli da solo. Si curano le luci e i piedistalli, si preparano pannelli con le didascalie e le note biografiche, ma si tende a non andare oltre. Nel secondo caso, invece, la funzione dell’installazione in genere viene ritenuta più rilevante. Il direttore di un museo ha spesso (quanto meno dovrebbe avere) un’idea precisa su come allestire una mostra di Cèzanne mentre, se si tratta di un museo dell’emigrazione, tende ad affidarsi a specialisti esterni. Avendo avuto esperienza di entrambe le situazioni, mi sono convinto che la distinzione a partire dall’oggetto sia sbagliata, perché l’esposizione è sempre una messa in scena, sia che si tratti di quadri di Cézanne o della storia dell’emigrazione. La maggiore difficoltà nelle fasi iniziali del progetto è quella di far entrare la committenza nell’ordine d’idee che si tratta, di fatto, di allestire uno “spettacolo”. Di fronte a questa parola ci si spaventa o addirittura ci si scandalizza, ma in realtà, che piaccia o no, si tratta di una messa in scena vera e propria; niente di così diverso da un’installazione Site Specific.
Quello dell’incontro con la committenza è un momento molto delicato del lavoro, perché è in questa sede che si capisce quali sono gli obiettivi del museo, chi sarà il pubblico, quali gli strumenti che si avranno a disposizione per la realizzazione, quali gli spazi e, naturalmente, a quanto ammonta il budget. Chiariti questi punti essenziali, si deve definire il senso dell’operazione: bisogna far capire o emozionare? Si deve informare e quanto in profondità? Si deve stupire o è meglio giocare? Il museo sarà interattivo o sarà lo spettatore a decidere i tempi e i luoghi?
Una volta stabiliti il senso e il fine del progetto, inizia la collaborazione con la parte scientifica che fornisce le informazioni relative al tema, ne spiega i termini, illustra il materiale iconografico a disposizione, gli oggetti, i contributi in genere, insomma tutto quanto potrà essere utilizzabile nella mostra. A questo punto si può passare all’elaborazione del concept e quindi alla realizzazione del progetto esecutivo da parte dello studio di architettura o dello scenografo. Questo progetto contiene l’idea di base per la mostra e l’analisi tecnica per realizzarlo, calcola i tempi di esposizione davanti ad ogni singola postazione, decide il linguaggio da utilizzare, prevede i costi e i tempi di realizzazione. Una volta sottoposto al committente e ottenuta l’approvazione del progetto, si può cominciare.
Un progetto esecutivo non scende ancora nel dettaglio, non mostra la grafica e il lettering, non è ancora quotato nelle misure e nei pesi, ma illustra chiaramente quella che alcuni chiamano, con un termine esagerato, la filosofia della mostra. È questa la filiera produttiva tipica di un contratto per un’istallazione museale. Ma non sempre si è così fortunati. Nel caso del Museo dell’Emigrazione realizzato a Gualdo Tadino, sono stato chiamato a lavori iniziati: il museo aveva già una raccolta di oggetti attribuibili all’emigrazione, soprattutto strumenti di lavoro e, naturalmente, valige. Oggetti senza dubbio interessanti, che però, esposti con una semplice didascalia descrittiva, perdevano di significato. Inseriti all’interno di un racconto, invece, come pezzi della scenografia di un percorso narrativo, sono diventati molto efficaci. Il materiale iconografico era estremamente interessante: fotografie, filmati originali, documenti di viaggio, quasi tutti donati da persone del luogo.
Ho quindi deciso di fare quello che viene chiamato un “museo emozionale”, separando la parte dell’informazione da quella dell’emozione. L’informazione ha un suo spazio in cinque diversi punti del museo, dove un display muto racconta con immagini e brevi frasi argomenti legati al tema dell’emigrazione. La parte emozionale occupa la parete del piano terra, dove un display di circa 12×2 metri racconta la storia dell’emigrazione in uno “show” (è così che si chiama in gergo) della durata di circa 8 minuti. In tutte le installazioni cerco di utilizzare un formato di proiezione distante dallo standard televisivo che utilizza le proporzioni di 4/3 o 16/9, per evitare l’associazione automatica all’immagine televisiva. Nel caso della proiezione di cui ci stiamo occupando, è un po’ come se a casa avessimo un televisore di un’altezza ridotta dell’ 80%, insomma una striscia lunga e stretta.
Gli altri argomenti sono trattati utilizzando in taluni casi dei videoproiettori o dei monitor, alcuni dei quali seminascosti all’interno di alcune valige. In nessun caso ci sono didascalie, né tanto meno titoli di testa o di coda, perché le immagini parlano da sole e la spiegazione sarebbe superflua. L’approfondimento del tema deve essere trattato altrove. Una mostra o un museo non devono sostituire una pubblicazione, devono semmai spingere a leggere, cioè ad approfondire con il mezzo giusto: il libro. Il museo, grazie anche ad una gestione intelligente, è diventato il museo della città, il museo che tutta la città ha visitato. Ma è soprattutto il museo che i cittadini hanno contribuito a costruire, con una partecipazione costante, attraverso donazioni, testimonianze, e che custodisce una memoria importante della storia della città e della regione
Ben diversa è la situazione di Assisi, dove ho progettato un’installazione rivolta ai turisti che parla della città. Situata in una sala all’ingresso della Pinacoteca comunale, l’istallazione ha lo scopo di presentare l’Assisi meno conosciuta, raramente prevista dagli itinerari consueti del pellegrino e del visitatore.
L’obiettivo è proprio questo: fornire stimoli per un approfondimento e dare notizie utili ad organizzare e razionalizzare la visita della città.
L’installazione ovviamente non sostituisce una visita, che peraltro è già in corso; cerca tuttavia di far conoscere storie più nascoste, ma non meno interessanti, permettendo soprattutto di mostrare, attraverso la video grafica, ciò che non si può vedere, perché andato in rovina ad opera del tempo o perché sostituito da costruzioni successive.
L’installazione, che ho chiamato Assicity, è un progetto di comunicazione integrata e coordinata di servizio all’utente. Lo spazio è diviso in 4 aree principali: a vetrina esterna lo studio virtuale, la barra degli approfondimenti, il percorso francescano. La prima area, è quella della vetrina esterna. Leggermente retratta rispetto al piano della strada e quindi al riparo dall’incidenza dei raggi del sole, costituisce una formidabile attrattiva. Dalla strada è visibile un monitor rivolto verso i passanti che manda quello che potremmo definire un vero e proprio “spot” della durata di circa 30”, che invita i passanti ad entrare nella Pinacoteca e a visitare l’installazione, oltre che ovviamente la Pinacoteca stessa. La seconda area è quella dello studio virtuale ed è composta da 3 schermi. Il principale misura 400×250 cm. ed è montato su un palco ad un’altezza di circa 120cm. È in quest’area che avviene la comunicazione principale. Qui un attore/archeologo o archeologo/attore espone i quattro temi scelti dalla produzione: l’Assisi romana, l’Assisi medievale, quella del periodo moderno e quella contemporanea. Il video proietta l’immagine del testimonial in una proporzione uno a uno, fornendo al pubblico la sensazione di avere un personaggio in carne ed ossa che parla da un palco. Lo schermo grande è infatti posizionato sopra un palco che ricorda un po’ quello di un teatro. Questa parte di filmato è stata girata in uno studio che utilizza il green screen, vale a dire in uno studio le cui pareti e lo sfondo sono colorate di un verde particolare che la grafica computerizzata fa scomparire lasciando il soggetto filmato fluttuare nel nero. A questo punto, in questo nero, possono essere immesse tutte le immagini che vogliamo. Nel nostro caso ho previsto che sei schermi, una sorta di televisori del futuro fatti di solo vetro trasparente, circondino il testimonial che può, con un gesto magico avrebbe detto Mandrake, richiamarli, spostarli o ingrandirli. Tanto per avere un riferimento, l’effetto ricorda quello visto nel film Minority Report.
Ci sono poi altri due schermi posti l’uno davanti all’altro. Il primo contiene le immagini in 2D, mentre il secondo quelle in 3D. Quest’ultimo, collocato sospeso in aria è uno schermo trasparente realizzato con un vetro particolare, che restituisce la sensazione che le immagini fluttuino nel vuoto, come se si trattasse di un ologramma in movimento. Qui vengono proiettate le ricostruzioni in 3D dei monumenti antichi ed anche una mappa, sempre tridimensionale, della città, realizzate da uno studio di grafica 3D specializzato in modellazione architettonica. Le loro ricostruzioni sono perfette in tutti i singoli dettagli, così perfette da sembrare finte. È per questo che tutto il loro lavoro è stato passato successivamente ad un’altra ditta specializzata in puppet graphic, letteralmente grafica con i pupazzi, che ha “sporcato” le immagini, deformando le linee e cambiando la prospettiva e i rapporti di grandezza. Qualcuno penserà sicuramente che non siamo stati in grado di realizzare una ricostruzione come si deve, ma poco importa. Non è semplice spiegare degli effetti speciali a parole e mi scuserete se non tutto vi sarà chiaro, ma potreste intenderla come un invito a vederla di persona.
La terza area è quella della barra degli approfondimenti ed è costituita da 4 monitor cui corrispondono i 4 temi di cui si parla. Questi argomenti sono esposti attraverso una grafica animata, che ricorda le cosiddette animazioni flash tipicamente usate nei siti web più graficamente pretenziosi. Qui vengono forniti maggiori dati e proposti degli itinerari che possono indirizzare lo spettatore verso mete meno scontate. L’ultima area è quella dell’itinerario francescano, costruito come uno stretto bancone a forma di “L”, che delimita il perimetro dell’installazione con una superficie stampata in plexiglass opalino. Camminando lungo questo itinerario lo spettatore ripercorre i luoghi del francescanesimo. Il percorso viene illustrato, oltre che attraverso una grafica stampata su plexiglass, anche da Photo Frame che mandano a loop piccole presentazioni dei luoghi con foto, disegni ed altro materiale visivo. Tutta l’installazione è perfettamente accessibile alla disabilità motoria.
Questa installazione non prevede interattività. Pur non essendo contrario a priori all’interattività, credo che spesso si abusi di questa parola e di questa funzione. Talvolta l’interattività fatta di touch screen a domanda e risposta è di grande utilità, soprattutto per comprare i biglietti alla stazione, ma raramente ho visto nei musei un uso veramente utile di questo strumento. Eppure sempre più spesso viene richiesta un’interazione persona/macchina, allo scopo di ottenere attraverso di essa il massimo coinvolgimento. Ma il pregio e il difetto dell’interazione è che prevede un rapporto uno a uno. Se il numero delle postazioni è limitato, si rischia l’intasamento; mentre una sola persona agisce, gli altri guardano. L’interazione invece deve essere veloce, deve durare poco, deve stupire almeno un po’, e soprattutto deve servire a qualcosa e non semplicemente ad esibire le meraviglie della tecnologia. Da parte mia l’interazione che preferisco non è quella mediata dalla tecnologia, ma quella che invece fa usare le cose e i gesti più comuni, aprire finestre o cassetti, spostare oggetti, far girare ruote. L‘importante è che il coinvolgimento sia reale e che la visita ad un museo diventi un’esperienza, susciti un’emozione e faccia apprendere qualcosa.
Il museo non può avere una funzione esaustiva nei confronti del soggetto che tratta, non deve a mio avviso dire tutto e non può contenere tutto il sapere intorno a questa materia. Una mostra è semplicemente la rappresentazione di questo sapere e la rappresentazione della conoscenza non è tanto diversa dallo spettacolo.
Antonio Venti, regista e videoartista, realizza videoinstallazioni in Italia e all’estero. Con Davide Franceschini ha pubblicato Il lavoro del collettivo formazero nell’orizzonte della cultura site-specific (in Teatri luoghi città, a cura di Raimondo Guarino Officina, Roma, 2008).