“Chiare, fresche e dolci acque”
Fin dall’antichità il Colle Calvario, subito fuori dalle mura della città di Perugia, era ricco di sorgenti d’acqua la cui presenza favorì l’insediamento delle prime comunità cristiane. Qui sorse la prima basilica e cattedrale di Perugia dedicata al principe degli Apostoli, san Pietro, con gli edifici che ospitavano il Vescovo e gli addetti al culto. Questa presenza durò per almeno cinque secoli fino a quando, nel 966, il vescovo Onesto donò la fatiscente basilica al monaco Pietro, che la restaurò e sul lato meridionale vi costruì il monastero benedettino. La presenza in basilica del corpo del santo vescovo Ercolano e la vicinanza del santuario dedicato al santo martire Costanzo fecero di San Pietro il luogo di culto più prezioso dell’intera città[1].
Ancora oggi, all’interno del monastero di San Pietro e nelle sue adiacenze, si conservano ben quattro sorgenti di acqua limpida che, per tutto il secondo millennio, hanno fornito l’acqua potabile alla cucina e al refettorio, per gli usi domestici e personali dei monaci, dei pellegrini e dei molti ospiti. L’acqua era attinta dai pozzi e la loro cura era una preoccupazione costante degli abati, dei priori e dei cellerari di San Pietro. In uno dei Libri economici conservati nell’Archivio storico dell’abbazia, troviamo la seguente annotazione[2]:
A dì 15 di maggio 1534. Per la fabrica, a Orelio barilaio fiorini duo soldi 62 sono per doi para de bigonzetti da terraccio e quattro secchi per il pozzo e per la stalla e per conto di due mastelli.
Per il rifornimento di acqua necessaria agli orti e ai servizi, fin dall’origine i monasteri si sono qualificati nella costruzione di ampie cisterne, destinate a raccogliere le acque piovane dei tetti. Purificata con opportuni filtri di sabbia e carbone, si otteneva così un’acqua distillata che poteva essere usata anche per bere, come nel mio monastero di origine di Santa Maria del Monte a Cesena. Ivi esistono due chiostri adiacenti posti su due livelli, entrambi muniti di cisterna; il più antico si sviluppa davanti alla basilica e fu costruito nel Quattrocento, al tempo della signoria dei Malatesta. Il secondo chiostro con la sua ampia cisterna fu realizzato su disegno di Leonardo da Vinci, quando si trovava a Cesena per costruire il Porto Canale di Cesenatico nel 1502.
Simili chiostri rinascimentali dotati di cisterna si trovano in tutti i grandi monasteri; basti qui ricordare l’abbazia di Montecassino, che nel Chiostro del Bramante e nel Chiostro del Priore ha due magnifiche cisterne per l’acqua piovana. Così dicasi per il monastero di San Giacomo di Pontida (Bergamo), dove sono stato abate e parroco dal 1990 al 2003, e per i chiostri dell’abbazia di Praglia, sui Colli Euganei del Padovano.
Anche qui a San Pietro di Perugia nel Chiostro del Trecento e nel Chiostro dell’Alessi furono costruite due cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Spesso, siamo soliti usare espressioni come il Pozzo nel Chiostro del Trecento, il Chiostro del Pozzo, il Pozzo nel Chiostro dell’Alessi: queste sono diciture improprie, perché non si tratta di veri e propri pozzi, ma di cisterne di acqua piovana. Numerose nelle aree desertiche, le cisterne sono ricordate già nella Bibbia, come nel Libro della Genesi a proposito di Giuseppe, figlio di Giacobbe, gettato dai fratelli in una cisterna vuota, prima di essere venduto ai mercanti d’Egitto[3].
La realizzazione della cisterna
La costruzione di una cisterna era un lavoro lungo, faticoso e costoso, che permetteva di conservare un grande quantitativo di acqua anche durante i caldi mesi dell’estate.
Nella realizzazione della cisterna, il lavoro più impegnativo era lo svuotamento della terra al centro del chiostro e la messa in opera di un solido mattonato tutto attorno alla cavità, in modo da sorreggere, secondo il disegno della cisterna, l’unica parete a volta o le pareti poligonali e, soprattutto, per impedire che l’acqua accumulata defluisse e si disperdesse nel terreno.
Al di sopra della cavità della cisterna, i pavimenti del chiostro erano costruiti con i quattro lati leggermente inclinati e convergenti verso le bocche di ingresso delle acque, onde permettere il loro corretto defluire. Normalmente, su questi punti di ingresso situati alla convergenza dei quattro lati era posta una griglia, che impediva l’entrata nella cisterna di grossi detriti portati dalla pioggia, come rami o foglie e ancora nidi di uccelli, colombi, rondoni o passeri morti che cadevano dai tetti.
Naturalmente, per poter fornire l’acqua ad uso della comunità, le cisterne dovevano avere una struttura sovrastante per estrarla, chiamata pozzale; nei monasteri come nelle residenze nobiliari e nei palazzi pubblici, questa era arricchita da elementi decorativi che la rendevano una vera opera d’arte. Per questo, i monaci si servivano non solo di maestranze edili e scalpellini per la costruzione della struttura portante, ma di artisti che ne curassero l’ornamentazione.
Per estrarre l’acqua dalla cisterna, prima di tutto era necessario collocarvi sopra una carrucola, in cui infilare un canapo convenientemente robusto, in cui issare il secchio per attingere l’acqua. Da qui una duplice tipologia di costruzione della vera[4] della cisterna. Abbiamo infatti esempi di magnifiche vere in ferro battuto lavorato, riccamente ornate e con un arco robusto, al cui centro è fissata la carrucola: sono di questo tipo le vere delle cisterne del primo chiostro di Santa Maria del Monte a Cesena, del monastero di San Giacomo a Pontida e di Santa Maria di Praglia. Ad iniziare dal Cinquecento, nel pieno sviluppo dell’arte rinascimentale, sono prevalse le vere in pietra, affidate ad artisti che le hanno disegnate e a lapicidi che le hanno eseguite in diversi materiali marmorei e in forme ornamentali molto ricche e raffinate, impreziosite da simboli e iscrizioni significative.
Così a Montecassino, al centro del famoso Chiostro del Bramante davanti alla Loggetta del Paradiso, si trova la cisterna ottagonale con la vera in pietra calcarea, affiancata da due colonne in stile corinzio, che sostengono la trabeazione nella parte superiore, con la cimasa che regge lo stemma dell’abbazia. Lo stesso dicasi per il Chiostro del Priore nella stessa abbazia, con al centro la cisterna sormontata dalla vera, con due bei pilastri che reggono la trabeazione.
Mi piace qui descrivere nel dettaglio il magnifico Chiostro grande dell’abbazia di Santa Maria del Monte di Cesena. Il disegno di Leonardo da Vinci ha previsto sulla pavimentazione l’apertura di quattro ingressi dell’acqua piovana posti sulla linea delle diagonali del chiostro rettangolare; questi ingressi sono normalmente chiusi da quattro sfere, o bocce, in pietra del diametro di 30 centimetri. Le bocce permettono all’acqua di entrare e allo stesso tempo impediscono ai detriti di ogni sorta di cadere nella cisterna: quante volte nella mia infanzia e gioventù ho raccolto e gettato nell’immondizia dei poveri rondoni morti, caduti dai tetti e trasportati dall’acqua fino alle bocce! Dalle aperture semi ostruite dalle quattro bocce, l’acqua penetra dolcemente in quattro stanze di decantazione, dalle quali filtra nella cisterna centrale a volta; qui, attraverso un metro di sabbia, filtra ancora nella parte centrale della cisterna, entrando dal basso, con un sistema di vasi comunicanti. Così avevamo un’acqua purissima che, al tempo della elettrificazione, era trasportata sulla torre del monastero in una vasca da cui, per forza di gravità, era distribuita in tutti i locali: in cucina, in refettorio, nelle stanze e nei bagni.
Il chiostro progettato da Leonardo da Vinci è un vero capolavoro di ingegneria idraulica, con la cisterna ancora funzionante; allo stesso tempo è un’opera d’arte di raffinata bellezza, con la nobile vera del pozzale in marmo, le sue iscrizioni, le quattro colonne di marmo greco, la trabeazione sovrastata da quattro piramidi laterali e, al centro, lo stemma del monastero: tre monti e la stella a sei punte. Sui quattro lati della vera campeggiano queste iscrizioni in latino e in greco: INOPIA ME GENUIT, Mi ha generato la necessità; IMBER MIHI VITA, La pioggia è la mia vita; ΟΣ ΕΚ ΤΟΥ ΙΔΑΤΟΥ ΤΟΥΤΟΥ ΠΙΕ ΜΕΧΡΙ ΤΟΥ ΘΑΝΑΤΟΥ ΖΗΣΕΤΑΙ, Chi beve di questa acqua, vivrà fino alla morte.
La cisterna del Chiostro del Trecento a San Pietro
L’archivio storico dell’abbazia benedettina di San Pietro di Perugia conserva una ricca documentazione sulle molte spese sostenute all’inizio del Cinquecento per la costruzione della cisterna in muratura nel Chiostro del Trecento, per la sua pavimentazione e per la realizzazione del pozzale al centro.
Il primo sviluppo del Chiostro del Trecento risale agli edifici inizialmente annessi alla prima cattedrale e poi al monastero di San Pietro. Non è possibile identificare con precisione gli elementi costruiti nella seconda metà del secolo X dall’abate Pietro, fondatore del monastero, per i suoi monaci. Dai documenti pervenutici, sappiamo che egli restaurò la basilica riconsacrata nel 969; più difficile è rintracciare i locali del monastero che l’abate Pietro costruì o ristrutturò.
Secondo le dettagliate prescrizioni della Regola di San Benedetto, per la vita di una comunità monastica sono necessari molti edifici e locali sia per lo svolgimento della vita di preghiera, sia per le riunioni spirituali dei monaci, sia per la vita comune e le attività lavorative. Oltre alla chiesa, con il coro per la preghiera comunitaria dei monaci e la sagrestia per i diversi servizi necessari allo svolgimento della liturgia, il monastero deve comprendere numerosi altri locali: la Sala del Capitolo per le riunioni comunitarie; la Sala del Refettorio per i pasti comuni con l’adiacente cucina e i servizi ad essa connessi, come la cantina, la dispensa, i magazzini e i vicini spazi del gallinaro, come si dice nei documenti dell’archivio di San Pietro, e dell’orto. Per l’inverno, era prevista una Sala del fuoco; qui si riunivano gli studenti o i monaci per le attività di scrittura e copiatura dei testi e, in questo caso, la sala diventava lo scriptorium del monastero, dove i monaci lavoravano per arricchire la biblioteca e realizzare nuovi libri liturgici per la chiesa. Secondo la Regola di San Benedetto, nel monastero era prevista anche la presenza di officine, come la sartoria, la falegnameria e il laboratorio del fabbro, in modo che all’interno della comunità fossero disponibili tutti i servizi necessari alla vita del monaco.
È per questo che fin dal primo sviluppo del monastero di San Pietro nella seconda metà del secolo X, sul lato della basilica posto verso sud, sorsero i locali propri del monastero: la Sala del Capitolo, il Refettorio, le officine e, al piano superiore, il dormitorio. Secondo il modello classico del monastero, che si rifà alla struttura della domus romana, tutti questi edifici furono organizzati attorno ad uno spazio comune aperto e furono raccordati tra loro da un quadriportico, che si sviluppava tutto attorno: si tratta del Chiostro, cuore del monastero e della vita attiva della comunità.
Delle costruzioni volute nel secolo X dal fondatore, l’abate Pietro, rimangono pochi elementi. Intorno alla metà del secolo XIV, infatti, il grande abate Ugolino II Vibi (1330-1362) fece rinnovare tutti gli edifici che si affacciavano sul Chiostro del Trecento, detto anche Chiostro del Capitolo: su di esso si affaccia infatti la magnifica Sala del Capitolo rivolta ad oriente, il Refettorio monumentale, ora trasformato in Aula Magna della Facoltà di Agraria, che troneggia a meridione e, verso occidente, il Palazzo Nuovo in sostituzione delle fabbriche più antiche, adibite prima ad abitazione del vescovo e poi a residenza abbaziale. L’abate Ugolino II Vibi non trascurò di abbellire artisticamente la parte superiore del chiostro “con cornicioni, colonnette, ed ornati tuttora esistenti”, come ricorda l’abate Mauro Bini nelle sue Memorie storiche del monastero di S. Pietro di Perugia dell’Ordine di S. Benedetto, redatte intorno al 1845[5].
Da quanto scrive l’abate Mauro Bini, si può dedurre che già nel Trecento il chiostro presentava due ordini sovrapposti di archi, realizzati in pietra serena, verosimilmente estratta dalla cava di Cibottola, spesso menzionata nei Libri Economici dell’archivio storico.
Più di un secolo dopo, alla fine Quattrocento, gli abati di San Pietro promossero il grande rifiorire della produzione artistica sia in basilica, sia nel monastero. Dopo la sistemazione della pala d’altare con l’Ascensione del Perugino, l’altare maggiore fu solennemente riconsacrato il 13 gennaio del 1500. I lavori continuarono anche negli anni successivi e si estesero al Chiostro del Trecento. Gli edifici furono rinnovati e, in particolare, fu realizzata la veste esterna del quadriportico del chiostro come lo possiamo ammirare ancora oggi. Secondo quanto scrive Mauro Bini, si deve all’abate Bartolomeo da Bergamo (1504-1507) il progetto di rinnovamento del Chiostro del Trecento[6]. I lavori furono affidati a Francesco di Guido di Virio[7], scultore e lapicida settignanese già presente a San Pietro dal 1484 per i lavori scultorei eseguiti nel coro della basilica e dove, nel 1514, realizzerà i due amboni in pietra serena posti sui pilastri del presbiterio, commissionatigli dall’abate Prospero da Faenza[8].
Il maestro scalpellino Francesco di Guido ideò anche il progetto di sistemazione del chiostro trecentesco, con la costruzione nel 1506 della Scala Nuova, che dalla porta laterale della chiesa (che si apriva dove ora si trova la Cappella di San Giuseppe) immetteva al dormitorio nel Corridoio del Trecento, e la realizzazione del portale della Sala del Capitolo con le due magnifiche bifore che si aprono ai lati.
Pietra serena e travertino
Il complesso abbaziale di San Pietro conta tre chiostri monumentali: il Chiostro d’ingresso, realizzato nel Seicento su disegno dall’architetto Valentino Martelli; quello centrale detto Chiostro del Trecento o del Capitolo, eretto sull’atrio sul quale si affacciava l’antica cattedrale con gli edifici annessi; il terzo chiostro detto dell’Alessi dal nome dell’architetto che lo progettò nel 1572. A questi si aggiunge il piccolo chiostro realizzato alla base del campanile e dal quale oggi si accede al monastero. La costruzione di tutti questi necessitò di imponenti quantità di materiale edile e pietra serena, di travertino e granito.
L’antica basilica di San Pietro con il suo atrio era ornata e sorretta da colonne di granito e di bardiglio, che ancora si possono ammirare. Le colonne di granito sono nove; di queste cinque sono in basilica, mentre altre quattro erano nell’atrio e, nel secolo XVII, furono collocate ai quattro angoli del Chiostro d’ingresso da Valentino Martelli.
Per i grandi lavori edilizi voluti dagli abati di San Pietro nel Trecento e successivamente tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento furono utilizzate ingenti quantità di materiali marmorei. Per il loro rifornimento, vennero in soccorso due cave di pietra e marmo bellissimo: la cava di pietra serena di Cibottola, di proprietà del monastero, e le cave di travertino sul Monte Malbe.
Con la pietra serena estratta da Cibottola, oggi esaurita, più di trenta lapicidi venuti da Settignano di Firenze produssero tutti i magnifici portali delle celle dei monaci, gli stipiti delle finestre, le soglie e quant’altro ornava i corridoi del monastero; con lo stesso materiale furono inoltre realizzate alcune opere scultoree che ancora brillano agli occhi dei visitatori, come la porta centrale della Sala del Capitolo, con le due bifore che la affiancano, e il magnifico scalone della Scala Nuova, a sei rampe e ad archi concentrici, che dalla basilica salgono al secondo piano del monastero. Nei Libri Economici dell’archivio storico, troviamo le annotazioni dei tanti pagamenti effettuati dai monaci ai mastri scalpellini che lavoravano per loro nella cava di Cibottola; il 12 marzo del 1531, ad esempio, pagarono una mina di grano per uno scalpellino che lavorava in quella cava per Francesco di Guido[9]: A dì 12 di Marzo 1531. Per mastro Guido scarpellino al granaro del monasterio fiorini uno soldi 44, tanti sono per mina 1 di grano hebbe lui da D. Helyseo per dare a un suo scarpellino da Cibottola. Con il travertino proveniente dalla cava sul Monte Malbe, furono realizzate tutte le colonne del piano terra del Chiostro del Trecento, così come le colonne del Chiostro dell’Alessi iniziato nel 1570, del Chiostro d’ingresso seicentesco di Valentino Martelli e anche quelle del piccolo chiostro interno del campanile. A seguito dei numerosi eventi sismici, gli archi del primo piano del Chiostro del Trecento, sostenuti da colonne di pietra serena, furono sistemati e tamburati per rafforzarne la struttura muraria. Ciò permise a Francesco di Guido di sopraelevare un terzo piano, dove furono realizzate delle nuove celle per i monaci che si aprivano su una loggia architravata, poi anch’essa chiusa e sulla quale furono aperte delle finestrelle quadrate.Dobbiamo al celebre prof. Ugo Tarchi, per molti anni direttore dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, la ricostruzione ideale del nostro chiostro, con i due ordini di archi sovrapposti e il terzo piano a loggia sorretta da colonnine, sulle quali poggiano gli architravi[10].
La cisterna del Chiostro del Trecento e il suo pozzale
Nei lavori di sistemazione e ammodernamento del Chiostro del Trecento rientrò anche la costruzione della cisterna al centro del quadriportico, che culmina nella vera in pietra e in tutto il sovrastante pozzale. Consultando la documentazione economica conservata nell’Archivio storico di San Pietro, è possibile seguire i lavori di costruzione della cisterna che si prolungò per alcuni anni, dal 1527 al 1533, e che richiese ingenti spese per l’acquisto dei materiali: la calce, i mattoni, le piastrelle, la sabbia, vari tipi di tegole, la carrucola.Terminata la costruzione della cisterna, fu necessario ingentilire il lavoro con un raffinato pozzale. Il genio dei nostri artisti che lavoravano a San Pietro ha ben congegnato un superbo manufatto; il pozzale è posto su una triplice gradinata che, sopraelevando l’opera sul piano del chiostro, le dona un armonico slancio. La vera della cisterna fu realizzata nel 1530 da Galeotto di Paolo di Assisi[11]; come si può ammirare ancora oggi, questa è ottagonale, con angoliere scanalate e sei tavole rettangolari sulle quali sono incisi simboli e iscrizioni. Ai lati della vera, si ergono quattro possenti colonne, due a destra e due a sinistra; queste sono rastremate e rudentate nella metà inferiore, lisce nella metà superiore. In alto, i capitelli dorici reggono una imponente trabeazione in marmo rosa, sovrastata da un tetto di pietra in aggetto ricoperto di coppi. Ad una data imprecisata, la trabeazione si ruppe e alla fine del secolo XIX fu sostituita da una copia; l’originale si conserva ancora nello stesso chiostro, appoggiato sul lato della chiesa. Sempre consultando i Libri economici dell’archivio, sappiamo che nell’ottobre del 1531, Francesco di Guido fu pagato per le colonne e la trabeazione che ornano la vera della cisterna[12]: A di primo di ottobre mdxxxi. Per la fabrica, a mastro Guido detto fiorini sessantasette soldi vinte, tali se ne fanno havere per le pietre de la cisterna cioè l’ornamento de le colonne et quello ornamento che sta de sopra, et nota che il Rev. P. Abate li fa havere ducati nove et mezo per in che il pacto fatto per elemosina in tutto sono ducati L quaranta che sono fiorini 67 soldi 20. Al centro dell’architrave, sporge ancora l’anello in ferro che reggeva la girella, cioè la carrucola, realizzata da mastro Alessandro Meneco, come risulta dai pagamenti dei Libri Economici[13]. Sulla girella, il mastro canaparo aveva issato la fune per reggere il secchio onde attingere l’acqua; sulla superficie interna dell’architrave, a un lato e all’altro dell’anello, fu scolpito lo stemma del monastero: le due chiavi incrociate di San Pietro sovrastate dalla tiara papale.Finalmente, il 3 dicembre del 1532, fu completata la costruzione della cisterna quando, alla presenza del Padre Abate, mastro Guglielmo de li Horjolgi issò la girella sul pozzale[14]:
A dì 3 de Decembre mdxxxii. Per la fabrica, a mastro Golielmo fiorini 95, tanti li se fanno boni per l’ornamento de la girella de la cisterna qual peso libre 145 a soldi 11 la libra, che tanto fu stimata da mastro[15] … da la Fratta; presente il P. Abbate, il P. D. Besarione, D. Pietro, et il ditto mastro Gulielmo: e fu contento.
Il pagamento a mastro Guglielmo è registrato anche nel Libro Economico delle entrate e delle uscite dello stesso anno, grazie al quale conosciamo anche il cognome[16]:
Jesus, [Anno] mdxxxii.
[Entrate]. Golielmo de li Horjolgi de’ dare a dì 3 de decembre al granaro in questo a carta 368 fiorini cinque soldi 60, sono per mine 5 di grano, hebbe da D. Pietro, come in Giornale a carta 183.
[Uscite]. Golielmo de contra de’ havere a dì 7 de decembre per la fabrica in questo a carta 342 fiorini quindeci soldi 95, tanto li se fan boni per l’ornamento de la girella de la cisterna qual pesso libre 145 a fiorini 11 libra, come in questo a carta 183.
Iscrizioni sugli specchi della vera
I monaci che dirigevano i lavori della ristrutturazione delle fabbriche monastiche di San Pietro erano fra i più dotti della Congregazione Cassinese; proprio nel Chiostro del Trecento istruivano i giovani nelle tre aule di Logica, Filosofia e Teologia, che ancora oggi si aprono sul fianco della basilica. Tra di loro vi erano numerosi cultori e conoscitori di latino, greco e di letteratura classica. Nell’ornamentazione della vera ottagonale della cisterna, dovettero essere questi monaci a suggerire il contenuto delle iscrizioni e i simboli realizzati con rara maestria dai lapicidi. Nello specchio centrale della vera, prospiciente l’antico Refettorio monastico, leggiamo: MONACHI CONGREGATIONIS CASINATIS F. C. (FECERUNT CONSTRUERE), I monaci della Congregazione Cassinese la fecero costruire, a ribadire l’appartenenza dell’abbazia di San Pietro alla Congregazione Cassinese, nella quale era entrata già nel 1436. Sugli specchi di destra e di sinistra dello stesso lato, è scolpito lo stemma di San Pietro, con le due chiavi incrociate.
Sugli specchi della vera posti sul lato prospicente la basilica, al centro si legge la seguente iscrizione: SALUBRITATIS COMMODI ORNATUSQUE CAUSSA; in questa frase è indicata la duplice motivazione della costruzione della cisterna e della sua vera: Per la comodità dell’acqua salubre e per ornamento. Sullo specchio a sinistra si legge la semplice indicazione: AQUA.
Scherzosa e allo stesso tempo erudita è l’iscrizione con la citazione greca posta sullo specchio di destra: ΑΡΙΣΤΟΝ ΥΔΟΡ, Ottima è l’acqua. Possiamo immaginare che fu il monaco professore di greco a dettare questa frase; si tratta niente meno che del primo verso della prima Olimpica di Pindaro, che così inizia il poema dedicato a Gerone di Siracusa, vincitore ad Olimpia con il cavallo Ferenico[17]:
Ottima è l’acqua: più d’ogni ricchezza magnanima,
l’oro risplende, si come di notte una fiamma:
mio cuore, e se brami
cantare gli agoni,
ché cerchi nell’etra deserto
un astro più ardente del sole?
Ché cerchi un agone più celebre di quello d’Olimpia?
Da Olimpia alle menti dei vati
avvolgesi l’inno che vola su tutte le labbra,
si ch’essi il figliuolo di Crono
esaltino, giunti alla reggia
beata, ospitai di Ierone.
È incredibile come da un semplice manufatto quale può essere una cisterna per l’acqua piovana ne sia derivato un monumento di rara bellezza, che dopo più di cinque secoli ancora troneggia al centro del nostro chiostro. Normalmente, il Chiostro del Trecento suscita l’ammirazione dei turisti sovraccarichi di macchine fotografiche, ma è soprattutto il luogo ove durante l’anno scolastico si cimentano i neolaureati che, nel giorno della laurea, fanno sfoggio delle corone di alloro con la tesi stretta al petto, circondati dalle lacrime dei parenti e dalle grida festanti dei compagni di corso. Anche per essi, come ad Olimpia per Gerone di Siracusa e il suo cavallo Ferenico, è giunta la sospirata meta – pensate gente! – in un chiostro benedettino, che tanto ha dato alla cultura classica e monastica, ma anche a quella agraria.
[1] Per la storia di San Pietro di Perugia, vedi: Convegno storico per il Millennio dell’Abbazia di S. Pietro in Perugia (29 settembre-3 ottobre 1966), in «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 64(1967), fasc. 1; Farnedi, Giustino, L’Abbazia di San Pietro in Perugia e gli studi storici, Cesena, Centro Storico Benedettino Italiano, 2011 (Italia Benedettina, 35).
[2] Perugia, Archivio storico di San Pietro, Libro Economico Giornale 121, p. 45 recto.
[3] Bibbia, Genesi, cap. 37, vv. 12-23.
[4] La vera di un pozzo o di una cisterna, detta anche ghiera, è la balaustra di protezione posta attorno all’apertura nel suolo. Con l’evolversi del gusto architettonico, la vera è divenuta un elemento decorativo, che impreziosisce la struttura architettonica di cortili, piazze e chiostri.
[5] Si tratta del manoscritto Perugia, Archivio storico di San Pietro, C.M. 439, vol. IV, edito da Elli, Pietro o.s.b., Cronotassi degli Abbati del Monastero di S. Pietro in Perugia conforme alla Cronaca ms. dell’Abate D. Mauro Bini († 1849), Perugia, Abbazia di San Pietro, 1994, p. 70. Le colonnette di cui parla l’abate Bini sono ancora oggi visibili nel Corridoio del Trecento, posto al primo piano e che si affaccia sul chiostro.
[6] Elli, Cronotassi degli Abbati del Monastero di S. Pietro in Perugia, cit., p. 161.
[7] Su Francesco di Guido di Virio, vedi Manari, Luigi, Documenti e note ai cenni storico artistici della basilica di S. Pietro in Perugia, in «L’Apologetico. Periodico religioso di Perugia», 2(1865), pp. 461-466; Gurrieri, Ottorino, Le opere dei maestri settignanesi nella chiesa e nel monastero di S. Pietro, in Convegno storico per il Millennio dell’Abbazia di S. Pietro in Perugia, cit., pp. 174-185; Schepers, Jörg, Francesco di Guido di Virio (Francesco di Guido), in Allgemeines Künstler-Lexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, München-Leipzig, K. G. Saur, 2004, vol. 43, pp. 327-328.
[8] Elli, Cronotassi degli Abbati del Monastero di S. Pietro in Perugia, cit., p. 169.
[9] Perugia, Archivio storico di San Pietro, Libro Economico Giornale 120, p. 123 recto.
[10] Tarchi, Ugo, L’arte in Umbria e nella Sabina, VI. L’arte del Rinascimento, Milano, Garzanti, 1954, tavv. lviii, lix; Id., I disegni dei monumenti di Perugia e dell’Umbria, testo e didascalie di Ottorino Gurrieri, Perugia, Cassa di Risparmio di Perugia, 1997, pp. 210-211, tav. xcvi.
[11] Schepers, Jörg, Galeotto di Paolo, in Allgemeines Künstler-Lexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, München-Leipzig, K. G. Saur, 2005, vol. 47, p. 441.
[12] Perugia, Archivio storico di San Pietro, Libro Economico giornale 120, p. 140 recto.
[13] Ibidem, p. 164 verso.
[14] Ibidem, p. 183 verso.
[15] Il nome è omesso.
[16] Perugia, Archivio storico di San Pietro, Libro Economico delle entrate e delle uscite, 16, p. 370.
[17] Pindaro (518 a.C.-438 a.C.) fu uno dei maggiori lirici greci che esaltava l’eccellenza umana espressa dalle qualità intellettuali e dalla prodezza atletica. Della sua vasta produzione poetica ci sono pervenute quattro raccolte di odi scritte per i giochi panellenici che si svolgevano nell’antica Grecia: quattordici Olimpiche, scritte per celebrare i vincitori nelle gare in onore di Zeus ad Olimpia; dodici Pitiche, dedicate ai vincitori nei giochi per Apollo che si svolgevano a Delfi; undici Nemee, per i giochi dedicati a Zeus presso la città di Nemea; otto Istmiche, per i vincitori delle gare in onore di Poseidone a Corinto.
Giustino Farnedi è abate dell’Ordine di San Benedetto presso l’Abbazia di San Pietro di Perugia
Eccezionale lavoro di ricerca su uno dei manufatti più belli e meno conosciuti del complesso abbaziale di San Pietro di Perugia. Complimenti vivissimi all’autore per l’ottimo lavoro e per aver riportato alla luce importanti documenti d’archivio.
Foto e immagini bellissime, che invitano a visitare San Pietro.
Nadia e Sandra Togni