Abbastanza ovvio, nonché doveroso, sembrerebbe (di fatto è così) aprire un pezzo, seppur breve e d’occasione, sulla fotografia e non citare Sontag (On photography ), Barthes ( La Chambre clair ), epperchéno, retrocedendo, arrivare all’apripista, al Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit , (ma sia chiaro che le citazioni e i debiti potrebbero andare avanti ancora a lungo). Decidere di non farlo e poi mettersi a parlare di fotografia. Qualcosa tra la presunzione e la fesseria. Che magari è un buon posto dove stare, chissà? Questo sprologo ha la sola funzione di chiarire ciò che qui non si darà: saggi eruditi (per incompetenza inibiti), una lunga e tortuosa introduzione (per pudore vietata).
La verità, banale se vogliamo, è che da tempo volevamo proporre a chi ci legge (ai pochi privilegiati!) un pezzo sulla fotografia. Lo si poteva affidare a un esperto, ce ne sono a carrettate, estetologo o critico d’arte che fosse. Ma poi, siccome di fotografi ne conosciamo tanti, e molti sono buoni amici e lavorano bene, abbiamo pensato di semplificare. Ne abbiamo scelti quattro, lavorano in campi diversi e, come si dice (forse un po’ volgarmente): non se la tirano. Non è l’ultima delle ragioni per cui li abbiamo invitati a presentarsi.
Di seguito una scelta, purtroppo ristretta, del loro lavoro. Buona visione. (gp)
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Andrea Adriani (fashion photographer)
Era l’estate dei miei 9 anni. Una domenica mattina ancora mezzo addormentato uscendo dalla cameretta che dividevo con mio fratello, in un palazzone alle porte di Perugia, chiusi la porta alle mie spalle e mi ritrovai nel buio corridoio dove vidi la signora al terzo piano del palazzo di fronte al nostro che stendeva i panni, ma, con mio enorme stupore, la scena in miniatura era proiettata sottosopra sul muro nero davanti a me! Era come guardare la televisione al contrario e già in HD (era il 1981). Non so per quanto tempo rimasi imbambolato a guardare a testa in giù scene di vita quotidiana, finestre che si aprivano gente che chiacchierava in terrazza, tutto normale se non fosse che ero chiuso in una stanza scura… poi, piano piano, tutto si spense, ero scioccato, convinto di aver visto gli alieni, alieni che però conoscevo bene perché erano i miei vicini!
Provai a raccontarlo a qualcuno tipo mia madre ma…
Mi ritrovai chissà quante altre volte nel buio del corridoio Magico… ma mai più niente!
Solo qualche anno dopo scoprii che cos’era la stenoscopia e realizzai che quella mattina una luce perfetta e irripetibile proiettò quelle immagini così incredibili attraverso la finestra dentro il bagno stretto e lungo che in quegli attimi diventò una gigantesca camera oscura fino al buco (stenopeico) della serratura davanti al mio volto rapito e sconvolto.
Da allora tutti i giorni faccio o penso qualcosa legato alla fotografia, perché alla fine è la fotografia che ha scelto me… non il contrario. (Andrea Adriani)
Andrea Adriani, 47 anni, fotografo-artigiano perugino. Sulle 450 riviste di moda di tutto il mondo, dal 2001 escono le sue foto. Diventato un globetrotter delle sfilate, è l’occhio magico dentro al quale guardano le eteree top-model quando sbucano in fondo alle passerelle di New York, Londra, Parigi, Milano. “Lavoro con Imaxtree, una delle più grandi agenzie a livello mondiale e siamo in 21: 11 scattano e 10 lavorano le foto al computer. Una catena di montaggio che fornisce reportage al 90 per cento delle riviste di moda, per questo dobbiamo coprire tutto: il backstage, la gente in strada, quella in sala, i dettagli dei volti e degli accessori. Attualmente, nelle sfilate di New York e Londra faccio il “full lens”, lavoro ripetitivo, ma di grande precisione, perché tutte le foto devono essere uguali: stesso spazio sopra e sotto, il piede destro davanti che tocca e il sinistro dietro che appena stacca da terra. Contano solo colore, fuoco e passo. Determinante è la luce e va tutto bene quando sono quelle fisse in tungsteno, uguali per ogni modella. I problemi nascono quando la sala è completamente nera, buia, e le “uscite” vengono illuminate dall’ “occhio di bue”, fasci di luce sparati da 3-4 postazioni che spesso si sovrappongono e sono scoordinati tra loro. Bisogna “diaframmare” in continuazione, cambiare esposizione e fuoco, ogni modella che esce è una situazione diversa. Insomma, se di solito per ogni sfilata si scattano cinque foto a modella e se ne utilizzano due, in questo caso bisogna almeno raddoppiare. A Milano e Parigi, invece mi occupo del “beauty”, cioè dei primi piani, volti e accessori.”
La foto alla quale sono particolarmente affezionato? Quella che ho fatto ad UJ 2006 a James Brown e Solomon Burke, che mi guardano dritto in camera e sorridono. James Brown morirà qualche mese dopo, quello scatto mi è rimasto nel cuore.
Francesco Capponi (artista)
L’ILLUSIONE DELLA LUCE
A caccia di un’ombra di luce, di personaggi e luoghi di confine in un mondo che scorre veloce, che corre a diaframma aperto su tutto e tutti. Nell’epoca della visibilità, delle immagini a portata di mano, qualcosa o qualcuno si perde, forse la possibilità di raccontare una storia. Forse… Nell’interrogativo, nel dubbio, in una pausa lungo la corsa del tempo si incontra e si scopre il lavoro di Francesco Capponi: artista sempre alle prese con la magia dei cominciamenti, esploratore del gioco della creazione, custode di piccoli tesori nascosti. Immaginiamo Capponi scendere le scale di una soffitta, chiudere dietro di sé una piccola porticina scricchiolante, avvicinarsi lentamente e tirare fuori, dalla propria sacca, piccoli oggetti misteriosi. Un movimento delicato delle dita alza il coperchio di piccole scatoline e chiedendo di non fare rumore ci mostra sul fondo del bruno contenitore di latta strane creature dormienti. Esse abitano e si nutrono dell’unico raggio di luce che entra da un minuscolo foro del coperchio.
Magie di vita in scatola. Francesco Capponi, come l’ultimo dei cantastorie, degli alchimisti, dei trovatori ci apre la porta del suo mondo, un mondo che vive nello spazio di un foro. Gli oggetti sono la misura della me- moria, accompagnano e tracciano un percorso percettivo, parlano e fanno immaginare il vissuto. A volte si lasciano indietro, si abbandonano, ma qualcun altro può trovarli, riutilizzarli, trasformarli… Chiuderci dentro una vita, o una sua immagine. Bisogna alzare il coperchio e guardare dentro, trascorrerci del tempo dando voce ai personaggi che ne abitano il fondo. Clown, giocolieri, trampolieri, uomini, donne, equilibristi, barbe, occhi, seni, gambe: ogni scatola una traccia di storia. Inciampando nel foro di scatola di Francesco Capponi, tutti questi strani personaggi hanno trovato un luogo da abitare, sgretolando i confini del tempo, perché nel “nostro” tempo, quello a diaframma aperto, questi personaggi non si vedono, stanno ma sfumano, si perdono nella troppa luce.
Capponi li trova agli angoli della vita, nell’incrocio di rumori di confine e stringe un patto con loro, facendoli abitare in un piccolo oggetto portatile, in una scatola fotografica che girerà il mondo, che apparterà a luoghi e mani e, una volta aperta, vivrà nel racconto di un occhio.Vecchi contenitori con coperchio, tra le mani di Capponi, si trasformano in mezzi e supporti fotografici. Lì dentro immagini imprigionate con lentezza. Tanta voglia di entrare nella soffitta dei tesori di Capponi, tanta voglia di violare quel luogo segreto di confine e scoprire un mondo di immagini che esplode dalla fantasia di un bambino che ha imparato a non smettere di giocare alla scoperta della vita. Una volta aperta la porticina della stanza delle creazioni non si può cessare di volerci tornare, saltare dentro un mondo di personaggi in scatola, toccarli, curarli, ascoltare il loro respiro e poi di nuovo fuori per sentire lo scarto del tempo che scorre in modo diverso, per sentire la velocità del rumore e poi di nuovo dentro per avvolgersi della lenta luce che fa le immagini. Desiderare di chiudersi e dormire nel fondo di scatole e diventare un oggetto vivo, nascosto in qualche angolo di mondo, passare di mano in mano, da soffitta a soffitta, da confine a confine,… Scivolare in una sacca e viaggiare fino al prossimo incontro da abitare. Capponi è il mago delle magie semplici: una scatola, un foro e un fa- scio di luce e l’infinito delle possibilità di mondo si apre a perdita d’occhio dentro uno stretto confine di latta.” Valentina Gregori
Francesco Capponi nasce a Perugia dove vive tutt’ora. Studia scultura all’Accademia di Belle Arti e fin dagli anni di formazione lavora attraverso la contaminazione di vari linguaggi artistici tra i quali grande importanza assume la fotografia, in primo luogo quella analogica e sperimentale. La luce è il suo terreno di ricerca principale: Francesco indaga la fotografia nel suo significato primigenio di “disegno con la luce” e partendo da questo presupposto cerca e sperimenta nuove interpretazioni della tecnica tentando di mantenere vivo e costante il dialogo tra antico e contemporaneo. In questa sperimentazione fotografica rientra fortemente anche la tridimensionalità caratteristica della scultura che gli consente di trasformare o utilizzare i più svariati oggetti come apparecchi fotografici e di realizzare, autarchicamente, i propri apparecchi ottici quali macchine fotografiche a foro stenopeico, camere obscure o lanterne magiche. Partecipa a numerose mostre tra le quali “Generation what?” al museo MAXXI di Roma, “Create” al Caos di Terni, “Orientarsi con le stelle” curata da Luca Beatrice a Palazzo della Penna a Perugia, “Dedalo” a Perugia e a Tubingen, “Slow Photo Project” a Bologna, “turno 14/22” a Milano. Sue sculture permanenti sono esposte a Terni (BCT) e a Palazzo Bourbon a Monte Santa Maria in Tiberina. I suoi lavori soprattutto quelli di fotografia sono presenti in pubblicazioni sia italiane che internazionali come ad esempio “Experimental Photography” pubblicata da Thames & Hudson (2015).
Marco Giugliarelli (reporter)
Per soli dieci giorni sono nato negli anni sessanta, forse questo ha caratterizzato da sempre la mia irrequieta pigrizia. Cresco poi con indole curiosa e timida, queste caratteristiche mi hanno fatto avvicinare alla fotografia come modo discreto di osservare quello che mi interessa.
Dopo varie esperienze nel mondo della fotografia, nel 1996 inizio a collaborare con il quotidiano Il Messaggero, questo lavoro mi da quello che cercavo, un posto in prima fila per assistere alla vita del mondo che mi circonda. Cronaca nera, bianca e rosa diventano il mio pane quotidiano e mi permettono di allacciare rapporti con realtà e persone che altrimenti non avrei mai raggiunto.
Nel 1999 frequento un workshop con Paolo Pellegrin che sta per entrare nella Magnum, capisco che la mia fotografia è acerba, didascalica, distante. Comprendo che mi interessa raccontare per immagini quello che c’è dentro e dietro le cose e che per raccontarle come voglio devo immergermi in quello che mi interessa immortalare.
Nel 2003 vengo chiamato alla realizzazione di un racconto fotografico a più mani sullo scoutismo italiano che prende forma nel libro “Passaggi” edito dalla ERI RAI. Durante la presentazione del volume all’Antoniano di Bologna conosco e stringo la mano a Topo Gigio, capisco che simili vette non le toccherò mai più. Collaboro come fotogiornalista con agenzie, quotidiani ed altre pubblicazioni, insegno quello che so di fotografia ad adulti e bambini imparando molto dai miei allievi, racconto per immagini festival in giro per l’Italia.
Dopo il terremoto del 2016 sono stato chiamato da una agenzia milanese a raccontare il post sisma in Umbria. I miei racconti sono stati raccolti in un instant book “Samuel a un anno e una casa” che prende il titolo dal bambino nato la notte delle prime scosse che, con la sua famiglia, è stato tra i primi assegnatari di un “modulo abitativo” a Norcia.
Alla fine del 2018 è stato pubblicato “Luce Ligth”, un libro che racconta luoghi della cultura umbra visti e fotografati da me in situazioni di luce inconsueta.
Dopo 23 anni di lavoro, inizio ad essere considerato un vecchio del mestiere. Questa condizione, otre al dolore alle ginocchia e alla schiena dovuto al carico costante di attrezzatura che mi porto dietro, fa si che venga chiamato in giro a raccontare la mia esperienza professionale. Nell’anno passato mi sono trovato con Alex Majoli, ex presidente dell’agenzia Magnum, al MAR di Ravenna a parlare in una tavola rotonda del cambiamento della mia professione ed a tenere un seminario sulla mia professione di fotoreporter al Politecnico di Milano.
Pio Scoppola (stage photographer)
Pio Scoppola nasce a Roma nel 1959. Inizia a fotografare nei primi anni settanta e dalla metà degli anni ottanta lavora come fotografo professionista nel campo del cinema, teatro e rassegne di vario tipo. Parallelamente a una solida formazione tecnica, la passione per la musica diventa il fulcro principale del suo percorso professionale. Questo profondo interesse lo conduce naturalmente alla fotografia musicale come espressione artistica e di vita insieme. Durante la sua carriera ha collaborato con riviste nazionali e di settore ed è stato tra i fotografi ufficiali di importanti rassegne musicali italiane del panorama jazz, rock e pop. Ha collaborato con diversi artisti italiani e internazionali sia in tour che in studio. Attualmente vive e lavora nella Tuscia. Di seguito alcuni suoi lavori.