Il giardino urbano ha occupato sempre uno spazio molto piccolo, quasi residuale, nella città di Perugia, costretta a comprimere il suo sviluppo entro la cinta muraria.Solo poche famiglie aristocratiche potevano permettersi di dedicare al giardino una parte dell’area di pertinenza del loro palazzo. Facevano eccezione i due ampi spazi ai lati del “Casino di S. Spirito” dei Bourbon di Sorbello destinati da un lato a giardino ornamentale e, dall’altro, a vero e proprio orto botanico. La strada di accesso ha mantenuto la denominazione di “Via del Giardino”, presente già nel catasto gregoriano, anche se si è persa l’originaria funzione. Di ben altra estensione erano invece gli spazi destinati agli orti, in particolare quelli monastici fra cui primeggiavano per estensione e qualità dell’impianto i benedettini Olivetani di Monte Morcino nuovo e i benedettini Cassinesi di San Pietro. Fuori le mura l’ampia fascia dei sobborghi era ripatita in poderi che attorniavano le residenze padronali di campagna, in forma di villa o di casino di villeggiatura, corredate di un antistante spazio a giardino.In questa situazione ferma nel tempo, lo spazio del giardino, modesto non solo per le sue contenute dimensioni, ma anche per il suo semplice allestimento, assolveva alla funzione di godimento di una porzione di natura addomesticata a scopo ornamentale e ordinata nella geometria delle aiuole, rispetto alla più ampia estensione della natura coltivata a scopo alimentare nel contado.
Ma il tempo cominciò a cambiare e già nell’Esposizione Provinciale di Belle Arti, Agricoltura, e Industria nella Provincia di Perugia, organizzata dalla Società Economico-Agraria nel 1858, la Classe II era dedicata ai prodotti di “Agricoltura, Orticoltura e Giardinaggio”. In quest’ultima categoria, che riceveva finalmente un riconoscimento ufficiale, l’unico espositore era il conte Zeffirino Faina con fiori e piante ornamentali coltivate nella sua villa ai Murelli.
Un ulteriore decisivo passaggio è avvenuto con l’Esposizione Artistica, Industriale e Agricola della Provincia di Perugia organizzata nel capoluogo da un apposito Comitato nel 1879. In quell’occasione, non solo veniva confermato il “Giardinaggio”, inserito nella Classe II dei prodotti delle industrie agricole speciali, ma come espositori si univano a Zeffirino Faina, Alessandro Oddi Baglioni e Tancredi Bourbon di Sorbello, e per la prima volta partecipavano anche Leone e Fiorenzo Palomba giardinieri di professione. A Leone Palomba la Giuria attribuì la “medaglia di argento, non solo per le piante che ha esposto, ma anche per il buon gusto con cui ha decorato l’interno del Palazzo dell’Esposizione”, a conferma dell’accresciuta considerazione riservata al giardinaggio.
Il segno del nuovo tempo veniva confermato anche dall’insediamento a Perugia di Ferdinando Belliere, un giardiniere francese che aveva seguito dalle Marche il cognato Ferdinando Cesaroni, proprietario di un villino presso il giardino del Frontone con un vasto appezzamento destinato a vivaio. Belliere, che si definiva un “Orticultore”, presentava la sua attività come “Decorazione di Giardini pittoreschi e Parchi all’ultimo gusto. Alberi di ornamento e da bosco per pubblici passeggi”. Il tempo e lo spazio del giardino era davvero mutato.
In un altro tempo, prossimo al nostro, il giardino si è conquistato un nuovo spazio con l’opera di Pietro Porcinai, un indiscusso maestro nell’arte dei giardini che ha operato in Umbria dal 1936 al 1984 e segnatamente a Perugia dal 1942.
Nel settembre di quell’anno, Bruno Buitoni, esponente di una delle famiglie più in vista della città, volendo realizzare un piccolo giardino nella sua villa suburbana, contattò Porcinai, che gli era stato “caldamente raccomandato” dal prof Torrigiani di Firenze. Un modesto incarico che verrà comunque accettato e realizzato, malgrado le difficoltà create dalla guerra, ed offrirà a Porcinai l’occasione di incontri, propiziati da Buitoni, con personaggi di spicco della società perugina che si tradurranno in altrettante committenze, come il podestà Giulio Agostini, la famiglia Peano-Frè e l’architetto Pietro Frenguelli, direttore dei lavori di Villa Buitoni, con cui Porcinai stringerà un rapporto di collaborazione professionale. Il legame con la famiglia Buitoni (a Bruno si uniranno la moglie Alba e il figlio Franco) proseguirà nel tempo con altri progetti (villa di Sanfatucchio e Stabilimento “Perugina”) e procurerà a Porcinai altre committenze dai dirigenti della “Perugina” (Angelini, Bartoccioli e, soprattutto, il direttore generale Giovanni Faina). I Buitoni, sul versante industriale, e il clinico Angelo Barola, su quello professionale, apriranno a Porcinai l’esclusivo ambiente della borghesia che operava nell’hinterland del capoluogo regionale, a partire dagli Spagnoli, associati con i Buitoni nella proprietà della “Perugina”, poi i Colussi, i Mignini, i Petrini, che operavano nel campo agro-alimentare, infine anche gli industriali del settore tessile, come Leonardo Servadio, che incaricò Porcinai della sistemazione esterna dello stabilimento Ellesse e della sua residenza di campagna, oltre a Fernando Ciai e Umberto Ginocchietti.
Questa facoltosa committenza che aveva conquistato posizioni di rilievo in campo nazionale e internazionale, non si era però curata di trasferire nello sfarzo delle proprie residenze il successo ottenuto e il grande potere economico acquisito. Una volontaria rinuncia alla rappresentazione del loro status, che era stata invece perseguita dall’aristocrazia terriera, affidando ai prestigiosi palazzi di città, alle suntuose ville suburbane e addirittura al patronato degli altari nelle chiese, l’attestazione della propria supremazia mantenendo, nonostante la decadenza economica e addirittura l’estinzione della famiglia, la permanenza del nome nella titolazione degli edifici, che trasmette ancora la memoria di questa storica preminenza.
Le ville, talvolta semplici casali, della borghesia industriale rivelano un’agiatezza misurata, mai sfacciatamente esibita, e a questo tono pacato si attiene anche l’opera di Porcinai che conferisce a questi luoghi con l’eleganza delle forme, la sapienza delle consociazioni vegetali, l’inserimento funzionale dei materiali naturali, il legno e la pietra, per marcare i passaggi e spartire gli spazi, quella qualità che relega l’anonima architettura alla funzione di fondale discreto. Il giardino di Porcinai diventa quindi la cifra che attribuisce a questi luoghi una speciale distinzione rispetto alle tante ville e casali, talvolta anche di maggior pregio, presenti nelle aree suburbane.
Pur trattandosi di superfici molto contenute, le soluzioni che Porcinai adotta tendono a ricreare uno spazio di natura da offrire come un gradevole ambiente di socialità e di intrattenimento, che assume il ruolo del soggiorno.
La funzione del giardino diventa duplice: da un lato, quella di impreziosire con una sapiente scenografia di «architettura» vegetale la modesta architettura della residenza, che non poteva competere con le prestigiose ville storiche dell’aristocrazia terriera; dall’altro, quella di attestare la raggiunta condizione di doviziosa agiatezza, affidata soprattutto a due attrezzature, il campo da tennis e la piscina, che erano le dotazioni del giardino deputate all’esercizio della socialità.
Mentre il campo da tennis era rigorosamente definito nelle dimensioni e nei materiali dalle regole del gioco e lasciava pochi margini di intervento, era soprattutto la piscina a misurare il valore del paesaggista che si rivelava nella scelta dell’ambientazione, nel disegno delle forme dell’acqua, nelle consociazioni vegetali, nell’uso dei materiali e nella cura dei dettagli per raggiungere il risultato di conferire un peculiare e distintivo carattere alla sistemazione del luogo.
Le opere di Porcinai e i rapporti, talvolta travagliati, con la committenza sono stati oggetto di una laboriosa ricerca curata da un gruppo di lavoro costituito dalla “Associazione Pietro Porcinai” in base ad una convenzione stipulata con la Regione dell’Umbria. L’imponente documentazione raccolta è stata sintetizzata in una pubblicazione, “I giardini di Pietro Porcinai in Umbria, edita nel 2014 dalla Regione, curata da chi scrive e da Marina Fresa.
Ma il tempo e lo spazio del giardino era destinato a mutare. Questa società di valenti imprenditori e di affermati professionisti che attribuiva al giardino tanta importanza da affidare la sua progettazione a uno specialista di riconosciuta capacità e di grande valore, si è ormai estinta e i giardini progettati da Porcinai, tranne rare eccezioni, sono rimasti privi della loro originaria funzione e per di più orfani sia del progettista, che dei committenti. È cambiata la visione del giardino e la misura della distanza dai progetti di Porcinai la rileviamo nella perduta centralità del “posto a stare” come luogo di sosta riposante per il fisico e salutare per la mente, nell’accecamento dei coni visivi sul paesaggio circostante incorniciati da quinte arboree, nel ribaltamento degli accessi ora asserviti all’automobile, mentre la studiata modellazione del terreno dei percorsi pedonali di attraversamento del sito, relegando quelli veicolari in posizioni marginali e interrando il garage, evitava ogni intrusione delle auto in quella che Porcinai, scrivendo ad Alba Buitoni, considerava la parte “intima” del giardino.
A differenza dell’architettura il giardino è un complesso organismo vivente che esige una costante attenzione e cure manutentive con l’impiego di personale specializzato ormai difficilmente reperibile. Un compito molto impegnativo che Porcinai, consapevole di queste problematiche, aveva cercato di alleggerire orientando le sue scelte progettuali in prevalenza su specie arbustive ed arboree piuttosto che erbacee e floreali, in modo da ridurre gli interventi di cura. Una consapevolezza che trova conferma nella sua predilezione per la contenuta dimensione degli spazi, manifestata anche in uno dei suoi scritti, “Progetti di giardini di piccola e media grandezza”, ed esplicitata nell’espressione: “vale più avere un piccolo giardino, ma ben tenuto, che uno grande in abbandono”.
Questa mutazione della funzione del giardino è ancora più evidente nella committenza pubblica. Certamente eccezionale si può considerare il primo incarico conferito a Porcinai dal Comune di Perugia nel 1948 per trasformare in parco urbano l’impervio e degradato fosso della Cupa, dopo due anni di infruttuosi tentativi, che però svolgevano la funzione sociale di “sollievo della disoccupazione”. Porcinai, modellando opportunamente il terreno, ottenne un ampio spazio fruibile dal pubblico, popolato con una vegetazione che richiamava, in un rinnovato dialogo con le mura, i caratteri del paesaggio rurale umbro con lecci, olivi e cipressi. I sedili in pietra dei posti a stare e le lastre di arenaria per i camminamenti nel prato rispondevano alla logica di arredi funzionali che associavano solidità e durevolezza dei materiali, capaci di sostenere un’intensa utilizzazione, con la sobria eleganza delle forme. Pensato in un tempo in cui l’intorno era densamente abitato, il giardino della Cuparella soffre ora della devitalizzazione del luogo. Non serve inserire incongrue attrezzature se manca una strategia di reinsediamento di abitanti e di attività, quindi se non c’è il pubblico che può fruire di un giardino pubblico.
Altrettanto eccezionali erano le scelte del Comune di Perugia di destinare a giardino due aree fortemente appetibili per più remunerative destinazioni d’uso. Così nel caso di piazza Fortebraccio, dove per riempire il “vuoto” creato nel 1939 dalla demolizione di un intero isolato, con i progetti già pronti per una nuova edificazione, fu deciso invece di realizzare (1951) il giardino ideato da Porcinai, privato poi non solo di qualunque forma di manutenzione, ma anche della capacità di adattamento ai cambiamenti del contesto.
Più sofferte le vicende dell’altro luogo, l’ex-Piazza d’Armi che, svuotata della presenza del fortino della “Tenaglia” distrutto insieme alla Rocca Paolina nel 1860, era utilizzata per esercitazioni militari e per la fiera del bestiame. L’idea, accarezzata negli anni Venti e Trenta di destinare questo ampio spazio desolato ad un celebrativo “Parco della Vittoria”, era stata prontamente raccolta da alcuni architetti (Angelini, Lilli, Tarchi, Bazzani) e fra le soluzioni offerte era stata formalmente scelta (1928) quella di Pietro Angelini, che non ha avuto però concreta attuazione. Per superare questa situazione di stallo fu bandito nel 1946 un concorso nazionale per la sistemazione urbanistica della piazza ed ai quattro vincitori a pari merito fu assegnato l’incarico di redigere un piano particolareggiato, che prevedeva la costruzione di quattro grandi edifici per uffici pubblici e attività commerciali nella parte settentrionale e dello stadio in quella meridionale, a fianco del complesso monastico di S. Giuliana, relegando il verde negli spazi residuali con un giardino a parterre fra gli edifici e un’area boscata verso il monastero. Per dare forma al luogo, il Comune ricorse di nuovo a Porcinai incaricandolo della “Sistemazione arborea dell’ex Piazza d’Armi e degli altri giardini pubblici della città” (1952). La soluzione proposta, ribaltando quella prospettata dal concorso, prevedeva la creazione di un denso bosco urbano incastonato fra i nuovi edifici e un’area a prato delimitata da alberature con vista a cannocchiale sulla facciata di S. Giuliana. La suggestione di Porcinai non è stata però raccolta: l’area del bosco è stata destinata a stazione degli autobus senza u valido esito architettonico e l’asfalto ha preso il posto del tessuto connettivo della vegetazione che doveva avvolgere l’edificato.
Così la città di Perugia, che in tempi non sospetti aveva incaricato un grande progettista come Pietro Porcinai di occuparsi dei giardini pubblici, è rimasta senza giardini e nessuno sembra esserne accorto. Il tempo è finito e lo spazio si è annullato.
Gli autori sono membri della “Associazione Pietro Porcinai” dalla sua costituzione e curatori, con Marina Fresa, della pubblicazione “i giardini di Pietro Porcinai in Umbria” edita dalla Regione umbra nel 2014.