Il pensiero occidentale, basato su categorie razionali, sul criterio di verità e oggettività, ha ridotto l’immaginazione al ruolo di epifenomeno della coscienza e ne ha affrontato le manifestazioni con criteri oggettivanti, tesi a valutarne le dinamiche con metodo descrittivo e classificatorio.
Sfugge in tale modo la ricerca del senso ontologico e originario delle immagini che tuttora, per dirla con Lucrezio, «volano in giro, avanti e indietro, per l’aure, e sono loro che terrorizzano la nostra mente apparendoci nella veglia o nel sonno».
Reso oggetto, l’immaginario, e quanto originato da un livello di pensiero arcaico, simbolico e mitopoietico, finisce per essere considerato «peccato contro lo spirito» per Brunschvicg, «regressivo desiderio schizofrenico» per Sartre, oppure, nell’approccio organicistico ai processi mentali instaurato da Ippocrate, addotto al malfunzionamento del cervello.
Simboli, metafore e miti, come intuì Pettazzoni nel riprendere una tesi di Vico, sarebbero invece atti creativi propri della condizione fantastica dello spirito, idee allo stato nascente per Alain, che considera l’immaginario come l’infanzia della coscienza.
Uno studio comparato mostra come, anteriormente alla differenziazione di corpo e psiche, le emozioni, nella proiezione della percezione di un’entità vivente nell’uomo stesso, fossero percepite dall’individuo come un fattore esterno, come quelle entità destabilizzanti, gli spiriti, che nel tempo avrebbero assunto l’immagine di demoni e dei.
Già alla fine del XVIII secolo Novalis auspicava: «Il mondo interiore dovrebbe avere con noi quel rapporto che ha ora il mondo esteriore», e poneva la domanda: «Come può un uomo avere il senso di qualche cosa se non ne ha in sé il germe?».
Spetta a Jung l’aver elaborato successivamente questo concetto nell’ipotesi di un substrato comune, inconscio collettivo, i cui costituenti, archetipi, attraverso una modalità simbolica, si sviluppano in quei motivi mitologici e religiosi che Mauss definì categorie dell’immaginazione.
Preso da impeto romantico, Walter Otto dichiarava che le deità della Grecia non erano interpretabili, essendo verità ontologiche. Questa affermazione diviene concepibile considerando che, prima che il pensiero della coscienza separasse l’unità dell’uomo, il mondo interno e l’esterno non erano nettamente differenziati. Le immagini, come le voci che diciamo mentali, avevano credito perché, come dice Cassirer, «chi possiede una visione simbolica non può contemporaneamente intuire che e in quale misura ciò che pensa sia qualcosa di simbolico».
Sulla scena de Le Rane due attori si muovono con fare circospetto. Impersonano Xantia e Dioniso appena traghettati da Caronte in una landa deserta dove c’è buio e fango e dove, di lì a un attimo, Xantia scorge un mostro multiforme che si sposta di qua e di là, che ora è «bue, ora mulo, ora donna bellissima», per poi prendere le sembianze di cane. Ha il volto in fiamme, una gamba di bronzo e l’altra di sterco.
«Allora è l’Empousa!», grida spaventato Dioniso, impallidendo, e mentre per la paura gli si macchia la veste, chiama in aiuto il suo sacerdote seduto tra gli spettatori.
Della figura di Empousa ci sono giunte rare immagini iconografiche e due testimonianze letterarie di Aristofane e di Philostrato che ne descrivono aspetti diversi.
Nella commedia Le Rane la sua comparsa fugace sembra di poca importanza. Tuttavia, ad una lettura più attenta, è facile cogliere un nesso coi rituali propiziatori dell’epoca storica cui evidentemente si riferisce Aristofane, gli stessi per cui, secondo Rohde, in Grecia la credenza nelle anime si era sviluppata in disposizioni di stato e di culto.
«Parricidi e spergiuri li hai visti?».
La domanda di Dioniso che precede la comparsa di Empousa non è fatta a caso e per comprenderne il senso occorre riportarsi a Pausania che riferisce che il delitto di matricidio da cui Oreste venne assolto era stato celebrato sull’Areopago di Atene, luogo in cui si realizzavano i processi per i delitti più efferati (cfr. Pausania, Periegesi della Grecia, I.28). Imputato e parte offesa sedevano affrontati su due massi non lavorati, lithos anaideias, pietra dell’implacabilità e lithos ybreos, della violenza. Minacciose, aleggiavano sul luogo le Semnai, dee venerande che, come specifica Pausania, Eschilo chiama Erinùs, le Furie. Insieme a loro, il fantasma di chi era morto subendo un torto si aggirava irrequieto per ottenere poiné, espiazione.
Nell’Odissea, Telemaco prega gli dei che alla rivincita di Ulisse i Proci rimangano nepoinoi, vale a dire, che alla loro uccisione non segua, da parte dei familiari, la vendetta che, di sangue all’epoca, sarebbe poi stata sostituita da un’ammenda comminata dai giudici.
È facile immaginare la tensione emotiva che si accompagnava alla celebrazione del processo tra le due parti, con la colpevole paura della condanna da una parte e l’aspettativa del risarcimento liberatorio dall’altra; tanto più che, come indicato dall’oracolo delfico, l’anima di chi era morto subendo un torto si aggirava irrequieta, irata, finché non aveva ottenuto vendetta.
Tanto è il timore di Dioniso nella scena, da fargli chiedere al suo stesso sacerdote di intervenire, il che richiama evidentemente la purificazione di quanto è enaghes, maledetto, come lo sono i fantasmi che Ulisse placa con sacrifici nell’XI canto dell’Odissea.
Lo studio comparato delle figure simboliche relative a contenuti emozionali perturbanti conduce ad un’identità di dei e demoni minacciosi che aleggiano nel sacro di ogni epoca e civiltà, mettendo a confronto la Lilith mesopotamica, o la serva di Lilu che inceppa con gli spiriti cannibali, siano i Lakuma della Terra del Fuoco o i Rimu dei Bantù.
Tutti, indistintamente, apportatori di male all’individuo e alla società, a sottrarre la presenza e rubare l’anima come sa fare un vampiro, a immagine di quello che, in termini più attuali, è un’idea prevalente che con la sua carica affettiva s’impone e predomina su ogni altro contenuto ideatorio.
La caratterizzazione di Empousa in Aristofane, ubiquitaria, pantodapè, dalle molteplici forme, ora teriomorfa, ora donna, il viso in fiamme, una gamba di bronzo e l’altra di sterco, ha permesso di introdurla nella cosiddetta “schiera di Ecate”, che vede accomunate entità demoniche quali Erinni, Eumenidi, Lamia, Arpie ed altre.
L’ipotesi più comune è che queste, in origine divinità di culti locali, nel prevalere della figura di Ecate, ne siano poi divenute epiclesi, entrando nel novero del complesso mondo dei daimonia di cui era popolato il mondo religioso greco.
A riguardo di Empousa, nel fram. 515, è Aristofane stesso ad identificarla con Ecate; in più ad accomunare le due figure è il piede di sterco, asinino, secondo Bachofen.
L’etimologia di Empousa richiama empodòn, impedimento, inceppamento. Empodizo, il verbo connesso, legare, trattenere, inceppare, naturalmente può intendersi o nel senso concreto per cui viene usato da Erodoto quando narra degli indovini che gli Sciiti legano per sacrificarli, o nel senso più astratto dei daimones empodon riportati dal papiro di Derveni.
Se l’etimologia di una parola rimanda al nucleo concettuale che in essa vuole esprimersi, è possibile ipotizzare come il pensiero dell’epoca più arcaica, concreto, povero di astrazione e capace solo di associare per analogia le cose, assimilasse alla sensazione fisica di blocco emozionale l’idea di essere legato, mentre dall’inconscio, il non pensato di Foucault, provenivano, condensati nell’immagine simbolica, i significati di tale legatura.
Alla molteplicità degli effetti da parte di forze sconosciute si connette il motivo delle metamorfosi.
Il pantodapòn di Empousa, di Melinoe che si mostra in immagini strane, delle Erinni dalle mutevoli forme, non è diverso da quello di Lilith, di Dracula o di qualsivoglia entità vampiresca di ogni tempo. Incorporei, a tratti invisibili, passano da ogni dove e colpiscono in modo imprevedibile, nella forma teriomorfa che riporta alla coercitività dell’istinto, quando, libido non coscientizzata, emerge dal magma caotico di quel mondo interno la cui immagine migliore è offerta da Eschilo: «Cavi abissi ove s’affollano zanne».
Se l’Empousa di Aristofane, terrorizzante, è l’immagine simbolica in cui assume forma la congerie dei moti d’animo negativi, tormentanti, connessi all’efferatezza di un delitto, quella di Philostrato si mostra in un aspetto che, se all’apparenza è meno pauroso, rappresenta tuttavia un altro tipo di pericolosità.
Nell’Apollonio di Tyana, il giovane Menippo è irretito da una figura femminile dal tratto sirenico, Seiro, svio. «Pur avendo abbracciato la filosofia, purtuttavia era dominato da Eros», dice Philostrato.
Incantato come Ulisse da Circe, berrà da lei un vino quale non ha mai gustato e cederà all’incanto della seduzione col pericolo di rimaner preso nei lacci di un amore idealizzato, funesto e snervante come quello di Saffo: «Ti scorgo, un attimo, e non ho più voce […] cola sudore, un tremito mi preda».
Sarà Apollonio a svelare il piano diabolico della donna. La chiama vampiro, e la definisce «una di quelle Empouse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce», che intrappolano coloro che vogliono divorare. Nella seduzione, secondo Carotenuto, il soggetto rinuncia alla propria soggettività per divenire un oggetto fantasmatico di fronte all’immagine che gli è davanti e che, nella proiezione di anima, incarna l’altra faccia, ombra, della propria personalità.
Questo esser portati fuori rotta, questo inganno che è per Novalis essenziale per la nostra anima, può essere al contempo un’occasione per integrare quelle parti di sé fin lì sconosciute, a patto però di non cedere solo all’abbandono del “naufragar m’è dolce in questo mare” che tanto seduce Menippo.
Spetta all’Io cogliere la proiezione, distinguere e dirigere in modo consapevole le forze che premono nell’animo.
La libido, coscientizzata e mediata, può essere occasione di un arricchimento consapevole della personalità, così che l’idea di dinamicità ch’era già insita nel radicale indoeuropeo Kev, possa svilupparsi nei due opposti di forza positiva come nell’ouranico di Kyrios, Kuros, sovrano e guerriero, e non trarre in basso, nel mondo ctonio del Kuatos, baratro.
«L’affettività – dice il Manuale di psichiatria di Giberti Rossi – potrebbe essere definita come il colorito soggettivo della vita psichica, cioè la risonanza piacevole o spiacevole che fatti esterni, modificazioni biologiche o pensieri suscitano nell’animo».
Affettività a tonalità negativa o positiva, dunque, che se non mediata incatena e imprigiona l’individuo, come fa l’Empousa, nel pathos di uno stato d’animo agitato, inafferrabile, che s’aggira dovunque inarrestabile come quegli dei che, citando Jung, «non esistono più, ma i loro effetti continuano».
Alberto Massarelli, psichiatra e psicoanalista, vive e lavora a Perugia. Socio del CIPA, Centro Italiano di Psicologia Analitica sede di Roma e dell’IAAP, International Association of Analitical Psicology, la formazione junghiana lo ha condotto ad interessarsi delle testimonianze del Pensiero arcaico simbolico e mitopoietico.