Privacy Policy Gramsci, Mussolini e gli «zingari della politica»
Giovanni Pizza Vol. 9, n. 2 (2017) Conoscenza

Gramsci, Mussolini e gli «zingari della politica»

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Volontarismo e masse sociali. In tutta una serie di quistioni, sia di ricostruzione della storia passata, sia di analisi storico-politica del presente, non si tiene conto di questo elemento; che occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è evidente che per volontari non si deve intendere l’élite quando essa è espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o indifferente per essa). Questo elemento ha importanza specialmente per l’Italia: 1) per l’apoliticismo e la passività tradizionali nelle grandi masse popolari che hanno come reazione naturale una relativa facilità al «reclutamento di volontari»; 2) per la costituzione sociale italiana, uno dei cui elementi è la malsana quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e piccoli, da cui si formano molti intellettuali irrequieti e quindi facili «volontari» per ogni iniziativa anche la più bizzarra, che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra); 3) la massa di salariati rurali e di lumpenproletariat, che pittorescamente in Italia è chiamata la classe dei «morti di fame». Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono sempre stati di «volontari», in un certo senso di spostati, e mai o quasi mai di blocchi sociali omogenei. Un’eccezione è stata la destra storica cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul così detto Partito d’Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di «massa» successivi, che non furono tali in realtà (cioè non ordinarono gruppi omogenei sociali) ma furono attendamenti zingareschi e nomadi della politica. Si può trovare una sola analisi di tal genere (ma imprecisa e gelatinosa, da un punto di vista solo «statistico-sociologico») nel volume di Roberto Michels su Borghesia e proletariato. La posizione del Gottlieb  [Amadeo Bordiga] fu appunto simile a quella del Partito d’Azione, cioè zingaresca e nomade: l’interesse sindacale era molto superficiale e di origine polemica, non sistematico, non organico e conseguente, non di ricerca di omogeneità sociale, ma paternalistico e formalistico (Q 1623-1624).

ritratto di Antonio Gramsci
1 Antonio Gramsci

 

La citazione sopra riportata è tratta dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (Gramsci 1977: 1623-1624) [2], Quaderno 13 (1932-1933), § 29. Il brano è una seconda stesura di quanto scritto al Quaderno 9, § 142, (1932, Q 1202-1203). Gramsci usa la metafora «attendamenti zingareschi e nomadi della politica» per criticare le posizioni frammentarie, fluttuanti e disomogenee, dei partiti tradizionali nel quadro di un’analisi critica del volontarismo contenuta nelle sue Noterelle sul Machiavelli, con riferimenti al Risorgimento italiano. Si sottolinea l’importanza dell’organizzazione del movimento politico e si esprime una radicale critica del volontarismo. Si tratta di una riscrittura meditata. Non abbiamo spazio qui per esaminare le differenze tra le varie versioni del testo sopra citato, ma riportiamo come al Quaderno 3, § 46 (1930), Gramsci avesse già usato la metafora zingaresca parlando di «bande zingaresche e nomadismo politico» in questa chiave:

I concetti di rivoluzionario e di internazionalista, nel senso moderno della parola, sono correlativi al concetto preciso di Stato e di classe: scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe (comprensione dello Stato esiste non solo quando lo si difende, ma anche quando lo si attacca per rovesciarlo), quindi scarsa efficienza dei partiti ecc. Bande zingaresche, nomadismo politico non sono fatti pericolosi e così non erano pericolosi il sovversivismo e l’internazionalismo italiano (Q 326).[3]

Il passo citato dai Quaderni è fra quelli più rilevanti nella valutazione complessiva dell’uso da parte di Gramsci della metafora zingara. Il sostantivo «zingaro», e l’aggettivo «zingaresco», appaiono sporadicamente nelle diverse epoche della complessa prosa gramsciana [4], e assumono un diverso significato a seconda dei contesti. Emerge come Gramsci agganci talora la metafora zingara per la popolarità della sua antica connessione figurale con il nomadismo e per connotare, rifiutandole, proposizioni sociopolitiche lontane da una necessaria e rigorosa disciplina organizzativa. È da valutare in questo quadro anche la critica al movimento francese artistico, letterario e politico della bohème, che in Gramsci, analogamente alla sua decostruzione del «lazzaronismo» napoletano, assume accenti più articolati e meno generalizzanti del concetto marxiano-engelsiano di lumpenproletariat [5]. In questa lettura, la metafora di Gramsci implica una pionieristica presa di distanza da un «pensiero nomade» (Deleuze-Guattari 1980) [6], ancora di là da venire, ma già presente allora nelle forme «volontaristiche» dell’insorgenza politica anarchica, fatte proprie retoricamente anche dal primo fascismo (Gentile 2012). Tra i vari luoghi in cui la metafora nomade appare negli scritti precarcerari, intendiamo scegliere qui una “comunicazione di servizio” del settembre 1926 (poco meno di due mesi prima di essere arrestato illegittimamente dalla polizia fascista), spedita alla redazione clandestina milanese del quotidiano da lui fondato due anni prima, “l’Unità”, nella quale, accompagnando l’invio di un errata corrige, esprime un duro rimprovero per i gravi refusi nella pubblicazione di un articolo da lui dettato al telefono da Roma;
Soffermiamoci, quale breve esempio di contestualizzazione, sulla metafora «zingari della politica» usata da Gramsci il 18 settembre del 1926 nella “comunicazione di servizio”, molto risentita e caratterizzata da un tono di duro rimprovero nei confronti  della redazione milanese dell’“Unità”, colpevole della pubblicazione di un suo articolo in prima pagina non revisionato e con troppi gravi refusi:

Questo non è giornalismo rivoluzionario: è irresponsabilità, avventurierismo da zingari della politica (Gramsci 1992: 448; cfr. Detti 1975).

Esaminando la frase in questione in un suo recente saggio sull’uso gramsciano della lingua nelle lettere precarcerarie, lo studioso di linguistica italiana Luigi Matt ha osservato:

L’ultimo esempio mette in evidenza la distanza che separa i tempi di Gramsci dai nostri giorni, riguardo a certi usi linguistici: sarebbe impensabile oggi, per un politico di sinistra, utilizzare il termine zingari con valore negativo, in violazione delle norme del “politicamente corretto” (Matt 2008: 809).

Condividendo la considerazione di Matt, si può forse aggiungere che quella distanza tra passato e presente negli usi della lingua è stata spesso colmata, attraversata, superata da Gramsci stesso: la sua capacità di sperimentazione linguistica è nota (d’Orsi 2006; Durante – Voza 2006), e in più occasioni fuoriesce dal suo tempo e vive nel contemporaneo, con la stessa potenza con la quale la sua scrittura riusciva a superare le mura della cella di Turi (Selenu 2008). Stiamo, infatti, parlando di un lucidissimo sperimentatore di parole, un “glottologo” accademicamente “mancato”, ma proprio per questo ancora più attento alla funzione politico-pragmatica degli enunciati, a fare cose anche con le parole producendo, nello spazio pubblico a lui coevo, un «proliferare di metafore stranianti di forte impatto critico» (Paladini Musitelli 2006: 140; Carlucci 2013: 72-78). Per situare la metafora gramsciana, dunque, occorre esplorare maggiormente il contesto storico coevo a Gramsci, per individuare elementi che favoriscano un’analisi di quella espressione più attenta alla contestualizzazione nel campo comunicativo del tempo. A ricostruire in maniera definitivamente documentata la polemica innescata dalla lettera gramsciana, affiancandola alla tematica affrontata nel suo articolo, è stato lo storico Tommaso Detti (Detti 1975). Con lo studio di Detti si comprende bene che l’obiettivo di Gramsci nel suo articolo per “l’Unità” era avanzare e diffondere gli elementi di un’analisi sulla politica estera del fascismo che influenzava anche la stampa organica alla dittatura, in particolare quando si trattava di riferire notizie relative all’Unione Sovietica. Questo stretto collegamento tematico tra la lettera gramsciana del 1926 contenente la metafora «zingari  della politica» e il fascismo appare rilevante,  per un motivo che a uno sguardo antropologico-storico non può sfuggire: sei anni prima, nel 1920, la medesima espressione «zingari  della politica italiana» era stata utilizzata, come figura retorica pregiudizialmente positiva e idealizzata, da un ex socialista appassionato: Benito Mussolini. Come è noto, Mussolini era stato direttore dell’“Avanti!” dal 1912, per due anni. Espulso dal Partito socialista italiano per avere repentinamente mutato posizione a favore dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, aveva fondato nel 1914, nella città di Milano, prima un suo personale quotidiano:“Il Popolo d’Italia”, e poi, cinque anni dopo, il 23 marzo 1919, il movimento dei “fasci italiani di combattimento”. Coevo di Gramsci e più anziano di lui di otto anni, il 5 settembre nel 1920, il trentasettenne Mussolini teneva un discorso a Cremona, presso il politeama “Verdi”, in un importante convegno dei fasci italiani di combattimento a un anno e mezzo dalla loro fondazione. Il suo comizio concludeva la serie apertasi con gli interventi di Roberto Farinacci e altri sodali. Così in quel comizio Mussolini rappresentava retoricamente l’identità del movimento fascista:

Il nostro programma? Siamo una minoranza e non ci teniamo ad essere molti. Alla quantità bruta preferiamo la quantità eccellente. Un milione di pecore – lo ricordino i nostri avversari che se ne intendono – sarà sempre disperso dal ruggito di un leone. (Applausi). Noi non competiamo con essi in vendite di marchette e di tessere. Siamo una formazione di combattimento e siamo anche gli zingari della politica italiana. Zingari, perché abbiamo una lunga via da percorrere, e, pur avendo una mèta, essa non è dogmatica; zingari, perché nel nostro accampamento vi è posto per tutte le fedi, perché abbiamo un fondo comune di amore per la nazione. (Mussolini 1954: 153).

ritratto di Benito Mussolini
2 Benito Mussolini

 

Riassumendo: nei primi anni Venti del Novecento, a un anno dalla fondazione dei fasci e due anni prima della presa del potere in Italia, il fascismo adottava una retorica «zingaresca» per affermarsi in maniera decisamente incisiva sul piano comunicativo e valorizzare nello spazio pubblico nazionale e internazionale una propria caratteristica “fluttuante” e “nomade”, di movimento e non di partito. La lettera gramsciana contenente la metafora «zingari della politica» è del 18 settembre 1926.  Un mese e mezzo dopo, l’8 novembre del 1926, avviene l’arresto di Gramsci, effettuato dalla polizia fascista a dispetto della sua immunità parlamentare, come leader del campo comunista e unico capogruppo parlamentare di opposizione ancora resistente nel parlamento italiano postaventiniano, ormai fascistizzato, totalitarizzato e terrorizzato dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti avvenuto nel 1924, anno di fondazione del quotidiano, clandestino “l’Unità”. Anche fermandoci qui con la ricostruzione del contesto, in tale quadro è difficile immaginare che Gramsci non fosse esposto all’uso “positivo” che dello stereotipo “zingaro” i fascisti andavano facendo per bocca di Mussolini.  Se tale congettura non è infondata, allora ci troviamo di fronte a un parler tsigane che, oltre all’effetto di riproposizione di uno stereotipo antico e di lunga durata, trova efficacia sul piano comunicativo pubblico e nella costruzione del senso comune di un momento politico nella storia d’Italia molto complesso, certo suscettibile di una più rigorosa indagine antropologico-storica. Sottoponendo il contesto storico a un simile tentativo di lettura situata, è immaginabile che nell’uso gramsciano della metafora «zingari  della politica» potesse figurare l’allusione alle forme dell’identità politica sbandierata, almeno nella fase primitiva, nella retorica pubblica degli avversari fascisti [7]. In definitiva intorno al rifiuto gramsciano o all’idealizzazione mussoliniana della metafora zingara si giocavano, per così dire, due opposte prospettive: la prima, rivoluzionaria, democratica e comunista; la seconda, terroristica e totalitaria, cioè fascista.
Oggetto di numerosissime e consolidate esegesi pluridisciplinari, storiche e contemporaneiste, anche nel caso della metafora ziganologica, Gramsci si offre a una lettura che impone una metodologia critica di contestualizzazione tra passato e presente. In ragione dei diversi slittamenti crono-logici e crono-topici, l’avvertenza al lettore è necessaria: non bisogna considerare la sequenza di riferimenti gramsciani come una scorporazione di frasi isolate e sottratte alla «ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero, più importante delle singole citazioni staccate» (Q 419) [8], quanto come rinnovata occasione per avvicinarsi o tornare alla lettura diretta dell’opera gramsciana, frammentaria e perciò stesso dialogica (Gerratana 1997: XIV-XV), ai fini di un’immediata e più ampia contestualizzazione del suo lessico (Frosini-Liguori 2004; Liguori-Voza 2009). Resta evidente che le metafore ziganologiche, qui esaminate brevemente, assumono una potente intenzionalità politica, sia negativa che positiva. Ancora una volta accade, nella storia europea, che gli zingari si rivelino «buoni da pensare simbolicamente» per i non zingari (Piasere 1999, 2006, 2016; Trumpener 1992). Nell’uso gramsciano delle metafore «zingaresche» emerge il nesso stereotipo con il «nomadismo politico» [9]: un’espressione da esaminare nell’ambiente storico del tempo, ma anche in quello a noi contemporaneo, che vede oggi il recupero della categoria, sia nell’accezione negativa di “transumanza politica”, prodotta dal riformismo istituzionale e burocratico-amministrativo europeo ed extraeuropeo, volto a fronteggiare legislativamente i trasformismi nazionali (Poirer-Kyelem 2012; Ikechukwu 2015), sia come capovolgimento dello stereotipo in una prospettiva filosofico-politica nomadologica e rizomatica (Deleuze – Guattari 1980), ispirata da uno specifico filone della letteratura antropologica (Ciavolella 2015). In questa luce attuale, si potrebbe dire, ancorché anacronisticamente, che nella sua critica al capitalismo Gramsci intendesse rifiutare nettamente fin da allora l’assunzione valorizzante del «potenziale politico del nomadismo», considerato in grado di produrre la sovversione «neo-barbarica» dell’«impero» (Hardt – Negri 2000: 448, 214). È quindi da considerare il rifiuto gramsciano di quel «fascino politico dello zingaro» (Todesco 2004: 117) inteso come pregiudizio positivo (Piasere 2015), insito nelle figurazioni che esaltano il «nomadismo» nel pensiero “alter-politico” attuale, di ascendenza anarchica (Lenco 2012).

 

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[1] Il presente contributo costituisce la versione ridotta di un lavoro più ampio in corso di stampa. Pur essendo l’unico responsabile, ringrazio Leonardo Piasere, per avermi invitato a scrivere su questo argomento fornendomi alcune preziose indicazioni, e Guido Liguori, per avere letto il testo commentandolo con utili consigli.

[2] D’ora in poi si riferisce a questa edizione  dei Quaderni del carcere la lettera Q in corsivo seguita dal numero di pagina.

[3] Al § 18 del Quaderno 14 (1932-1935), intitolato Machiavelli. Volontarismo e garibaldinismo, Gramsci, nel quadro di una critica al volontarismo, sviluppa una riflessione sul Risorgimento parlando di «dominio zingaresco» dei blocchi sociali coinvolti come avanguardia. Interessante che in questo caso appaia una connessione con «La bohème parigina del romanticismo» (Q 1675-1676). Nel Quaderno precedente, il 17 (1931-1935), al § 28 (intitolato Risorgimento italiano), Gramsci aveva usato usa la metafora di «bande zingaresche fluttuanti e incerte» a proposito delle forme indeterminate dell’azione politica risorgimentale (Q 1932).

[4] Non esaminiamo qui le occorrenze della metafora negli scritti precarcerari e nelle Lettere dal carcere. Sulla complessità politica delle metafore icastiche gramsciane, cfr. Durante – Voza 2006.

[5] I riferimenti gramsciani alla bohème nei Quaderni e nei precedenti scritti gramsciani sono pertinenti anche perché il termine bohémiens ha per secoli indicato in Francia gli zingari (de Vaux de Foletier 1981). La «leggenda» del “lazzaronismo” napoletano è evocata e criticata da Gramsci in Q 47, 70, 2022, 2122, in un caso indicata anche come «mito» (Q 927). Per una rilettura della nozione marxiana di lumpenproletariat, nel senso di «proletari straccioni», come traduceva già Palmiro Togliatti il termine tedesco (Togliatti 1973: 517), cfr. tra gli altri Stallybrass 1990; Thoburn 2002; Piasere 2016. Sulla questione delle marginalità e le differenze in Gramsci cfr. Selenu 2008; Smith 2010.

[6] Il capitolo Traité de nomadologie: la machine de guerre (Deleuze – Guattari 1980: 434) si apre col disegno di un antico “carro nomade”: «Char nomade entièrement de bois, Altaï, Ve-IVe siècles av J.C.».

[7] Come sottolineava Leonardo Paggi nel 1970, nella prosa gramsciana accade spesso che egli «assuma polemicamente il linguaggio dei suoi stessi avversari, caricandolo di significati allusivi che è possibile precisare solo tenendo presente la trama generale del pensiero» (Paggi 1970: XIII-XIV).

[8] Qui Gramsci dà indicazioni per accostarsi allo studio dei testi di Marx ed Engels. Diversi autori hanno visto in queste indicazioni elementi di metodo da adattare all’esegesi degli stessi scritti gramsciani (cfr. Frosini – Liguori, 2004).

[9] Un ulteriore approfondimento potrebbe essere svolto tenendo conto del “nesso” che il concetto di «nomadismo politico» ha con la complessa nozione di «trasformismo» esplorata più volte nelle analisi gramsciane (cfr. Cavalluzzi 2009).

 

Giovanni Pizza insegna Antropologia medica e culturale nell’Università di Perugia dove dirige la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici (Castiglione del Lago).

 

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