Mŷthos in Omero sta per «parola, discorso» ma anche «progetto, macchinazione»; in età classica il significato del termine si precisò in «racconto intorno a dèi, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà» (Platone, Repubblica 392a) e nel pensiero filosofico mŷthos, in quanto discorso che non richiede o prevede dimostrazione, fu contrapposto a lógos nel senso di argomentazione che la richiede. La parola moderna che ne deriva, mito, ha un campo di applicazioni così ampio, e così diverse sono le accezioni che ne derivano che una definizione univoca del concetto è improponibile. Nel generale ripensamento dei problemi del sacro che con ritmo crescente e a partire dall’Ottocento caratterizza le discipline umanistiche, il mito è considerato o come una narrazione e struttura religiosa fondamentale, o come fondamento delle istituzioni culturali, o, come forma mentis distinta dal pensiero dialettico razionalizzante. Il mito, nonostante gli approfondimenti e le ricerche operati nei vari ambiti disciplinari, sembra sfuggire ad ogni presa che cerchi di rivelarne il significato. Esso rimane uno dei fenomeni meno comprensibili nella storia delle culture umane, e questo fa supporre che sia stato collocato dagli studiosi in un ambito ed in uno schema viziato alla radice che ne impedisce la reale interpretazione. Problematica, questa, che per essere risolta non potrà fare a meno di confrontarsi a tutto campo con i materiali mitologici o supposti tali.
Da questo punto di vista di particolare rilevanza è l’opera curata da Giulio Guidorizzi, Il Mito Greco, vol. I, Gli Dèi (Arnoldo Mondadori Editore 2009). L’Autore è Professore ordinario di Teatro e Drammaturgia dell’Antichità all’Università di Torino, condirettore della rivista di “Studi italiani di Filologia Classica” e dirige il “Centro Studi per il teatro classico” dell’Università di Torino. È autore di numerose pubblicazioni, cito – solo a titolo di esempio – le traduzioni commentate della Biblioteca di Apollodoro (1995) dei Miti di Igino (2001) e di una pregevole opera dedicata alla scuola, Il mondo letterario greco (2004).
Guidorizzi ha raccolto circa quattrocento testimonianze (nella maggior parte tutti testi già tradotti ed editi, tranne ventinove di cui ha curato la traduzione per questo volume di oltre millecinquecento pagine). L’opera si presenta già per questo fatto come una importante ed utile novità, proprio per il suo intento sistematico che, pur limitato al mondo greco, mi auguro sia di stimolo ad altri per avere finalmente un corpus completo o almeno quantitativamente rappresentativo per poter affrontare la problematica di fondo sopra accennata. Sino ad ora gli studiosi del mito greco avevano a disposizione pochissime opere: le traduzioni del volume di Robert Graves (I Miti Greci, Longanesi 1963), dell’opera del Kerény (Gli Dèi e gli Eroi della Grecia, 2 voll., Garzanti 1976 e 1978) e lo splendido lavoro di Luigia Achillea Stella, Mitologia Greca per la “Collana Mitologica” diretta da Raffaele Pettazzoni (UTET, 1956), e finalmente il volume curato da Giulio Guidorizzi che, avvalendosi della collaborazione di Silvia Romani (a cui si devono i Percorsi Bibliografici) e Marzia Mortarino (che ha curato l’Indice dei Nomi Mitologici), ha recuperato testimonianze dimenticate o di difficile reperibilità, coordinandole in una struttura chiara con note esplicative ed essenziali rimandi bibliografici.
Nella sua densa Introduzione (pp. XI- LXV) all’opera Guidorizzi nota giustamente che ciò che si definisce come «mitologia greca, del resto non è un insieme coerente, ma una selva di racconti sovrapposti, nati in luoghi e momenti diversi (…). È un organismo vivente che continua a riprodursi (…). In realtà, non esiste una vera e propria mitologia dei Greci se non nella sistemazione relativamente tardiva di mitografi ed eruditi…» (pp. XIV-XV). Ora, questo non vale solo per i Greci ma si ritrova, con sviluppi diversi, in tante altre culture e evidenzia quanto ho detto a proposito del vizio di fondo che ruota attorno alla parola “mito” e cioè il fatto che, in primo luogo, occorre storicizzarne il contenuto alla storia culturale occidentale che ha “inventato” ed usato il termine prima per investire parti del suo patrimonio riorganizzandone la memoria e poi, dimenticandosi o facendo finta di dimenticarsi di questo, ha tradotto ciò che le sembrava simile nelle culture “altre” che man mano ampliavano il suo concetto di cultura umana. Già Mircea Eliade aveva notato che «Lo si voglia o no, ogni tentativo di interpretazione del mito greco, almeno all’interno di una cultura di tipo occidentale, è, poco o molto, condizionato dalla critica dei razionalisti greci (…) questa critica è stata soltanto raramente diretta contro quello che si potrebbe chiamare il ‘pensiero mitico’ oppure il comportamento che ne deriva. Le critiche prendevano di mira soprattutto le azioni degli dèi come erano raccontate da Omero o da Esiodo. Ci si potrebbe domandare che cosa un Senofane avrebbe pensato del mito cosmogonico polinesiano (…). La stessa critica è stata ripresa e portata avanti più tardi dagli apologisti cristiani [e aggiungerei io è arrivata sino a noi attraverso il dibattito scientifico dell’Ottocento e Novecento]» (Mito e Realtà, Rusconi 1974, p.169). Se è vero che il “mito” oggi può essere definito come un «racconto tradizionale» (p. XV), rimane sempre da individuare quali siano gli elementi che differenziano quel racconto tradizionale che noi chiamiamo mito dagli altri «racconti tradizionali»; che so, la fiaba, la favola o la leggenda. In questo senso, uno degli elementi è giustamente individuato dal Guidorizzi nel «tempo delle origini» in cui si collocano i fatti narrati dal mito che è di “natura completamente differente da quello con cui siamo abituati a rapportarci, un «Tempo delle origini» (p. XVI), ma sinceramente non riesco a seguire l’A., quando, poche righe sotto definisce questo «tempo delle origini» come: «un tempo primario, dilatato, un indefinito spazio-tempo pieno di anfratti, segreti, sospensioni, in cui gli dèi e gli antenati operavano insieme». Quello che caratterizza il concetto paradossale di «tempo delle origini» è proprio il suo essere qualitativamente diverso da qualunque tempo inteso come inizio e durata, per questo ciò che è accaduto nel tempo del mito può essere riattualizzato e di nuovo presente e questa è la sostanziale differenza fra la diacronia della narrazione mitica e quella della narrazione storica. Se è vero che Mircea Eliade ha conosciuto sia l’opera sia la persona di Jung, è a mio parere azzardata l’affermazione che Eliade «utilizzava i concetti della psicoanalisi junghiana» (p.XVII); Eliade ha abbondantemente chiarito nella sua opera la differenza fra la concezione psicologica junghiana degli archetipi dall’idea di archetipo che ha utilizzato nella sua ricerca storico religiosa. Queste brevi note non tolgono nulla al valore dell’opera curata dal Guidorizzi che ci auguriamo sia presto seguita dal secondo volume così che si possa finalmente avere uno strumento adeguato per lo studio del mito greco.