G. Baronti, Margini di sicurezza. L’ideologia folclorica della morte in Umbria, Morlacchi Editore, Perugia, 2016. Tre tomi, Vo. 13 della Collana Itaca. Itinerari di Antropologia Culturale, diretta da Cristina Papa, 1299 pp.
Ma tu vò sapè si come se muria prima
e come se more adè?… Tale e quale!
Giuseppina C., nata nel 1907, casalinga (Foligno, 10.6.1993).
[G. Baronti, Margini di sicurezza, cit., p. 38]
«Le cose si svolgono, in verità, come se cultura e società emergessero tra gli esseri viventi come due risposte complementari al problema della morte: la società per impedire all’animale di sapere che è mortale; la cultura, come reazione dell’uomo alla consapevolezza di esserlo» [Claude Lévi-Strauss, Parole date. Le lezioni al Collège de France e all’École pratique des hautes études (1951-1982), Einaudi, Torino, 1992, p. 22].
È questo l’esergo di Claude Lévi-Strauss, pronunciato in una delle sue ultime lezioni al Collège de France, che Giancarlo Baronti ha scelto di apporre alla sua ponderosa opera in tre volumi dal titolo Margini di sicurezza. L’ideologia folclorica della morte in Umbria [Morlacchi Editore, Perugia, 2016].
La scelta di Baronti è motivata non solo dall’omaggio indiscusso offerto al grande etnologo francese, scomparso a centouno anni nel 2009. Ma anche dall’evidenza interpretativa che il testo lévistraussiano evoca: la morte è un tema umano dominante, con il quale prima o poi l’antropologia deve fare i conti, nei suoi plurali percorsi di studio sulle forme di vita sociale e culturale.
Riecheggia in questa consapevolezza di Baronti, il tema che lo storico Carlo Ginzburg affrontò in chiusura del suo pregevole studio sui sostrati sciamanici della stregoneria, sull’estasi e il mito del “volo notturno”. Storia notturna in chiusura, elaborava una peculiare definizione della morte e della sua esperienza culturale: «Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera del visibile e a quella dell’invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana. Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti, ma la matrice di tutti i racconti possibili» [Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino, 1989, p. 289].
Nell’imponente opera di Baronti la morte, antropologicamente interpretata, si costituisce certamente come “matrice di tutti i racconti possibili”, non solo per la grande ricchezza e varietà delle narrazioni raccolte e interpretate dallo studioso nei tre volumi della sua opera, ma in quanto l’evento di morte si qualifica quale fonte narrativa primaria, origine del racconto, atta a motivare culturalmente azioni e rappresentazioni sociali, scelte e adesioni a paradigmi culturali storicamente stratificati.
Ma cosa vuol dire interpretare «antropologicamente» la morte?
Per rispondere a questo interrogativo occorre in primo luogo chiarire che l’antropologia è una scienza sociale che studia in chiave comparativa le differenze culturali e che quindi ha come suo obiettivo ineludibile una lettura critica del senso comune e dei simboli condivisi; in secondo luogo, che in tale prospettiva antropologica la morte cessa di essere l’evento puntiforme, quel momento finale che la biologia vede come unico e irreversibile (sposandosi qui con un razionalismo ideologico, la cui radice illuministica rimane dubbia e quanto meno contraddittoria), per divenire un evento di passaggio verso altre forme di vita socioculturale: la memoria o la dimenticanza, la nozione di persona diffusa, il rapporto tra esseri umani e animali, la presenza assente del fantasma, le pratiche, le credenze e la fede nella comunicazione vivi-morti, congiunzione così intensa nelle immagini popolari del purgatorio, della cabala, del sogno, del lutto e del lotto, come momenti di dialogo fra discendenti e antenati.
Il dialogo antropologico è un principio ordinatore e un operatore simbolico di momenti strutturali che hanno a che fare con le differenti organizzazioni della vita sociale, inclusa la parentela e la residenza, la discendenza, l’eredità del patrimonio e le strategie di matrimonio, fino alla scelta dei nomi stessi dei propri figli e alla declinazione individuale e collettiva del ciclo della vita. Un immaginario e un sistema di pratiche vastissimo definisce la lettura antropologica della morte e corrisponde a un’ideologia popolare la cui subalternità si qualifica come momento culturale che pure fiorisce all’ombra delle dominanti classificazioni di questa forma elementare dell’evento umano.
Con il potente lavoro di Baronti è la prima volta che una così ampia silloge di saperi e pratiche di cultura popolare sono assunti quali tratti di una specifica «ideologia folclorica della morte» in un contesto regionale dell’Italia centrale: l’Umbria.
La Regione Umbria costituisce in effetti un terreno di grande ricchezza storico-tradizionale, per il quale disponiamo, a partire dal 1956, di un’enorme documentazione inedita – per lo più consegnata a importanti lavori di tesi di laurea – avviata nel 1956 da Tullio Seppilli, che proprio in quell’anno fondò l’Istituto di etnologia e di antropologia culturale e lo diresse fino all’anno 2000, lasciandoci in quelle tesi, pensate come momenti di approfondimento di più ampie ricerche comparate sulla cultura popolare umbra (e non solo), una documentazione di grande rilievo. Tale documentazione è proseguita fino a oggi grazie al lavoro di Giancarlo Baronti che, da studioso di Storia delle tradizioni popolari, ha provveduto ad aggiornare nel tempo anche gli strumenti di raccolta dei dati antropologici, quali temari e questionari specifici, atti a delineare una vera e propria «ideologica folclorica» della morte, come di molti altri argomenti culturalmente rilevanti.
Una notazione: l’aggettivo «folclorica» è volutamente scritto da Baronti con la “c” (folclorica) e non con la “k” (folklorica), come più spesso accade, per evocare, agli occhi del lettore, la legittimazione del termine e del campo di studi, lasciataci in eredità da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere [Einaudi, Torino, 1975, 4 volumi]. Era una fase storico politica, quella della pubblicazione dei Quaderni (dal 1948 al 1951) che in Italia influenzò, come è noto, l’antropologia culturale e il suo metodo. Una fase che seguiva la seconda guerra mondiale, e che vide una nuova attenzione alla cultura delle classi popolari che, per dirla con Ernesto de Martino, “irrompevano” nella storia come «mondo popolare subalterno».
Baronti attualizza questi studi, li rende a noi contemporanei. La sua opera ha in questo senso un titolo emblematico: Margini di sicurezza. Si tratta di una scelta felice e non casuale. D’altronde la familiarità di Baronti, studioso di antropologia, con le tematiche marxiane, gramsciane e foucaltiane è nota. Ora, questo titolo esprime, alla mia lettura, l’effetto di una scelta precisa e attuale: interpretare alla luce del momento contemporaneo, sia evenemenziale che teorico-metodologico, le grandi suggestioni che provengono dai saperi e dalle pratiche di cultura popolare rilevate sul campo nella Regione Umbria.
Cosa sono i “margini” e la “sicurezza” oggi? Secondo lo storico italianista David Forgacs [Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2014] i margini non sono luoghi realmente estranei e lontani, ma piuttosto immagini di confine allontanate e straniate da uno sguardo classificatorio dominante, che è in primis quello dello Stato-Nazione nel suo processo di formazione. Ora se ciò è più evidente per le forme culturali attinte dall’antropologia nel Sud d’Italia – come nell’opera fondativa di Ernesto de Martino Morte e pianto rituale nel mondo antico [Einaudi, Torino, 1958] – analogamente tale marginalità emerge anche dal centro dell’Italia, l’Umbria.
Si tratta dunque di una dimensione di marginalità che esclude la questione dei confini territoriali, e piuttosto investe il problema dei confini simbolici di un certo modo di produzione intellettuale, uno statuto cognitivo e simbolico di specifici saperi popolari, «folclorici», appunto, connessi all’esperienza della vita, anzi “estroflessi” alla vita, per usare un lessico filosofico. Nel nostro caso connessi all’esperienza della perdita, all’indicibile esperienza umana della vita e all’ineffabile mistero della morte.
Ma la specificazione «di sicurezza» sta lì a chiarire la qualità per cosi dire politica di tale modo culturale di stare al mondo: è la vittoria sull’incertezza, sul disagio, il superamento di quella che de Martino concepiva come «crisi della presenza», o di quel lavoro culturale definito come «trionfo sulla morte» (e non “della morte”), da Alfonso Maria di Nola, altro grande storico delle religioni e antropologo italiano che ci ha lasciato due ampi volumi sul tema, il primo appunto intitolato con un passivo che invece allude a una grande capacità di agire della cultura popolare: La morte trionfata [Newton Compton, Roma, 1995].
«Margini di sicurezza», dunque, è la chiave interpretativa che – nelle forme che ho provato a sintetizzare – inquadra le grandi ricchezze culturali popolari sul tema funebre, di cui l’Umbria ha lasciato testimonianza, nella cornice contemporanea dell’incertezza e della necropolitica, cioè alla luce, talora alla oscurità, delle scelte governamentali di morte di chi controlla moltitudini di persone. Scelte che in questa drammatica e apocalittica scena mondiale attuale appaiono portatrici di una insicurezza che quei margini intende limitare, ridurre al minimo, se non dissolvere: un vero e proprio attacco contro ciò che Baronti invece salva come il «lavoro della cultura» che contraddistingue la specie umana e che costantemente emerge da ogni dato rilevato dall’antropologo inerente il tema della morte nella ideologia folclorica.
In effetti è proprio questo l’obiettivo antropologico: collocarsi al punto prossimo all’esperienza concreta di persone in carne e ossa, attingere con umiltà metodologica il sapere che emerge dalla loro vita e rispettarlo studiandolo, per poi proiettarlo in dibattiti solo apparentemente lontani da tali conoscenze “locali”. Dibattiti nazionali e internazionali che non investono soltanto i destini di una disciplina come la demoetnoantropologia, ma che riguardano tutti gli esseri umani che vivono in società. E su questo punto l’antropologia e la storia della morte si sono da sempre incontrate, alleate. Come ha scritto il grande storico Alberto Tenenti nella postfazione alla nuova edizione del suo libro Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento [Einaudi, Torino, 1957 e 1989, p. 504]:« Occorre […] sviluppare sempre più fortemente la coscienza che qualsiasi aspetto – rituale, funerario, mentale – del senso della morte fa parte della vita sociale, politico-economica e culturale concreta».
In definitiva, questi tre volumi di Baronti sono un vero e proprio antidoto contro molti mali del nostro tempo, e in sintesi lo sono contro il cinismo: un anti-sentimento che, nelle scienze sociali, talora si traveste da metodologia di freddezza oggettivante, di finta neutralità, dissimulando solo malamente la sua vera natura di indifferenza e di anti-riconoscimento, oggi rivalutata nel senso comune, nel dilagante “cattivismo” conformistico contemporaneo. Le voci restituite da Baronti al dialogo comune sono feconde. Ogni pagina di quest’opera ci insegna che occorre tornare a essere umani. Anche se essere umani ha sempre un costo. Il costo primario è proprio il modo che le società hanno (scelgono) per trattare culturalmente i defunti. I morti non sono un problema di smaltimento di rifiuti. Perciò la Shoah fu il male assoluto. I morti convocano intorno ad essi la forma più alta di lavoro culturale, quella supremamente votata alla continuità della specie. Che se ne parli o non se ne parli, essi restano come monito per l’educazione delle generazioni all’amore per l’altro, alla condivisione intersoggettiva, al permanere della speranza nella riproduzione di tempi e spazi plurali che guardino al futuro.
Nelle righe poste in calce a questo scritto, affido all’indice ricchissimo dei tre volumi la sequenza degli argomenti e l’ironia creativa dei titoli di capitoli e paragrafi che Baronti è in grado di utilizzare, svelando la natura dialogica dell’ironia, una delle poche forme espressive, forse insieme al sarcasmo e alla poesia, in grado di evocare la potenza generativa della cultura.
Ma prima di passare all’indice vorrei ricordare il grande insegnamento di antropologia della morte che ci viene da un grande maestro, Alfonso Maria di Nola. Oltre a quello dei suoi ultimi importanti lavori, sopra citati, sui quali Baronti discute, c’è un di Nola meno noto, un giovane ventenne, poeta-antropologo, che in un libro dimenticato del 1950 [Autunno del mondo, Guanda, Parma, 1950, p. 87], concludeva una sequenza di brevi componimenti poetici con il canto di una generazione perduta, la generazione della seconda guerra mondiale.
È una poesia dal titolo I morti di tutti i popoli, che ridà antropologicamente la voce a coloro che, alla rinascita del dopoguerra, erano assenti e perciò presenti, nel rapporto incessante tra visibile e invisibile, un dialogo che ancora alimenta la matrice di ogni voce possibile.
L’odio si è spento per sempre
Sogniamo gli stessi sogni,
piangiamo le stesse lacrime.
Amatevi,
che l’ombra di qui
è terribile.
Indice dell’opera:
Tomo I:
- Premesse: 1.1 Affinità elettive / 1.2 Scheletri nell’armadio / 1.3 L’antropologia della morte in Italia: pianti e rimpianti / 1.4 Ricordi di vita e di morte / 1.5 Nani (pochi) sulle spalle di giganti
- La morte domestica: 2.1 Il male comune
- Precognizioni, presagi, premonizioni, presentimenti, preannunci, previsioni, pronostici…: 3.1 Antropocentrismo / 3.2 Uccelli (e altri animali) del malaugurio: 3.2.1 Messaggero di morte / 3.2.2 Galline: scompigli tassonomici / 3.2.3 L’amico dell’uomo / 3.3 L’assidua vigilanza dei santi: 3.3.1 Sant’Orsola e tutta la compagnia / 3.3.2 La solerzia di san Pasquale / 3.3.3 La morte sta anniscosta in ne l’orloggi / 3.4 Il linguaggio dei sogni / 3.5 Combinazioni esiziali
- L’agonia come istituto culturale: 4.1 Il linguaggio delle mani / 4.2 Compagni di viaggio / 4.3 Estremi bagliori / 4.4 L’agonia come evento pubblico / 4.5 Devozioni finali / 4.6. Anche morire è un lavoro / 4.7 Duri a morire
- La casa del morto: 5.1 Donne e uomini: a ciascuno il suo / 5.2 Per chi suona la campana? / 5.3 Lavori domestici / 5.4 La finestra sull’aldilà / 5.5 La forma dell’anima / 5.6 Noi non possiamo entrare: 5.6.1 Donne e bambini / 5.6.2 Animali e uomini
- La proliferazione dei morti: 6.1 Vuoto a perdere / 6.2 Lavori culturali in corso: 6.2.1 Les laveuses / 6.2.2 Chi more secca chi resta si rinfresca / 6.2.3 L’ultima comparsa / 6.2.4 Quando l’abito deve fare il monaco / 6.2.5 Argent de poche / 6.2.6 Metafisici caselli di pedaggio / 6.2.7 Do ut des / 2.8 Bagaglio a mano
Tomo II:
- Partir bisogna: 7.1 Le scarpe: un dilemma escatologico / 7.2 La stanza del morto / 7.3 Il letto del morto / 7.4 Fermi tutti / 7.5 Chi more se sottora chi vive se ristora / 7.6 Pulvis es / 7.7 Una nottata che non passa mai
- Il funerale: trasporto e accompagno: 8.1 Il trasporto / 8.2 L’accompagno / 8.3 Il congedo / 8.4 Attenti alla croce / 8.5 Sensi unici / 8.6 Sturm und Wind / 8.7 Sit tibi terra / 8.8 Di cosa parliamo quando parliamo di pianto / 8.9 Il linguaggio del dolore / 8.10 Le conseguenze del dolore
- La decantazione della morte: 9.1 Inerzie rituali / 9.2 Sommessi motori pulsano nella notte / 9.3 la bonfinita / 9.4 La legge è uguale per tutti / 9.5 Nessun dorma! / 9.6 Divieto di circolazione
Tomo III:
- Il lutto: obblighi sociali e disposizioni individuali: 10.1 Lutti di classe: 10.1.1 Meticolose etichette e sontuosi apparati / 10.1.2 Una romantica religione della memoria / 10.1.3 La pronta, esibita e compatta mobilitazione della parentela / 10.2 Ma l lutto quela volta era proprio na cosa seria / 10.3. Fine lutto: mai
- La presenza dei morti: 11.1 Non disturbare! / 11.2 En rêve venants / 11.3 Tempi supplementari / 11.4 Arresti domiciliari / 11.5 Dimmi chi sei / 11.6 Bagno maria / 11.7 Todos caballeros / 11.8 Revenants / 11.9 Clandestini nella notte: ombre e paure / 11.10 De profundis / 11.11 Incubi e folletti / 11.12 Anime sante / 11.12.1 Appendice: testi di canti di questua
- Ritorno ai morti: ritorno dei morti: 12.1 Fiant luces / 2 Bed and breakfast / 12.3 La carità dei morti: 12.3.1 Appendice: testi popolari del Dies irae / 12.4 L’eredità dei morti / 12.5 Le fave dei morti: 12.5.1 Cibo dei santi e cibo dei morti / 12.5.2 Cibo dei morti, cibo dei vivi
- Bibliografia
- Dossier di ricerca
Giovanni Pizza insegna Antropologia medica e culturale nell’Università di Perugia dove dirige la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici (Castiglione del Lago).