Tre sono i regni per tutte le civiltà antiche: quello dei vivi, quello dei morti e quello, più elevato ed eccelso, degli dei. Sono tre regni nettamente distinti e di difficile comunicazione tra di loro, anche se interrelate sono le sorti dei loro membri. In particolare, i viventi sentono di dover molta parte del loro destino e del loro vissuto agli dei. Da loro, credono, ricevono protezione oppure disagi, nella difficoltà di ingraziarseli o di comunicare loro le proprie ragioni.
Con il regno dell’Oltretomba il rapporto è ancora più conflittuale. I morti sono considerati in genere depositari di una sapienza superiore, ma non hanno la capacità di condividerla con i viventi, proprio perché tra i due regni esistono barriere difficilmente sormontabili. Tra i tre regni, infatti, ci sono esseri mostruosi, creature ibride che ne marcano i confini. Sono esseri che combinano tratti animali e umani. Le Sirene, per esempio, sono donne-uccello, le sfingi leonesse con testa di donna, e una parte considerevole ricopre invece il grifo, un incrocio tra leone e aquila, un mostro che si frappone fra gli dei e gli uomini.
Quella del grifo è una combinazione piuttosto facile da concepire in un mondo mitopoietico come quello antico: se si vuole creare un ibrido dotato di potenza sovrumana, si combina l’animale di terra più potente, il leone, con quello più potente tra i volatili, l’aquila appunto[1].
Il leone è il predatore più aggressivo (in particolare le femmine), ma è anche l’animale più adeguato alla difesa del suo gruppo. Per antonomasia, riesce a difendere il proprio branco e a marcare nettamente il territorio su cui domina e per questo in molte società e culture orientali rappresentò il potere regale. L’aquila, invece, è il volatile più potente non solo grazie alla vista e agli artigli, ma soprattutto per la sua capacità di volare in alto, di raggiungere le vette più estreme. Entrambi sono stati in varie occasioni scelti come simbolo di regalità, e in particolare l’aquila nel mondo greco fu attributo di Zeus, il re degli uomini e degli dei.
La combinazione di alcune caratteristiche di particolari animali (la forza, la capacità di volare, l’astuzia, per esempio) non può che creare un essere superiore agli umani e allo stesso tempo fornire l’immagine del mostro, proprio per le sue qualità aberranti. A differenza delle metamorfosi, l’ibrido consiste nell’innesto di una natura in un’altra, anche se le lascia entrambe visibili e riconoscibili: per questa ragione è frequente come motivo di decorazione, oltre che elemento e protagonista dei miti. Ha, infatti, una grande carica simbolica perché riesce a evocare paure e timori ancestrali, facendo rilevare la potenza ineguagliabile che deriva dalla somma di forme di potere ed eccellenza. Si tratta di un simbolo di facile decodifica.
Per queste ragioni, in quasi tutte le culture antiche, il grifo è diffuso e usuale e padroneggia nell’iconografia e anche nel mito, al punto che si cerca ancora oggi di definire quale sia stato il suo punto di origine e di propagazione. Inoltre le differenze che occorrono tra i grifi delle varie epoche e delle diverse civiltà hanno fatto pensare a un’evoluzione darwiniana di questo mostro, un’evoluzione che segnerebbe anche un percorso lineare, da Oriente, fino ad arrivare ai grifoni che campeggiano negli stemmi di molte città medievali in Italia, anche se in questa linea evolutiva si registrano numerosi inciampi, passi indietro, recuperi, salti, che delineano un quadro complesso.
Segnare una linea evolutiva coerente ha il vantaggio di creare una continuità tra le epoche e i popoli e soprattutto rassicura l’idea che questa immagine, muovendo dall’Oriente, avrebbe trovato una rielaborazione nuova e originale nei popoli mediterranei, fino ad arrivare a una concettualizzazione del tutto nuova in Grecia e poi a Roma. Si è pensato che il grifo, nato in Mesopotamia verso il IV millennio a.C., abbia raggiunto l’Anatolia per poi trasferirsi in Egitto e a Creta e da lì migrare poi in Grecia e infine a Roma. Il primo esempio, infatti, sembra provenire da Susa e si tratterebbe di un sigillo con ali, testa e zampe anteriori d’uccello, criniera e corpo di leone.
Partendo, invece, dalla constatazione che l’aquila e il leone costituiscono i simboli dell’eccellenza animale nei due regni di aria e di terra, la loro combinazione dovette essere intuita e immaginata presso vari popoli senza supporre una dipendenza tra loro o una mutuazione. È un’intuizione archetipica, che ricorre autonomamente in varie occasioni e in varie civiltà. Inoltre, quello che noi identifichiamo con il grifo nelle diverse culture e nelle diverse epoche mostra caratteristiche, nomi e funzioni differenti, associa, infatti, talvolta il falco, non l’aquila, si mostra in qualche caso privo di ali, con o senza boccoli che scendono dalla testa, con o senza orecchie equine. Del resto, proseguendo sulla linearità ereditaria ed evolutiva, si potrebbe addirittura, per paradosso, cercare una linea comune che lega al grifo il dio azteco Quetzalcoaltl, il serpente piumato, che contiene la dualità dell’uccello (cielo) e del serpente (terra), oppure immaginare che ci sia una continuità tra gli angeli, annunciatori dotati di ali, e la Nike, anch’essa figura dotata di ali, oltre a Eros, nella mitologia greca. Ovvio che l’ibrido nasce dal desiderio dell’uomo di creare immagini potenti che contengano simbolicamente alcune caratteristiche e doti funzionali. Le ali sono l’attributo necessario per chi annuncia o funge da intermediario tra uomini e divinità, le zampe rappresentano la capacità di ghermire la preda e difendersi.
Nelle società antiche, anche quelle come la greca e la romana che non avevano contatto diretto con i leoni, ma che se ne servivano abbondantemente come simbolo di forza e di potere, si arrivò naturalmente alla creazione di un’immagine simile che costituisse l’archetipo del dominio incontrastato e della forza mostruosa.
È possibile, pertanto, ricostruire non una linea evolutiva continua, ma una serie articolata di genesi, considerando anche il fatto che questi ibridi felino/uccello sono molto frequenti e diversi, anche se, per convenzione, si parla in ogni caso di “grifi”. Il nome usuale sembra sia greco e legato a grypòs che significa “adunco”, “ricurvo”, forse da connettere al becco e agli artigli che lo rendevano per certi versi aggressivo e invulnerabile[2], anche se il nome che il grifo prendeva nelle diverse culture e ambiti religiosi era ben differente. Per esempio, in Egitto l’ibrido si compone di un falcone (che simboleggia la regalità) e la radice sfr/srf è da connettere forse a un serpentiforme, come l’ebraico seraph[3].
Il mondo assiro, verso la metà del II millennio a.C., produce una serie nutrita di grifi, distinguendo però il grifo-demone (con lunga cresta dentellata e corpo umano) che custodisce l’albero della vita, dal grifo dal corpo leonino, che sfida gli uomini in lotta e con il quale non è facile riconciliarsi. Il grifo, in questa fase, rappresenta le forze ostili della natura, le tempeste, i demoni malefici che incarnano ancestrali paure degli uomini.
Quasi contemporaneamente a Creta, nella sala del trono di Cnosso (1450 a.C.), il grifo compare in una forma nuova e per nulla aggressiva. Ha la testa di aquila e una criniera di boccoli che pendono da essa, corpo felino ma, soprattutto, manca di ali. La serie di grifi che doveva seguire tutta la zoccolatura della stanza non sembra emergere da un quadro di incubi, né incutere terrore al visitatore.
Il grifo di Megiddo (Israele) risalente al XIII sec. a.C. condivide con quello di Cnosso la posizione della testa d’aquila rivolta verso l’alto, ma è alato. Di epoca successiva è invece il grifo detto dello stile fenicio proveniente dal palazzo di Nimrud. È spesso in posizione rampante mentre cerca di nutrirsi dall’albero della vita: ha testa di falco e due riccioli laterali.
In Egitto il grifo compare come demone benefico: ha testa di falco ed è dotato un coltello, è rappresentato mentre taglia la testa al serpente del male.
Per ritornare in Grecia, è un esemplare insolito una pisside del XII sec. a.C., micenea, conservata al Museo di Eretria, in cui sono raffigurati due grifi che imbeccano i loro piccoli in un nido: è evidente come in questo caso fosse avvertita maggiormente la loro appartenenza al regno dei volatili.
Nella Grecia arcaica e classica il grifo compare con caratteristiche più simili a quelle hittite: ha orecchie equine, bocca aperta e una protuberanza sulla testa. È molto diffuso come protome dei calderoni.
Da Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, proviene un sostegno di mensa (trapezophóros), databile alla seconda metà del IV sec. a.C. , in cui sono rappresentati due grifi che stanno dilaniando un cerbiatto: hanno grandi ali policrome testa di aquila che poggia però su un collo serpentiforme.
Queste immagini costituiscono una parte minima tra le numerosissime fonti iconografiche che ci ha restituito l’archeologia. Complesse e diverse sono le tipologie, e vari e articolati gli usi di questo simbolo. Rimane però il fatto che il mondo greco è più ricco di testimonianze letterarie che ci forniscono dati importanti sulla condizione e la storia di questi mostri.
Le fonti greche ricostruiscono anche le sembianze del mostro, ma soprattutto cercano di ubicarlo e di raccontare i rapporti che intrattiene con quella parte di umanità con cui si relaziona. Una delle più antiche testimonianze al riguardo è Eschilo che nel Prometeo incatenato fa dire al protagonista, mentre dialoga con Ino (802-17): «Guardati dai cani non latranti di Zeus, i Grifi dal becco aguzzo, e dalla turba monocola degli Arimaspi a cavallo, che abitano presso la corrente intrisa d’oro del fiume Plutone». I commenti antichi ci dicono che questo fiume scorre in Etiopia e quindi Eschilo sembra situare i grifi ai margini meridionali del mondo. I grifi, dal becco aguzzo, sono sempre in lotta con gli Arimaspi, questo mitico popolo monocolo di cavalieri, che abitano presso un fiume ricco d’oro. Questa testimonianza del V sec. a.C. connette i grifi all’oro e agli Arimaspi, e non è l’unica.
Secondo la tradizione, il primo a parlare dei grifi ai Greci sarebbe stato un certo Aristea, che avrebbe viaggiato presso gli Sciti per rientrare in patria, carico di esperienza e conoscenze nuove e fama da sciamano[4].
Lo storico greco Erodoto (4. 13) afferma che Aristea di Proconneso, aveva raccontato in un suo poema di essere giunto presso gli Issedoni, posseduto da Febo, e che di là dagli Issedoni abitavano gli Arismapi, uomini che avrebbero avuto un occhio solo; e di là dagli Arimaspi ci sarebbero stati i grifoni custodi dell’oro; di là dei grifoni gli Iperborei, fino al mare.
In un altro passo, Erodoto (3. 116), con maggiore precisione, li colloca verso il settentrione dell’Europa, dove ci sarebbe stato oro in gran quantità. Racconta che gli Arimaspi, uomini con un occhio solo, cercavano di strapparlo ai grifoni. Consapevole di riportare una testimonianza indiretta, Erodoto dubita che questa versione dei grifoni e degli Arimaspi abbia un fondamento: secondo lui questo deriverebbe dalla tendenza tutta umana di proiettare nelle estremità del mondo, che circondano le altre terre e le racchiudono, «le cose che noi consideriamo più belle e più rare».
Una delle prime testimonianze nell’arte figurativa greca di un grifo attaccato da un Arimaspo, vestito alla maniera scita, risale alla metà del VI sec. a.C. e si tratta di una coppa attica a figure nere (Angers, Musée Pincé 1006). E proprio dal Nord-Est, cioè dalla Russia meridionale, proviene uno specchio in bronzo (ora conservato a San Pietroburgo) in cui sono raffigurati due uomini che lottano con un grifo[5]. È evidente come l’associazione del grifo con l’oro di Apollo e con l’Oriente sia originata dai resoconti del viaggio di Aristea che aveva viaggiato proprio tra gli Sciti, nel Caucaso, e come il grifo cretese non abbia legami evidenti con quello rappresentato nella Grecia arcaica e classica. È possibile che la memoria del grifo cretese si fosse persa e che fosse quindi recuperata un’altra tipologia.
Ctesia di Cnido, medico greco vissuto alla corte persiana nel V-IV sec. a.C., nei suoi Indikà (fr. 45, 26) parla dell’oro rinvenibile in molte e grandi montagne dell’India dove abiterebbero i grifi, uccelli a quattro zampe, grandi quanto i lupi, con zampe e artigli che assomigliano a quelli di un leone; avrebbero le piume del petto rosse, mentre quelle del resto del corpo sarebbero nere. Sarebbero dei custodi dell’oro nelle montagne.
Nel mondo romano, invece, Plinio colloca in un caso (Storia naturale 7. 10) i grifi e i monocoli Arimaspi nella terra degli Sciti, a Nord, non lontano da dove sorge l’aquilone, un posto ai margini non a caso chiamato «catenaccio della terra», mentre in un altro li immagina in Etiopia (Storia naturale 10. 136) come mostri forniti di becco adunco e di orecchie[6].
Eliano (II-III d.C.) nell’opera Sugli animali (4. 28) fornisce un quadro più dettagliato. Innanzitutto situa il grifo in India e lo descrive come un quadrupede munito di artigli simili a quelli del leone, fornito di ali bianche e con le penne del dorso nere, mentre sarebbero rosse quelle della parte anteriore del corpo; la testa d’aquila e gli occhi fiammeggianti. Anche Eliano connette i grifi all’oro e li colloca in una regione desertica, dove è possibile sottrarre, scavando, grandi quantità del prezioso metallo solo nelle notti senza luna, dopo aver ingannato i grifi. Il suo contemporaneo, Filostrato (Vita di Apollonio di Tiana, 3. 48), ribadisce che i grifi scavano l’oro, ricavandolo da rocce nelle quali è incastonato, e lo estraggono col becco. Vivrebbero in India, venerati perché consacrati al Sole, per questa ragione gli artisti indi rappresentano il carro del Sole aggiogato a quattro grifi, somiglianti a leoni alati. Filostrato aggiunge che i grifi, tra tutti i volatili, sono i più lenti e possono compiere solo voli brevi.
Di là dalle opposte collocazioni, nella tradizione si concorda sul legame con l’oro e con le divinità solari (soprattutto Apollo) e sulla loro disposizione ai margini del mondo civile e abitato, secondo uno schema che delinea una perfetta geografia. Infatti, gli storici antichi descrivono un mondo che ha al centro i popoli civili che si affacciano sul mediterraneo, tra cui i Greci. Subito ai margini di questo nucleo evoluto ci sono altre forme di civiltà inferiori, i cosiddetti barbari che gradualmente si allontanano dall’uomo civilizzato assumendo caratteri mostruosi: rientrano in questo caso, per i Greci, i Ciclopi e gli Arimaspi, concordemente descritti come monocoli. La loro inferiorità culturale si esprime, quindi, in segni esteriori e visibili della difformità fisica. Questi popoli, che vivono ai confini del mondo, sono paradossalmente a contatto con gli dei, e per questo prima di loro esiste un margine di protezione rappresentato dagli esseri mostruosi che difendono il limite invalicabile.
I grifi, in questo senso, sono i custodi dell’oro di Apollo, come le Sirene difendono la conoscenza del futuro, che hanno i morti, e sono anche a difesa del limite invalicabile dal regno dei morti a quello dei vivi. Ed è proprio perché erano immaginati come mostri periferici, al limite dove può arrivare l’uomo, che spesso i Greci collocavano protomi di grifi sui bordi dei calderoni, a dimostrare come essi fossero protezione dei margini esterni e salvaguardia di quello che dentro era contenuto.
In epoca più tarda, il grifo sarà associato a Nemesi. Nonno di Panopoli (48. 382 ss.) dice che «intorno a Nemesi presso il trono, vola un uccello vendicatore (alastor) un grifo alato, si slancia con le quattro zampe ed è messaggero della dea, preannuncia il suo arrivo». Ancora una volta, il grifo ha a che fare con la solarità. Nemesi, infatti, come sostiene Macrobio (Saturnali, 1. 22. 1), invocata contro la superbia, non è altro che il potere del sole che «ha la proprietà di oscurare e sottrarre alla vista gli oggetti splendenti e di illuminare e offrire alla vista ciò che è oscuro».
In epoca medievale il grifo tornerà, per la chiara intuibilità di commistione di due nature diverse, come simbolo del Cristo. Isidoro di Siviglia[7], infatti, afferma che Cristo è un leone perché re e potente, ma è aquila perché torna al cielo. La commistione delle due nature è segno della superiorità dell’essere. Non più mostro, il grifo è alleato dell’uomo, suo benefattore. Così Dante Alighieri nel Purgatorio (29. 106-114) descriverà un carro trionfale, simbolo forse della Chiesa, trainato da un grifone che aveva le parti di uccello d’oro, mentre le rimanenti bianche: le prime rappresentavano la natura divina, le altre quella umana di Cristo, inoltre erano maculate di rosso a simboleggiarne la passione. Ancora una volta torna il legame col divino e con la solarità, ancora una volta il grifo è connesso all’oro e all’eternità che esso rappresenta, ancora una volta il grifo dichiara i suoi poteri eccezionali, sovrumani, divini.
Nel mondo medievale, inoltre, campeggerà su alcuni stemmi cittadini, ma il grifo di Perugia poco ha a che fare con quello degli Etruschi. A torto, è stato considerato il grifo dello stemma come derivante dalla statua che insieme al leone campeggiava sulla fontana di Arnolfo di Cambio[8]. Le tipologie dei due grifi, infatti, sono diverse: nel caso della statua bronzea esso ha corpo di leone, testa di aquila e orecchie equine, nel caso dello stemma esso è per tre quarti aquila e per il resto (le zampe posteriori e la coda) è leone. Gli artigli anteriori, infatti, sono di volatile, non sono zampe di leone. Una differenza, questa, sostanziale che difficilmente potrebbe essere spiegata come libera ispirazione alla statua alla quale i perugini erano molto affezionati. I grifi antichi erano nella maggior parte dei casi raffigurati con quattro zampe feline, in epoca medievale si diffuse un grifo con la parte anteriore di volatile. Ciò si evince proprio dalle diffuse immagini come quella di un codice perugino del 1279, o dallo stemma di Narni, di Genova o di Alessandria, che presentano un grifo molto simile a quello di Perugia.
[1] A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Milano 20102, pp. 191-193, vede per esempio nel teriomorfismo degli eroi un segno della loro superiorità.
[2] Ci sono comunque altre ipotesi: dalla radice grabh che si trova anche nel tedesco, che significa “afferrare”, oppure dall’ebraico kerub, sfingi alate a loro volta derivate dal motivo dei grifi a guardia dell’albero della vita, frequenti sui sigilli siriaci e mitannici del secondo millennio a.C.
[3] N. Wyatt, “Grasping the Griffin: Identifying and Characterizing the Griffin in Egyptian and West Semitic Tradition”, Journal of Ancient Egyptian Interconnections 1, 2009, pp. 29–39.
[4] Aristea di Proconneso sarebbe vissuto intorno al VII sec. a.C., cf. J.D.P. Bolton, Aristeas of Proconnesus, Oxford 1962, p. 7.
[5] J. Boardman, Archeologia della nostalgia. Come i greci reinventarono il loro passato, Milano 2004, pp. 131-137.
[6] Pegasos equino capite volucres et grypas aurita aduncitate rostri fabulos reor, illos in Scythia, hos in Aethiopia».
[7] Etym. 12. 2: «Christus est leo pro regno et fortitudine… aquila propter quoid post resurrectionem ad astra remeavit».
[8] G. Caputo, “La tradizione etrusca del grifo e l’emblema di Perugia”, Studi Etruschi 29, 1961, p. 421.
Donato Loscalzo, docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università di Perugia, si è interessato di lirica greca e in particolare di Pindaro (La Nemea settima di Pindaro, Viterbo 2000; La parola inestinguibile. Studi sull’epinicio pindarico, Roma-Pisa 2003), di teatro greco (Il pubblico a teatro nella Grecia antica, Roma 2008) e della commedia di Aristofane (Aristofane e la coscienza felice, Alessandria 2010). Sta curando una raccolta di fonti letterarie sulla democrazia ateniese di V e IV sec. a.C. per la Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori).