Un libro per contestare la «narrazione idilliaca sul lavoro agile» e svelarne «le insidie palesi o nascoste». Contro lo smart working, questo il titolo del pamphlet, sta incontrando un vasto successo e aprendo un dibattito a più livelli. A firmarlo per Laterza è Savino Balzano, laureato in Scienze Politiche a Perugia, sindacalista e saggista da tempo impegnato sul fronte del diritto al lavoro.
Balzano, la sua critica parte già dalla definizione, ritenuta essa stessa fuorviante. Perché secondo lei questo tipo di lavoro non è “smart”?
«Viviamo in una società che fatica a interrogarsi, a mettere in discussione mantra imposti da una narrazione ossessiva e unidirezionale. Questa è una dinamica purtroppo comune a molti aspetti della nostra vita: non fa eccezione il mondo del lavoro e il lavoro agile è stato il focus della fase corrente. Bisogna riconoscere che il lavoro da remoto ha costituito una risorsa importante nella parentesi in atto, riducendo le occasioni di contagio, ma i media (e non solo) sono andati molto oltre: il lavoro agile è stato dipinto come soluzione al problema sanitario, ambientale, come soluzione al problema annoso del traffico (se solo lo avesse saputo Dante, il protagonista di Johnny Stecchino!), persino a quello della solitudine degli animali domestici, della disoccupazione al Sud e dello spopolamento dei borghi fantasma. Qualche intellettualoide di sinistrucola, ciò che purtroppo resta della sinistra in Italia, ha persino proposto il lavoro agile come soluzione al problema del caro affitti: questo è il massimo della vivacità rivendicativa di cui sono capaci. Siamo alla farsa più totale e certi temi non possono essere trattati con una tale superficialità: riguardano la vita delle persone».
Il lavoro agile, per i suoi teorici, permetterebbe di organizzare la propria vita a piacimento, evitando traffico, cartellino, agende rigide, stress. Punti di forza non indifferenti. Come li contesta?
«Il traffico lo eviti di sicuro, così come il rischio di fare incidenti con l’auto mentre ti rechi a lavoro. Ma a questo punto non comprendo perché essere tanto poco ambiziosi: dobbiamo sottolineare anche come stando in casa non prendi freddo ed eviti il raffreddore, come pure in primavera i pollini che affliggono tanti italiani allergici. Pensare di evitare alla persona il problema del traffico chiudendola in casa a mio avviso è demenziale: credo si debba investire in buona mobilità alternativa. Per il resto, invece, contesto eccome: non è vero che lo smart working è libertà, prima di tutto. Ci raccontano di lavoratori liberi di lavorare da ogni luogo (mare, montagna, crociera, piscina, persino dal Duomo di Milano) ma sono sciocchezze con le quali la stampa ci ingozza come fossimo oche da foie gras: le vacanze estive sono trascorse da un po’, ma domando ai lettori quanti smart worker abbiano incontrato sulle spiagge italiane, quante facendo trekking, quante alle Maldive. Sono tutte fesserie: la gente è costretta in casa, sola e controllata fino al minimo dettaglio. Il lavoro aumenta, ti insegue in ogni angolo del tuo appartamento, ma non ti viene più pagato per intero perché ancorato ai c.d. obiettivi. Aumenta dunque lo stress, come pure il senso di solitudine e di subalternità, e il tutto si aggiunge ad una normativa in materia di salute e sicurezza assai meno protettiva di quella prevista per il lavoro in presenza».
Secondo alcune ricerche, lo smart working aumenterebbe la produttività. A suo avviso, anche questo punto è uno svantaggio, ricadendo sulla salute psico-fisica del lavoratore, invece di migliorarla. Perché?
«Io credo che la produttività sia importante: se l’azienda va bene i posti di lavoro sono più sicuri e in un contesto di incertezza come quello attuale è importante salvaguardare le persone. Peraltro la produttività potrebbe essere un vantaggio per gli individui: se fai in un’ora quello che prima facevi in due magari la seconda ora te la tieni libera. Il punto però è proprio questo: non assistiamo ad una tendenza di compressione del tempo lavorato e sottratto a quello “libero” (appunto definito tale). Si lavora di più, non si stacca praticamente mai ed ecco perché il tema della disconnessione è tanto presente nel dibattito divulgativo e in quello scientifico. Peraltro anche il tema della produttività andrebbe approfondito: molte delle ore lavorate in smart working non sono registrate e dunque è necessario comprendere se l’aumento di prodotto sia da ricondurre all’efficientamento o banalmente all’aumento delle ore lavorate. Poi c’è un altro aspetto: la produttività è importante, ma non può essere la priorità per il fronte sindacale (come oggi parrebbe a leggere gli accordi che le grandi organizzazioni siglano). Al centro per il sindacato deve esserci il benessere delle persone, la loro felicità, la loro dignità e la realizzazione delle migliori condizioni alla partecipazione democratica delle lavoratrici e dei lavoratori. Vorrei ricordare che Luana D’Orazio è morta perché quel maledetto macchinario era stato manomesso per aumentarne la produttività dell’8%».
Nel diritto del lavoro la realtà è difficilmente quella “che si vede”. E le norme sono puntualmente arginate, anche a causa dello squilibrio contrattuale. Prendiamo il diritto alla disconnessione: chi ha davvero la “forza” di ignorare le email di un capo invadente? Dunque lei propone lo spegnimento automatico dei dispositivi. Un’idea efficace. Potrebbe avere successo?
«Ho cercato di approfondire il tema in un saggio che sarà a breve pubblicato da politica.eu (Disconnessione: tra formalità e materialità delle regole in materia di lavoro) e nel quale cerco di argomentare che le linee da seguire devono essere necessariamente due. La prima è quella della disconnessione automatica: al raggiungimento delle ore di lavoro massime lavorabili non deve di fatto essere possibile proseguire l’attività lavorativa. L’accesso agli applicativi deve essere inibito al lavoratore, il quale proseguendo l’attività lavorativa si esporrebbe persino al rischio di procedimento disciplinare. Inoltre, deve essere introdotto un regime sanzionatorio severo, comprendente la rilevanza penale, per il datore di lavoro che provi a scavalcare il limite. Questi gli interventi più “semplici”, ma il tema, come giustamente accennava nella domanda, si pone in un contesto ben più ampio relativo alla effettività delle norme in materia di lavoro, alla loro materialità, alla loro esigibilità. Le norme in materia di lavoro oggi sono spesso solo sulla carta perché le persone sono troppo fragili, fiaccate come escono da trent’anni di precarizzazione, per pretenderne l’applicazione: è per questo che nel 2021 abbiamo contato circa mille morti sul lavoro. Tu puoi anche riconoscere al dipendente il diritto al casco di sicurezza se lavora da una impalcatura ma, se quello è precario con famiglia a carico, difficilmente contrasterà il datore di lavoro che decida di non fornirglielo. Dobbiamo aggredire la precarietà e restaurare posizioni di dignità per la comunità del lavoro nel nostro paese».
Un concetto chiave del libro è che lo smart working sarebbe un inganno: le regole che si intendono superare, come l’orario prefissato, sono in realtà un presidio a tutela del lavoratore. E se si lasciasse a tutti i lavoratori (e solo a loro) la possibilità di optare per il lavoro agile? Sarebbe un buon compromesso?
«Parto dalla coda e mi ricollego alla domanda precedente: chi è precario non è mai libero perché la sua posizione di ricattabilità ne altera l’espressione della volontà e riconosce alla controparte la possibilità di estorcerla. Per quanto riguarda l’orario i problemi sono due: il più grosso riguarda il tempo massimo di lavoro. Non è ammissibile a mio avviso il superamento del diritto alla definizione del tempo massimo di lavoro: è alla base del lavoro subordinato e scardinarlo significherebbe esporre la nostra stessa esistenza al rischio di vivere letteralmente per lavorare. Smettiamola di credere alla favoletta del merito e del lavoro ancorato agli obiettivi: questi ultimi saranno sempre individuati in modo tale da non essere mai raggiunti. Insomma, quale datore di lavoro potrà mai essere interessato a farci lavorare meno? Forse qualche mente illuminata ci potrà anche essere, ma restano mosche bianche. Il secondo punto riguarda la pre-definizione dei tempi di lavoro e di pausa durante la giornata: organizzare preventivamente il nostro tempo ci consente di goderne al meglio e se lasciamo che l’orario di lavoro si flessibilizzi al massimo, non riusciremo più a godere del nostro tempo libero. Il lavoro agile deve essere regolamentato come si deve e deve rimanere marginale (un paio di giorni a settimana)».
Quali sono i punti essenziali che una moderna normativa sul tema dovrebbe contenere?
«Guardi, ad oggi la normativa è assolutamente inadeguata e i recenti documenti sulla materia (a partire dal protocollo del settore privato) non sono soddisfacenti. Non saprei da dove cominciare: è fondamentale costruire un minimo di orario di lavoro, garantire il limite del tempo massimo di lavoro, garantire il diritto alla disconnessione, uno straccio di normativa in materia di salute e sicurezza che vada oltre il diritto all’informativa, la retribuzione del tempo straordinario (che continua ad essere prestato e non registrato), le indennità legate a particolari modalità di prestazione lavorativa (vedi il lavoro su turni), il buono pasto col quale la gente acquista beni di prima necessità e così via. Poi restano in piedi i temi classici del controllo a distanza (più rilevante ovviamente nel lavoro da remoto) e della disciplina delle mansioni (i lavoratori da remoto rischiano di diventare tasselli assolutamente intercambiabili a prescindere da tutto). Siamo lontanissimi e stiamo perdendo tempo».
Il sindacato è della partita? Come giudica la posizione delle maggiori sigle sull’argomento?
«Per carità: il sindacato in questo paese non è quasi mai della partita e non ha idea di quanto mi rammarichi doverlo dire. Io sono un sindacalista, sono immensamente fiero di esserlo e avverto la grande responsabilità derivante dal mandato che raccolgo dalle persone che rappresento, ne sento sulla pelle la rilevanza costituzionale. Sono nato e cresciuto a Cerignola, la città di Di Vittorio. Ciò non di meno devo riconoscere che il sindacato non è sul pezzo, su moltissimi di questi punti: non c’è una riflessione seria e qualificata, non si avanzano piattaforme rivendicative, non si contrastano gli abusi. Ci sono delle eccezioni, come sempre, ad esempio buoni (tutto è migliorabile) sono stati gli accordi sottoscritti nel settore del credito, ma complessivamente lo scenario è desolante: il sindacato oggi è mainstream e conformista quanto la politica, forse peggio».
Se il lavoro agile è così vantaggioso per le imprese, perché non è mai decollato prima della pandemia? E perché in molti settori ora si spinge per un ritorno all’ufficio?
«Mi verrebbe da domandare la stessa cosa agli autori che tanto si eccitano all’idea di uno smart working inteso come nuovo paradigma del lavoro: perché dal 2017 (anno di approvazione della legge in materia) all’inizio della crisi sanitaria il fenomeno non è esploso? Se è così vantaggioso, ineluttabile, perché non è impazzato prima? Semplicemente perché ora si vuole normalizzare il lavoro agile conosciuto durante questo ultimo periodo maledetto: schiavi come prima, ma chiusi dentro casa. È questo il modello che piace alle multinazionali e alle grandi imprese. Non illudetevi: persino nelle linee guida citate prima, quelle del settore privato, è scritto chiaramente che non lavori da dove ti pare, ma dal luogo ritenuto idoneo dall’azienda. Sul ritorno in ufficio auspicato dai grandi gruppi non concordo: certe evoluzioni non sono mai perfettamente lineari, esprimono una tendenza, ma essa può essere comunque caratterizzata da momentanei e parziali passi indietro. In molti casi è solo questione di tempo: i grandi gruppi sanno guardare avanti e sanno attendere e, nell’attesa, si sanno organizzare».
Perché il lavoro agile rischia, a suo dire, di compromettere principi fondamentali della Costituzione come il diritto a una giusta retribuzione e l’eguaglianza dei cittadini?
«Per diverse ragioni: molto sinteticamente provo ad indicarne alcune. Prima di tutto la nostra Costituzione individua un rapporto genetico tra lavoro e democrazia: all’articolo 1, certo, ma anche e forse soprattutto nel secondo comma dell’art. 3. Il lavoro agile, se inteso come nuovo modo di lavorare tout court, recide i rapporti che devono esistere all’interno della comunità del lavoro: tra lavoratori, tra lavoratori e rappresentanti, tra lavoratori e responsabili delle risorse umane, etc.
Non va bene: alla base di ogni dinamica collettiva v’è la solidarietà e questa può maturare solo in un contesto di vivace confronto, scambio, reciprocità. Qualcosa si può fare anche da remoto e bisogna essere “moderni”, ma non basta. A questo si aggiunga che l’indebolimento del fronte del lavoro ha ricadute in materia di capacità rivendicativa (e di contrasto dell’abuso), con ricadute assai negative in materia di salute e sicurezza (articoli 32 e 38 della Costituzione) e retributiva (art. 36 della Costituzione). Uno smart working inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa non rappresenta un disegno costituzionalmente orientato, se ne facciano una ragione gli intellettualocchi radical che infestano lo stivale».
Il suo libro riguarda più in generale anche la precarizzazione del lavoro, di cui le nuove tendenze sono un’ulteriore accelerazione. Come è stato accolto il testo nelle varie presentazioni svolte finora? Quali le maggiori perplessità/conferme riscontrate dai lettori/ascoltatori?
«Il libro sta andando molto bene e ad oggi è stato accolto con grande interesse e partecipazione. Io amo il format del pamphlet: non è la prima volta che lo adopero e non sarà l’ultima credo. Mi piace l’idea del libro militante, che combatte sul fronte della cultura: molte persone si sono unite alla lotta e mi sostengono. Non sono mancate critiche costruttive e serie: ne ho fatto tesoro e mi hanno aiutato a crescere. Certo, questo è un testo difficile: il lavoro agile ha delle esternalità positive che sono assolutamente innegabili. È vero che il traffico la mattina non lo devi più affrontare, ad esempio, e dunque in molti si soffermano su di esse: ma non si comprende come non siano mai connesse all’attività lavorativa; sono piuttosto il frutto dell’inadeguatezza di tutto ciò che vi ruota attorno. Uno che viveva a due passi dalla propria azienda e che si recava al lavoro a piedi ogni mattina fischiettando tra gli alberi non raccoglierà alcun vantaggio dallo smart working: dobbiamo pretendere che sia la politica, le istituzioni e lo Stato a risolvere i nostri problemi. Non possiamo farcene carico rinchiudendoci sine die dentro casa, sarebbe assurdo: a questo punto chiudiamo definitivamente scuole e università (diamoci alla DAD); chiudiamo cinema e teatri (c’è Netflix); chiudiamo i ristoranti (c’è Just Eat). Avete idea di quanta anidride carbonica risparmieremmo e di quanto le strade si decongestionerebbero? Oggi appaiono proposte al limite del disturbo psichiatrico: sono sicuro che qualcuno prima o poi le avanzerà e, siccome siamo in Italia, quella proposta verrà dalla sinistra pariolina (intesa come modello, presente ovunque). Il malfunzionamento delle nostre città non può essere scaricato sul cittadino, che ha diritto di vivere il proprio spazio, di occuparlo col proprio corpo, esprimendo il senso anche politico di tale occupazione. E poi c’è il coro assordante del politicamente corretto, violentissimo, che insulta: luddista, antistorico, reazionario. Te ne dicono di tutti i colori, ma poco importa, la gente capisce e sa prendere le distanze».
Giovanni Landi