Privacy Policy Due “iconemi” impressi nel paesaggio storico del Lago Trasimeno. Strumenti e riflessioni per progettare il futuro del territorio
Ermanno Gambini Alimentazione Vol. 6, n. 1 (2014) Ecologia

Due “iconemi” impressi nel paesaggio storico del Lago Trasimeno. Strumenti e riflessioni per progettare il futuro del territorio

Eugenio Turri (Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura, la storia, Zanichelli, Bologna, 2003, pp. 22-23) afferma che chi progetta, amministra, pianifica, dovrebbe avere in mano le chiavi per conoscere le caratteristiche storico-geografiche del territorio in cui opera, i suoi caratteri geo-fisici e le forme storiche e antropologiche con cui l’uomo nel tempo ha cercato di trovare un equilibrio tra natura e cultura. Le modalità sempre nuove di sviluppo non dovrebbero prescindere, anzi dovrebbero far tesoro del patrimonio di saperi che ci giunge dal passato. Se ignorassimo le regole con cui l’uomo ha costruito, ha organizzato nel tempo la sua azione sul territorio, costruiremmo nel vuoto. Non c’è peggior progetto di quello che produce discrasia tra opera realizzata e palcoscenico che la accoglie, tanto più se questo progetto non riesce a coinvolgere la popolazione residente non rispettando quanto è rimasto sedimentato nel paesaggio storico, nel comune sentire, nelle tradizioni locali. Mi piace segnalare, su questa scia, due interessanti elementi del paesaggio storico del Lago Trasimeno che possono offrire spunti interessanti per rileggere alcuni brani della storia economica di questo territorio e farne tesoro. Il primo di questi “iconemi” è un albero, che oggi è ancora possibile incontrare nelle campagne intorno al lago, il gelso nelle sue varietà Morus alba e Morus nigra, noto nel gergo locale con il nome di moróne o mróne. La sua presenza è legata al mondo mezzadrile e alle metodiche tradizionali di conduzione dei terreni e di regimazione delle acque.

Pianta di gelso, Tuoro sul Trasimeno
1 Pianta di gelso sul limitare di un filare di viti. Borghetto di Tuoro sul Trasimeno, settembre 2011 (Foto E. Gambini)

 

Filari di questi alberi limitavano le strade e venivano anche piantati lungo i campi di grano o di altro cereale: tipica è la formula di “moronato a grano in piano” che troviamo nelle mappe del Catasto Perugino del 1729 e in quelle della raccolta Perusina Pedatarum del 1758. Queste ultime bellissime carte, realizzate a colori in grande scala da Domenico Cervellati, sono state recentemente restaurate e si trovano presso l’Archivio storico del Comune di Tuoro sul Trasimeno. In esse sono rappresentati, in modo molto accurato, i terreni spondali del lago, le cosiddette pedate. Le carte si riferiscono a 15 comunità (è escluso solo il territorio dell’attuale Comune di Castiglione del Lago). Nella serie Perusina Pedatarum sono indicati i proprietari dei terreni, le colture tradizionali praticate, i principali corsi d’acqua e i vocaboli di antica tradizione.
La cospicua presenza nel bacino del Trasimeno – in particolare nel territorio del Comune di Tuoro, confinante ad Ovest con il Comune di Cortona- del gelso era legata in primo luogo alla sericoltura.

Giornata del Gelso di Tuoro sul Trasimeno
2 Valle ad Est di Tuoro. “Giornata del gelso”. Benedizione delle piantine. Anno 1933. (Foto di Anselmo Gigli – Tuoro sul Trasimeno. Collezione privata di Rodolfo Coscia di Tuoro sul Trasimeno)

 

Locale allevamento bachi da seta a Tuoro
3 Tuoro sul Trasimeno, Casa del Piano, primi anni Venti del Novecento. Nel locale adibito all’allevamento dei bachi da seta si notano strutture in legno con inseriti 6 ordini di telai su cui sono adagiate delle incannicciate di canne palustri. I cannicci, a loro volta, sono coperti, probabilmente, con fogli di carta che possono essere rimossi e sostituiti per fare pulizia. Si notano, a lato dei telai, alcune donne al lavoro. In primo piano larve in accrescimento alimentate con foglie di gelso. (Foto di Anselmo Gigli – Tuoro sul Trasimeno. Collezione privata di Rodolfo Coscia di Tuoro sul Trasimeno)

 

I suoi rami venivano spogliati delle foglie che costituivano la dieta esclusiva, tra la fine di aprile e tutto il mese di maggio, delle larve del baco da seta (Bombyx mori). La pianta era poi in grado di rimettere nuovo fogliame senza subire danno alcuno dalla prima spoliazione.
Particolarmente attenta al riguardo risulta la legislazione medicea. In un documento del 27 giugno 1652 (Bando sopra la conservazione de’ gelsi, o mori, che per buon servizio di S.A.S. par necessario deva mandarsi – A.S.F., LBA, 96, 49) vediamo confermati ripetuti interventi del Governo che dal 1576 si muovono nella direzione della introduzione e tutela di questi alberi [piantati, tra l’altro, in gran copia in Valdichiana, lungo le strade pubbliche, a partire dal 1638-1644, nei territori delle comunità di Arezzo, Cortona, Montepulciano, Castiglion Fiorentino, Lucignano, Foiano, Valiano e Marciano (Rinnovazione del bando et provisione per conto de’ gelsi, o vero mori delle communità d’Arezzo , et altre, etc. – ASF, Cons. 9, 169)] per aumentare la produzione locale della seta. In esso si legge che è severamente proibito tagliare e danneggiare i gelsi e altrettanto è vietato coglierne la foglia nuova rimessa perché di gran danno alle piante giovani e adulte [vedi: Pratilli G. C., Zangheri L., La legislazione medicea sull’ambiente, II, I bandi (1621-1737), (L. Zangheri, cur.), Istituto per la documentazione giuridica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze, Leo S. Olschki, 1994, pp. 512-514, 536-537].

 

La coltura del baco da seta stimolò certamente la diffusione di questa specie arborea che troviamo ancora, con esemplari adulti di grossa mole non solo lungo le strade, ma anche come sostegno lungo i filari di viti o come terminale degli stessi, in particolare nei pressi dell’abitato di Borghetto. Nel tradizionale pergolato – ovvero nell’alberata toscana, tipica del nostro territorio di confine – erano utilizzati, come piante di appoggio per i tralci delle viti, il gelso, l’olmo e soprattutto l’acero comune (lo stucchio). L’uso nella pianura di Tuoro dei gelsi come sostegni per le viti colpì, nei primi del Novecento, lo storico antico Josef Fuchs che visitò questi luoghi nel corso delle sue indagini sulla Battaglia del Trasimeno del 217 a.C. (Fuchs J., Hannibal in Mittelitalien, “Wiener Studien”, 25, Wien, 1903, p. 142).
La coltura promiscua della vite è stata studiata in modo molto approfondito dal geografo francese Henri Desplanques, con particolare riguardo al territorio umbro, in una grande opera pubblicata a Parigi nel 1969 (Desplanques H., Campagne umbre. Contributo allo studio dei paesaggi rurali dell’Italia centrale, (trad. di A. Melelli), “Quaderni della Regione dell’Umbria”, 10, IV, Perugia, Guerra, 1975, pp. 559-626). Intorno alla A. Melelli), “Quaderni della Regione dell’Umbria”, 10, IV, Perugia, Guerra, 1975, pp. 559-626). Intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso questa metodica colturale era praticata nel nostro Paese in modo intensivo, soprattutto in Campania, nella parte settentrionale dell’Abruzzo, in Toscana, in Umbria, nelle Marche, in Emilia e in Veneto. Nella Provincia di Perugia – lo rileva sempre Desplanques- ancora nel 1955, il 98,8% della superficie vitata spettava alla coltura promiscua, il rimanente 1,2% a quella specializzata. I tralci dell’arbusto della vite venivano fatti salire ad una quota ben superiore a quella del terreno per limitare i danni dovuti agli animali e alle tardive gelate e per favorire la maturazione della coltura cerealicola seminata nella fascia di terreno compresa tra i 2 filari del pergolato. I campi stretti e allungati, limitati da fossati che seguivano quasi sempre le linee del drenaggio, proteggevano il frumento dall’eccessiva umidità.
Nelle sopra citate mappe settecentesche ricorrono le seguenti formule: “pergolato a grano in piano”, “pergolato a grano in costa”, ”pergolato e olivato a grano in piano” e “pergolato e olivato a grano in costa”.
La produzione che questo metodo garantiva era molto abbondante, ma non sempre di ottima qualità. Al Trasimeno – ricorda l’abate Bartolomeo Borghi – (vedi: Danzetta Alfani G., Vita di Bartolomeo Borghi e notizie sul Lago Trasimeno e suo circondario, Perugia, V. Bartelli, 1882, p. 58) alla fine del Settecento si raccoglievano solo uve bianche; era molto stimato il vino prodotto dalle viti piantate sui versanti dei rilievi meglio esposti; tra le varietà presenti egli menziona il “Leatico” (la Vitis vinifera L. subsp. sativa cv Aleatico è un vitigno introdotto in Italia probabilmente dai Greci. L’aleatico a bacca bianca – menzionato dal Crescenzi già nel 1495- è ancora presente in alcune zone della Toscana) e il “Canaiolo” (la Vitis vinifera L. subsp. sativa cv Canaiolo è un vitigno originario della Toscana che ha avuto una diffusione limitata e sporadica in Italia centrale).
Nella serie Perusina Pedatarum del 1758 vediamo che i pergolati sono presenti soprattutto lungo le fasce costiere con migliore esposizione (quelle settentrionali ed orientali). In prossimità delle rive essi cedono il posto al seminativo nudo (la formula ricorrente è quella di “nudo a grano in piano”), al prato da falcio, alla canapa, alle biade, ai fagioli, alle fave e all’incolto ricco di piante palustri utilizzate per vari scopi [vedi al riguardo: Cattuto C., Gambini E. & Marinelli C., Il Trasimeno. La complessa gestione di un lago laminare (con contributi di A. Batinti e O. Fillanti), Perugia, EFFE Fabrizio Fabbri Editore, 2011, pp. 17-37].
Negli anni Quaranta del secolo scorso il modello di impianto tradizionale legato alla coltura promiscua della vite è ancora ben attestato nel bacino del Trasimeno. Esso risulta concentrato in particolare nel territorio del Comune di Tuoro, nei bassi versanti collinari e nella pianura a Sud e ad Ovest del capoluogo (si veda al riguardo: la tavoletta IGM, Tuoro sul Trasimeno: F.122 – IV, S.O, della Carta d’Italia, il cui rilievo è stato compiuto nel 1942). Le proporzioni raggiunte dai pergolati sono ben leggibili nello studio di Desplanques (op. cit., p. 585, figg. IV, 5 e IV, 6). I dati relativi al bacino del Trasimeno -rilevati dal Catasto Pontificio- che egli fornisce per il 1833 confermano sostanzialmente quelli che emergono per il secolo precedente dalle mappe del Cervellati. Nel primo Novecento si assiste nel Comune di Tuoro ad un incremento di questi impianti rispetto alla prima metà dell’Ottocento: in particolare i dati relativi al 1929 e al 1951 vedono questo territorio emergere nel bacino del Trasimeno e collocarsi tra i primi cinque dell’Umbria, con percentuali di seminativi vitati rispetto agli arativi, rispettivamente, superiori all’80% e comprese tra il 70 e l’80%.
Nel corso della prima metà del secolo scorso si manifesta nel bacino del lago la tendenza a ridurre nella coltura promiscua della vite i sostegni vivi inserendo pali di legno, colonnini di pietra e poi anche di cemento, e ad incrementare le colture foraggere.
La coltura del baco da seta – in difficoltà per la concorrenza dei nuovi filati e di produzioni estere – viene abbandonata già nella prima metà degli anni Cinquanta. La crisi e la fine della mezzadria anche in questa porzione della nostra Regione coincidono con l’inizio del lento processo di meccanizzazione dell’agricoltura. Nel corso degli anni Sessanta i buoi convivono ancora con i primi trattori, poi le macchine prendono il sopravvento: le alberature presenti, divenute un ostacolo ai mezzi meccanici, vengono progressivamente estirpate; le numerose scoline poste a fianco dei pergolati singoli o al centro di quelli accoppiati, ormai dismessi, sono in parte colmate per ampliare la dimensione dei campi. Si procede di pari passo alla piantagione di nuovi vigneti specializzati a spalliera. A partire dai primi anni Ottanta la rete di canalizzazioni sopravvissuta, in grado ancora di condurre sufficientemente al lago le acque piovane, viene ulteriormente ridotta; privata di un’adeguata manutenzione, essa tende così a perdere la sua continuità e articolazione non riuscendo più ad assolvere quel ruolo, importantissimo per la salute del Trasimeno, che gli era stato affidato nei secoli precedenti. Ne consegue che oggi il bacino scolante teorico del lago è ben superiore a quello reale.
La costruzione del raccordo Perugia-A1, lungo la costa settentrionale del Trasimeno, ha creato un ulteriore ostacolo al deflusso delle acque: molto spesso, dopo forti piogge, esse ristagnano sui campi. Nel 1992, dopo prolungate precipitazioni, la rottura dell’argine sinistro del Torrente Macerone provocò l’inondazione della zona artigianale del Comune di Tuoro. Le acque rimasero intrappolate a lungo non potendo scendere verso valle perché le canalizzazioni erano interrate e insufficienti.
Questo lago laminare è il più antico che abbiamo in Italia. La sua origine risale a circa 2 milioni di anni fa. Il Trasimeno sta vivendo gli ultimi attimi (dal punto di vista geologico) della sua lunga vita. A fronte di una superficie di circa 124 kmq, attualmente la sua profondità media raggiunge solo m 3,50: il lago è ridotto ad una lama d’acqua sospesa sopra una pila enorme di sedimenti che raggiunge i 600 m di spessore. Negli ultimi millenni il rapporto tra lo specchio d’acqua, l’insediamento e le attività delle comunità umane è stato spesso difficile. Considerata la ridotta pendenza delle rive, è sufficiente che il livello salga o scenda di pochissimi metri per causare un movimento notevole della linea di costa, con le conseguenze che tutti possono immaginare. La gestione dell’ambiente lacustre è quindi molto complessa. In tempi recenti questa difficoltà si è acuita dopo l’entrata in funzione del nuovo emissario di fine Ottocento, un’opera idraulica di notevole portata, forse non adeguata alle particolari caratteristiche del Trasimeno, realizzata senza pensare ad opere di riequilibrio. L’uso scriteriato che ne fu fatto nei 25 anni successivi alla sua entrata in servizio causò gravi danni all’ambiente e all’economia peschereccia che in questo lago vantava una lunga tradizione di impianti fissi di cattura. Vinsero allora gli interessi dei proprietari terrieri frontisti a cui di fatto fu affidata la gestione dell’opera. Il lago perse in quegli anni circa 1/3 del volume delle sue acque e 10 kmq di superficie. La soglia di sfioro del nuovo emissario fu abbassata in un primo momento di 26 cm, poi di altri 79, rispetto alla quota dell’esautore tardo-medievale, posta a m 258,68 s.l.m. Sul nuovo fronte lago furono realizzati, negli anni Venti, a Passignano la fabbrica SAI e a Castiglione del Lago l’aeroporto Eleuteri, in una fascia costiera in precedenza occupata in gran parte dal lago. Successivamente lungo questa nuova linea di costa hanno trovato spazio impianti portuali, turistici e una nuova viabilità. Questa cintura di forza, legata ad una quota di sfioro molto bassa (posta attualmente a m 257,50 s.l.m.), ha impedito al Trasimeno – un lago laminare con caratteristiche ambientali molto particolari che lo espongono a critici passaggi alla fase di stagno- di poter immagazzinare acqua in abbondanza nei periodi piovosi, come avveniva in precedenza. In queste condizioni il Trasimeno ha subito una gravissima crisi di abbassamento nel quindicennio seguito al secondo dopoguerra, caratterizzato da scarse precipitazioni, raggiungendo lo stadio di palude. L’ampliamento del bacino scolante – così a lungo ritardato – è stato finalmente portato a compimento con l’adduzione al lago di 4 torrenti: la Tresa, il Rio Maggiore, il Moiano e il Maranzano. Prima della metà degli anni Sessanta, grazie a questo intervento, i livelli lacustri sono tornati in equilibrio. Purtroppo, non tenendo conto delle sue caratteristiche naturali e della sua storia idrologia recente, a partire dalla fine degli anni Ottanta, per circa un quindicennio è stata sottratta al Trasimeno una quantità enorme d’acqua per irrigare i terreni del bacino, in attesa delle condotte provenienti dal bacino della diga di Montedoglio sul Tevere, senza che si avesse una precisa cognizione dei prelievi effettivi e dei danni procurati. Il livello del lago da oltre 20 anni oscilla ben al di sotto della soglia dell’emissario; questa crisi – pur meno drammatica della precedente – è ancora lungi dall’essere risolta. Prescindendo da nuovi apporti esterni, è giunto il momento di ridare ordine alla gestione idraulica di questo territorio di cui si è perduto il controllo. Sarebbe allora utile recuperare anche quanto di buono la nostra tradizione mezzadrile ci ha lasciato in eredità ricostruendo e mantenendo efficiente, con il coinvolgimento dei privati, una rete sufficiente di canali di scolo aiutando così il lago a mantenere livelli accettabili (vedi sul tema: Cattuto, Gambini, Marinelli 2011, op. cit.).
I gelsi di grande mole, ancora presenti nelle campagne intorno al Trasimeno, sono gli ultimi testimoni di questa tradizione, fatta di buone pratiche, di minuta e sana amministrazione del territorio.
Alberto Clementi (Clementi A., La rigenerazione dei paesaggi italiani, in Il paesaggio italiano. Idee, contributi, immagini, Milano, Touring Editore, 2000, p. 216) fa presente la necessità che gli agricoltori siano chiamati, in ambiti territoriali particolarmente delicati, a diventare anche produttori di servizi per la conservazione della natura e del paesaggio. A suo avviso “[…] come giardinieri della natura dovranno essere inseriti all’interno di politiche attive di difesa del suolo e di salvaguardia degli equilibri eco sistemici da promuovere con interventi pubblici” […] “Ne è riprova quanto si sta facendo nella valle del Chianti, dove un innovativo Programma di paesaggio predisposto nell’ambito del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze consente di indirizzare le sistemazioni idraulico-agrarie rispettando i caratteri storici del paesaggio della mezzadria locale”.
L’altro “iconema” -un palazzotto trecentesco, la Casa del Capitano del Popolo di Perugia – si trova all’Isola Maggiore del Lago Trasimeno.

Lago Trasimeno, Isola Maggiore
6 Isola Maggiore del Lago Trasimeno, Via Guglielmi. In primo piano la Casa del Capitano del Popolo di Perugia, recentemente restaurata, oggi sede del “Centro di documentazione sulla storia dell’Isola Maggiore”. (Foto di Aldo Cari – Città di Castello, da Gambini, Santanicchia 2007: 43)

 

Esso offre percezioni e stimoli all’osservatore più sensibile per rileggere una pagina molto interessante della storia economica e sociale di questo territorio. Il legame molto forte che strinse l’isola e il lago alla città di Perugia nel Basso Medioevo è ben sintetizzato in questo nome che ci giunge dalla tradizione.
Come è noto, nella seconda metà del Duecento -e non solo- la ricchezza del comune si basava essenzialmente su due elementi: le rendite cerealicole del territorio del Chiugi Perugino (che corrisponde a quello dell’attuale Comune di Castiglione del Lago) e quelle provenienti dagli appalti della pesca nel Trasimeno. Questo concetto è ben sintetizzato nella Fontana Maggiore di Perugia (1276-1278). All’esterno della vasca superiore, dal lato Sud che guarda il Palazzo del Comune e Corso Vannucci, spiccano tre sculture che fanno parte della decorazione della Fonte, opera di Nicola e Giovanni Pisano: al centro vediamo la rappresentazione femminile della città (Augusta Perusia); ai suoi fianchi, non ha caso, troviamo la Signora del Chiugi (Domina Clusii) e quella del lago (Domina Laci). La prima porta alla città un mazzo di spighe di grano, la seconda ha in grembo alcune lasche e tinche, i pesci di cui a quel tempo era più ricco il Trasimeno.

Particolare della Fontana Maggiore di Perugia: Signora del Lago
7 Fontana Maggiore di Perugia (1276-1278), particolare. La Signora del Lago offre il suo tributo di pesci alla città: tre tinche e quattro lasche. (Foto di Ermanno Gambini – Tuoro sul Trasimeno)

 

Nel Capitolo 167 dello Statuto del Comune di Perugia del 1279 (Caprioli S., Statuto del Comune di Perugia del 1279, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, “Fonti per la Storia dell’Umbria”, 22, Vol. I, Perugia, 1996, pp. 177-178) dal titolo “Qualiter procedatur super opere aqueductus Montis Paçani”, si legge che tutte le spese necessarie per le opere dell’acquedotto di Monte Pazano e della Fonte debbono essere sostenute specialmente con gli introiti, i redditi e i proventi del frutto delle acque del lago, delle pedate, dei pedaggi e delle terre di Monte Gualandro.
La pesca dei tori o tuori era a quel tempo l’attività principale dei laghigiani. Questi impianti fissi di cattura erano costituiti da grandi strutture subacquee di forma piramidale composte da mucchi di fasci di rami di quercia provenienti dai boschi circostanti, accatastati su fondali melmosi a poche centinaia di metri dalle rive sottovento rispetto ai venti da Nord-Est.
Il nome di questo cumulo di fascine deriva dalla voce latina torus, -i, che in origine aveva il significato di “rigonfiamento, sporgenza”, e nel corso del Medioevo assunse quello di “piccolo rilievo” a cui fanno riferimento molti elementi toponomastici presenti tutt’ora in Italia centro-meridionale.
In inverno i pesci (soprattutto tinche, lucci e anguille) cercavano riparo negli anfratti tra i rami e nel tiepido fango ed erano catturati in gran numero dai pescatori grazie a grandi reti da circuizione a maglie molto strette, composte di fili ritorti di canapa (l’intero ciclo produttivo legato a questa pianta erbacea avveniva in loco). Le cosiddette travencole o travincole venivano appese a palizzate di tronchi infissi nel fondale tutt’intorno al toro.
Questa tecnica si sviluppò al Trasimeno nel corso dell’Alto Medioevo per rispondere a un’esigenza pressante, introdotta dalla progressiva cristianizzazione, legata a un aumento del consumo di pesce
concentrato in particolare nel periodo quaresimale. (vedi: Gambini E., Pasquali E., I Tori. La Gran Pesca del Medioevo al Lago Trasimeno, Perugia, Guerra, 1996 e fig.).

Pesca dei "tori", Lago Trasimeno
8 La pesca dei tori nei primi decenni del Cinquecento. I pescatori, disposti in parte sulla nave e in parte sull’imbarcazione di appoggio, il navigiuolo, sono intenti a sollevare rapidamente il lembo sommerso della rete. I pesci rimangono così imprigionati all’interno di un corridoio d’acqua circolare ove è facile catturarli.

 

Di questi grandiosi impianti fissi di cattura abbiamo notizie da vari documenti perugini e pontifici; ne tratta la Thrasimeni descriptio – una lunga epistola in latino scritta nel 1457-’58 a Pandolfo Baglioni da Giannantonio de Teolis, detto Il Campano, professore allo Studium perugino, rifugiatosi al lago per sfuggire alla peste che imperversava in città- e, molto diffusamente, la Trasimenide del 1537 – opera poetica in esametri latini, composta di tre libri, scritta da un letterato umanista, Matteo dall’Isola Maggiore, arricchita da numerose e interessanti annotazioni e alcuni disegni-. Nulla emerge invece dalla tradizione orale. da numerose e interessanti annotazioni e alcuni disegni-. Nulla emerge invece dalla tradizione orale. Questa grande pesca è stata abbandonata, infatti, circa 4 secoli or sono, dopo un lento declino seguito all’aumento notevole dei livelli del lago. Fu questo un passaggio climatico che al Trasimeno prese le mosse – con un aumento sensibile delle precipitazioni medie- nel secondo decennio del Quattrocento e portò alla realizzazione, tra il 1421 e il ’22, dell’emissario voluto da Braccio da Montone, Signore di Perugia. A partire dagli inizi del Seicento di questa pesca, che aveva segnato l’economia del Trasimeno per molti secoli, non abbiamo più testimonianze nei documenti scritti e nelle raffigurazioni cartografiche.
Soprattutto a partire dalla metà del Trecento, per almeno un secolo, Perugia cercò di sfruttare al massimo le rendite del lago per rimpinguare le casse comunali esaurite da ingenti spese dovute al pagamento di truppe mercenarie e a causa di pestilenze e carestie. Le rese annue medie quasi raddoppiarono rispetto ai decenni precedenti: il picco massimo fu raggiunto nel 1404 con 13.850 fiorini d’oro. Proprio in questa fase Isola Maggiore costituì il nucleo centrale dell’economia peschereccia del Trasimeno: una parte considerevole della flotta dei barconi da carico – le cosiddette navi – utilizzata nel ciclo annuale delle attività legate alla pesca dei tori, era in suo possesso. Il Campano scrive che poco dopo la metà del Quattrocento erano presenti al Trasimeno 40 di questi barconi. Ancora ai tempi di Papa Sisto IV – lo ricorda Matteo dall’Isola – il loro numero era ridotto a 36 (12 navi – con i relativi equipaggi – appartenevano ad Isola Maggiore, 8 a Passignano e a Isola Polvese, 4 a Monte del Lago, 2 a S. Feliciano e altrettanti a Zocco).
A segnalare l’importanza del ruolo svolto dall’Isola Maggiore in questa fase storica è rimasto questo palazzotto trecentesco, legato alla città di Perugia, che spicca ancor oggi -dopo il recente restauro- con le sue eleganti bifore gotiche lungo Via Guglielmi. Esso accoglie il Centro di documentazione sulla storia dell’isola (vedi al riguardo: Gambini E., Santanicchia M., Isola Museo. Isola Maggiore del Lago Trasimeno: storia, economia e arte, Perugia, EFFE Fabrizio Fabbri Editore, 2010).
In questo piccolo lembo di terra, visitato dal santo di Assisi e, quindi, legato alla presenza dei Francescani, nacquero 5 confraternite devozionali e assistenziali e furono realizzati ben 8 edifici religiosi. La più importante confraternita -quella di S. Maria dei Disciplinati – è documentata già nella prima metà del Trecento. Essa possedeva molte proprietà sulla terraferma, frutto dei lasciti di devoti. “Intorno alla metà del Quattrocento arriveranno nell’isola opere e pittori perfettamente informati del linguaggio rinascimentale, botteghe folignati, artisti perugini, marchigiani, senesi, prova di una congiuntura economica davvero favorevole”, inserita in un arco temporale che dal sec. XII giunge sino alla fine del XVI: questa fase rappresenta per questa comunità il periodo di maggiore sviluppo anche dal punto di vista demografico (Gambini E., Santanicchia M., Isola Maggiore. Guida storico-artistica, Edizioni Associazione Turistica Pro-Loco di Isola Maggiore, 2007).
Oggi la pesca al Trasimeno è in grave crisi. Il declino del rilievo economico e sociale di questa attività prese le mosse già nel corso del secondo Ottocento quando le regole che avevano garantito un perfetto equilibrio tra sfruttamento e tutela di questo ambiente delicatissimo cominciarono ad essere disattese. Si iniziò, dopo la fine del Governo Pontificio, col chiudere un occhio sulla pesca del novellame nel periodo estivo. Il numero delle lasche diminuì sensibilmente mettendo in crisi i grandi impianti fissi di cattura. Ancora alla fine del Settecento – lo riferisce sempre il Borghi – se ne pescavano ancora nel lago ogni anno più di 500.000 libre, su un totale di oltre 1 milione di diversa specie; in una sola mezza giornata ne furono catturate, a Passignano, in un pòrto, 16.000 libre.
Dopo l’entrata in funzione del nuovo emissario, a seguito dell’abbassamento notevole dei livelli lacustri, la crisi della lasca si acuì. Le ampie fasce di bagnasciuga che circondavano il lago, ove avveniva la riproduzione di questa specie, furono rapidamente ridotte e messe a coltura. Nel 1917 la pesca alle lasche con impianti fissi fu abbandonata dall’Amministrazione del Lago e poi da tutti i concessionari. Da questo momento in poi i possidenti abbandonarono completamente il lago e le sue cure: vennero meno così gli investimenti privati che avrebbero potuto contribuire alla modernizzazione della pesca professionale sviluppando i settori della pescicoltura, della trasformazione, promozione e commercializzazione del pescato. La lasca, che era stata – insieme alla tinca – così importante nell’economia di Perugia e del suo lago, da ormai mezzo secolo è scomparsa da queste acque.
La riduzione del numero degli addetti – attualmente sono circa 50 i pescatori in attività – frena le prospettive di sviluppo del settore della pesca. Le potenzialità inespresse da questo comparto produttivo sono strettamente legate alla salute delle rive del lago ove il pesce si riproduce (questa residua fascia umida versa in uno stato di profondo degrado dovuto a 25 anni di incuria e di abbandono), al mantenimento di livelli adeguati, al ripristino e alla manutenzione dei canali di scolo delle acque piovane, quindi a quelle cure e a quelle regole scritte e tramandate oralmente che negli ultimi decenni troppo frettolosamente sono state dimenticate. In particolare le canne palustri e la vegetazione subacquea che si accumula lungo le rive al termine dell’estate, un tempo venivano tagliate e asportate dai pescatori con benefici effetti sull’ambiente; domani questi materiali potrebbero trovare nuovi utilizzi legati all’alimentazione animale e alla produzione di energia elettrica, bioetanolo, acqua calda…
I materiali archeologici rinvenuti dimostrano che la pesca era praticata al Lago Trasimeno almeno a partire dal Paleolitico superiore-Mesolitico; nel Bronzo finale era già una attività svolta a livello professionale; durante il periodo etrusco-romano si diffuse capillarmente; nell’età comunale e pontificia raggiunse il suo massimo sviluppo, di cui resta un patrimonio notevole di norme, depositato negli statuti e nelle cedole (è interessante al riguardo visitare il Museo della pesca del Lago Trasimeno a S. Feliciano).
Se non si tornerà ad investire in questo settore in tempi rapidi, nei prossimi anni la pesca professionale in questo lago diventerà sempre più un’attività marginale: si chiuderà di fatto un comparto produttivo di tradizione plurimillenaria che ancora nei primi anni Sessanta del secolo scorso dava lavoro a 500 famiglie.
Per sostenere con linfa vitale questa antica professione sarebbe necessario uscire dal vincolo della sola pesca di cattura -che certo offre un prodotto di maggiore qualità, ma è legata alle stagioni, al ciclo lunare… – aggiungendo una ulteriore produzione ittica, con impianti di pescicoltura in grado di allevare grandi quantità di pesce, della taglia giusta, a prezzi competitivi, durante tutto l’anno. Questa scelta favorirebbe certamente l’ingresso di una nuova generazione di operatori, con salari sicuri e orari di lavoro simili a quelli di un operaio. Per raggiungere questi obiettivi soggetti privati e pubblici dovranno tornare ad investire come un tempo nella pesca professionale: con una produzione ittica finalmente sufficiente e garantita sarà possibile far riferimento ad una piccola industria di trasformazione in grado di garantire una varietà di proposte per una distribuzione più ampia che giustifichi gli investimenti. L’apporto che il Centro Ittiogenico della Provincia di Perugia potrebbe offrire a questa iniziativa sarebbe certo molto importante. Oggi le specie ittiche del nostro lago si trovano raramente nei supermercati della zona ove è invece presente pesce di acqua dolce allevato all’estero. Un’esigua quantità di prodotto elaborato, idoneo al commercio e di ottima qualità, è disponibile solo a S. Feliciano.
Servono iniziative coraggiose per adeguare l’agricoltura e l’allevamento a questo territorio così delicato, in cui il comparto turistico è sempre più importante e ricco di offerte, legate strettamente ai valori di questo particolare ambiente umido e al suo caratteristico paesaggio storico che offre testimonianze culturali materiali e immateriali, di tradizione colta e popolare.
Si impongono scelte che salvino in modo durevole il Trasimeno dall’impaludamento e dal degrado ambientale, senza stravolgerne la natura: vincere questa sfida potrà dare un futuro più roseo all’economia del comprensorio ponendo basi solide per un nuovo sviluppo del settore legato alla pesca professionale.
Questo territorio deve – come in parte sta già facendo – in modo più unitario investire in progetti che facciano crescere un modello di sviluppo idoneo alle sue caratteristiche, recuperando le buone pratiche e le vocazioni del passato, senza trascurare di ampliare le conoscenze scientifiche su questo antichissimo lago che sotto il profilo geografico-fisico è poco conosciuto.

 

Ermanno Gambini, è Segretario dell’ALLI (Atlante Linguistico dei Laghi Italiani), progetto geo-linguistico con sede presso il Dipartimento di Filosofia, Linguistica e Letterature dell’Ateneo perugino. Ha indagato in particolare il territorio del Lago Trasimeno svolgendo ricerche etno-linguistiche, geografico-storiche e di archeologia pre-protostorica.

 

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