Privacy Policy La fiorita di Castelluccio – ovvero Il policromatico regno della Sibilla
Alessandro Menghini Vol. 13, n. 1 (2021) Ecologia Scienza

La fiorita di Castelluccio – ovvero Il policromatico regno della Sibilla

Uno slogan propagandistico recita che l’Italia ha un cuore verde: l’Umbria. Un cuore pulsante di vita verde come facilmente si può constatare percorrendo le colline, le pianure, i monti, le valli lussureggianti di piante. Tutto questo frutto di una posizione al centro dello stivale, con l’Appennino che la ripara dalle correnti balcaniche, dove tutto sommato caldo e freddo scontrandosi si equilibrano. La varietà delle caratteristiche orografiche e geopedologiche non è da meno nel favorire la variabilità del manto verde, dai toni ora chiari e ora cupi. Forse i prasinofobici[1] penseranno che non è una terra per loro, ma si sbagliano. Qui c’è un momento nella vita delle piante in cui anche loro possono giovarsene: è quello della “fiorita”.

Il colore (e la forma) dei fiori rappresentano un po’ l’anima o lo spirito della pianta stessa. Un plusvalore che l’uomo non percepisce con le sole facoltà cognitive, ma anche con quelle ideali, astratte e creative. Soprattutto quando le piante costituiscono popolazioni estese e numerose (un mezzo milione o giù di lì di piante per ettaro, dipende dallo spazio che ognuna occupa), i fiori producono un effetto di espansione planare a macchie colorate di forte effetto scenografico: forte è la sensazione che riceve l’osservatore nel provare quello stupor naturae che va al di là del meccanismo fisiologico nudo e crudo di dipendenza dagli organismi vegetali.

Le piante fanno di tutto per mostrarsi belle al momento della fioritura. La struttura del fiore risponde ad una funzionalità procreativa che tende al massimo del risultato. Inizialmente il fiore si protegge con un involucro (sepali > calice) finche non è sessualmente maturo. Poi “esplode” districando le “bandiere” colorate che nell’insieme costituiscono la corolla (petali). Più interni gli stami e i pistilli, i veri organi sessuali. Il colore è parte integrante del processo attrattivo e mostra il lato più “individuale”, il “carattere” della pianta. Le piante sono come primedonne che cercano di mettersi in evidenza; il fiore non è che un apparato di “foglie”, in vario modo metamorfosate, perché si svolga al meglio la riproduzione, che in ultima analisi si concretizza nella produzione di semi. Tanto più alto è il numero di ovuli fecondati, e quindi di semi formati, tanto maggiore sarà la probabilità di sopravvivenza della specie. Ciò è vero in particolar modo nelle piante annuali, in quelle cioè che hanno un ciclo vitale breve, di pochi mesi solamente, le cui chances non sono ripetibili – come avviene invece per le specie pluriennali – causa il disseccamento e la morte della pianta “genitrice”. Ciò spiega l’alto numero di individui che una specie cerca di raggiungere – più individui, più probabilità – ai fini della conservazione del proprio corredo genetico, del proprio DNA). Le “fiorite” non sono che il risultato di questo meccanismo vitale, che si manifesta con la contemporanea fioritura di tutti gli individui della specie.

I campi di oggi abbondano di verde, perché le piante di corteggio che accompagnano le specie coltivate sono quasi sparite. La lotta alle infestanti ha sminuito, quando non privato, i campi di quei colori che un tempo li rendevano vivi e “gradevoli”. Solo con l’introduzione di alcune colture che, guarda caso, hanno sempre il fine di produrre grandi quantità di semi, l’uomo ha riparato a questo furto di vivacità dei campi considerato sacrilego dai puristi dei processi agronomici naturali. Non c’è che dire, il colpo d’occhio è valutabile nelle grandi distese di colza, di girasole e di qualche pianta medicinale-industriale come il lino e altre. Si tratta sempre, però, di colture monospecifiche dovute all’opera dell’uomo e perciò classificabili come “pseudofiorite”.

Ma torniamo al cuore verde. Per godere appieno del fenomeno cromatico naturale che si ripete ogni anno, è necessario spostarsi verso la zona orientale del “cuore”. Parafrasando l’anatomia, potremmo dire verso il comparto arterioso, quello più ossigenato, all’altezza della valvola mitrale, tra l’atrio e il ventricolo. Fisicamente, cioè, in quella zona geografica dove, vuoi per il secolare decentramento, vuoi per l’ambito montano che la caratterizza, vuoi per l’idea di coltura naturale portata avanti dagli agricoltori locali nel segno della tradizione, vuoi per le specie coltivate sulla base delle caratteristiche climatiche locali, il tempo sembra essersi fermato. Mi riferisco alla zona montana di Norcia o, per meglio dire, agli altipiani carsici di Castelluccio e alle montagne che li circoscrivono: qui le pratiche agronomiche si sono fermate a decenni indietro. È qui, sui campi di lenticchia, che ogni anno si rinnovano le rinomate “fiorite”, sicuramente le più gettonate d’Italia per numero di visitatori, scatti fotografici e filmati. Il luogo è anche teatro di manifestazioni e di eventi culturali e pubblicitari che puntano sulla magia dei colori che accompagna il luogo, teatro, peraltro, di storie, leggende e credenze popolari, che si intersecano sempre con questa o quella emergenza ambientale (Grotta della Sibilla, Guerino detto il Meschino, Lago di Pilato, Via delle Fate, Battaglia del Pian Perduto, Faggio del Diavolo, ecc.).

Castelluccio

Uno dei passi per entrare via Norcia in questo contesto ambientale è la sella del MonteVentosola, appena sopra il Rifugio Perugia. La scoperta improvvisa del Pian Grande, con Castelluccio di sfondo sulla sinistra e il Monte Vettore sulla destra, non delude mai. Per raggiungere i campi coltivati bisogna attraversare 2/3 del Pian Grande. I campi, dalla forma centuriata, si trovano nella zona ai piedi di Castelluccio e si estendono sia a nord del paese nel Pian Perduto, sia verso est, per arrivare proprio ai piedi della Costa del Vettore e risalire ai bordi della provinciale, su su verso Forca di Presta. È in questi campi che, tra la fine di marzo e i primi di aprile, è stata seminata la lenticchia (ma non solo).

Tali campi sarebbero del tutto insignificanti se considerassimo solo la coltura della lenticchia. La vita vegetale, infatti, sembra esplodere con le sole specie infestanti che accompagnano la lenticchia. Esse hanno il vantaggio di avere apparati fogliari ridotti e a terra (e quindi trovano spazio per crescere insieme alla lenticchia), ma raggiungono un’altezza che supera ben quella della lenticchia. Sono esse, quindi, che si mettono prepotentemente in mostra al momento della fioritura. E la lenticchia? La lenticchia è cresciuta e ha fiorito, come tutte le piante, ma non concorre alla “fiorita” (come ritiene erroneamente molta gente). Sul piano cromatico ha fiori piccoli e bianchi (appena venati di violetto), poco appariscenti, per quanto in botanica il bianco sia considerato un colore. In più, essendo pianta annua ricadente, rimane “sommersa” dalle erbe infestanti, anch’esse annuali, che convivono con essa. Tra le infestanti, tre sono le specie densamente dominanti a mettersi in mostra. Le loro corolle si presentano vivamente colorate di giallo, rosso e blu (RYB), la triade dei colori primari nella ruota dei colori di un artista standard. Queste infestanti sono piante concorrenti, che si giovano del fatto che nelle colture non viene praticato il diserbo, né chimico né meccanico, trattamento che priverebbe l’osservatore, anche disattento, di quella stupenda esplosione di colori che è, per l’appunto, la “fiorita”. La quale, ripeto, è strettamente legata ai campi di lenticchia, anche se questa specie non vi partecipa in modo attivo, rimanendo all’ombra delle infestanti, che la proteggono dal caldo eccessivo.

Lenticchie

La coltivazione della lenticchia a Castelluccio è cominciata, probabilmente, dalla fondazione del paese o comunque fin dalla presenza dei primi abitanti stabili, quei pastori-agricoltori, che con sapienza seppero trovare un equilibrio tra produttività naturale (foraggio, fieno, legname, miele, funghi, piccoli frutti, ecc.) e produttività zootecnica e agricola, per quanto quest’ultima limitata alle poche specie coltivabili a quell’altezza e a quelle condizioni climatiche. La comunità di Castelluccio, data la posizione isolata del paese e la quota alta a cui si trova, dovette far fronte in modo autarchico alla produzione alimentare. Da cui la coltivazione di specie dalle pregiate qualità nutritive come  lenticchia, segale, cicerchia e così via.

La lenticchia, per chi non la conosce bene, scientificamente è chiamata Lens culinarisMedik. (sin. L. esculenta). Il nome generico ben le si addice per la forma dei semi (1-3 per legume), di forma semisubrotonda, biconvessa, lenticolare, simili a una piccola lente (maccheronico lenticula). Il nome specifico, invece, richiama l’uso commestibile (esculenta) o l’uso in cucina (in latino culina). Appartiene alla famiglia delle Fabacee (o Leguminose), di cui presenta i tipici caratteri morfologici. È pianta erbacea annuale, a ciclo biologico relativamente breve. Il colore predominante dei petali è il bianco. Non si conosce allo stato spontaneo e quindi si trova solo coltivata: la sua origine è ignota. Si sa che è una delle prime specie addomesticate dall’uomo. Testimonianze archeologiche ne fanno risalire l’uso come alimento a oltre 10.000 anni fa. La cultivar di Castelluccio è un prodotto a Indicazione Geografica Protetta (IGP), tipico dei piani carsici di tale zona, compreso il Pian Perduto. Ha dimensioni piuttosto ridotte e un aspetto policromo.

Poche sono le specie coltivabili sui piani carsici di Castelluccio, perché a quell’altezza il ciclo biologico della piante deve essere molto breve, stante la presenza di neve e di freddo fino a tarda primavera e l’incombente siccità estiva che si registra in estate se mancano le piogge. Se non piove, la pianta s’arrabbatta come può e si ripara sotto le piante infestanti. Sciolte le nevi, per la coltivazione della lenticchia si procede all’aratura dei campi e poi alla sua semina, ancora oggi effettuata oltre che meccanicamente, con mezzi e tecniche tradizionali, tra la fine di marzo e la prima decade di aprile, a seconda delle condizioni ambientali, anche seguendo il ciclo lunare, come una volta. Si preferiscono terreni drenanti, leggermente in pendenza, per evitare che la radice marcisca per il ristagno d’acqua. All’inizio di giugno, diciamo a un mese e mezzo circa dalla semina, le piante di lenticchia sono cresciute abbastanza e si presentano già in fioritura, ma le specie infestanti, i cui semi si trovavano già nel terreno, sono state altrettanto precoci a germinare e a crescere più di essa. È in questa prima fase di sviluppo che si registra il ruolo della onnipresente senape selvatica (Sinapisarvensis L.), infestante facilmente identificabile dalle grandi distese di colore giallo, effetto dovuto alle sue infiorescenze racemose di colore giallo. Questa specie, annuale e a ciclo più rapido della lenticchia, ha fusto eretto, con asse fiorale terminale senza foglie e ricco, invece, di fiori: carattere questo che a vista colora la coltura e maschera, ma non sommerge, la più corta lenticchia. Come atto finale del suo ciclo, i piccoli semi nero-brunastri, globosi, non più grandi di 2 mm di diametro, cadono a terra e aspettano pazienti un’altra occasione per poter germinare.

Senape

Nel frattempo, però, i semi di altre infestanti hanno germinato e altre piante sono cresciute. La germinazione delle infestanti è come una gara a cronometro: prima che una pianta arrivi al traguardo, un’altra concorrente è già “partita” e prima che arrivi questa ne sono “partite” anche altre. Insomma, è una gara contro il tempo che le infestanti disputano, nel rispetto, tuttavia, del fotoperiodo e del termoperiodo, cioè delle quantità adatte di illuminazione e di calore di cui ciascuna specie necessità per germinare, crescere, fiorire, fruttificare e disseminare. Come dire, a seconda della “potenza” che ciascuna concorrente è in grado di esprimere. La differenza con la gara a cronometro è che qui ogni pianta concorrente sfrutta la scia delle avversarie “partite” prima.

Così, la senape selvatica non è arrivata ancora del tutto al traguardo finale (disseminazione) che il papavero dei campi (Papaverrhoeas L.) è giunto già molto avanti nel suo ciclo di sviluppo: sportivamente parlando, sta arrivando al passaggio intemedio della fioritura. Si chiama pure rosolaccio, termine che deriva dal latino rosula (da rosa, mediante la forma aggettivale rosulaceus). Pianta anch’essa annuale, alta fino a un metro, ha fusto eretto ramificato con fiori terminali. I petali sono rossi, caduchi, macchiati di nero alla base. A secondo dei luoghi, fiorisce da aprile fino a metà luglio. Il papavero è più alto della rapastrella e ha le corolle assai più grandi: fiorendo tutte le piante in contemporanea, il campo di lenticchia – sempre bianchiccia e slavatina nascosta nel mezzo – subisce inevitabilmente un esplosione cromatica virante dal giallo al rosso, un rosso scarlatto, fiammante, smagliante al sole ormai cancerino dell’estate. La reazione emotiva di fronte ai grandi campi di papaveri di Castelluccio è intensa, straordinaria, istintiva, visto che oggi in altri luoghi i pochi papaveri sparuti sono relegati solo ai bordi delle colture. L’attrazione verso i campi “impapaverati” è tale e tanta che le persone non resistono a tuffarcisi dentro, anche per una semplice foto-ricordo: con buona pace della ignorata e sciatta lenticchia, che, calpestata, purtroppo è quella che ne fa le spese. E per fortuna che non si tratta di papaveri da oppio, altrimenti … addio lenticchie!

Il frutto del papavero contiene molti semi piccolissimi, che fuoriescono dai fori che si formano sotto il disco stimmatico. Basta un piccolo scuotimento da parte del vento perché essi fuoriescano dalla pianta madre, ormai bella e andata, e cadano a terra.

Ancor prima che i papaveri sfioriscano del tutto, fa la comparsa cromatica una specie partita insieme alla lenticchia, della quale ricalca perfettamente il ciclo, apparentemente facendo da “succhiaruote”. Si tratta del fiordaliso. Dapprima i fiordalisi sembrano giocare a rimpiattino con la lenticchia, ma arrivati a troneggiare con l’azzurro vivido, quasi blu, delle loro corolle, sembrano sommergerla. Raggiungendo il fiordaliso una discreta taglia e un’alta densità, si potrebbe pensare a un’ulteriore sensibile diminuzione del raccolto. Alla lenticchia, infatti, non rimane che sottostare a essi, ma è proprio da questa situazione che essa ne trae beneficio in quanto i fiordalisi la riparano dal sole e l’aiutano a trattenere l’umidità di cui ha bisogno. Il fiordaliso (Centaurea cyanus L.) è una pianta annuale, o per meglio dire dal ciclo quadrimensile. Che vuol dire? Che in quattro mesi, salvo rarissime eccezioni, nasce, cresce e muore, esattamente come la lenticchia. Il nome generico Centaurea le deriva dal centauro Chirone, un personaggio mitico dell’antichità incline a velleità mediche; rimasto ferito al piede da una freccia avvelenata, si curò con il succo estratto dai fiori di questa specie. Il nome specifico C. cyanus si rifà al colore dei fiori in quanto proveniente dal greco κύανος (= kýanos, tinta blu). Il nome volgare italiano fiordaliso, invece, deriva dal francese fleur de lys (fiore di giglio), che grazie all’aspetto regale dei fiori, in araldica è noto anche come giglio di Francia e legato alla dinastia della casa reale transalpina a partire dai Merovingi. In francese si chiama pure bleuet.

Può raggiungere un’altezza di 90 cm, più che sufficienti a mascherare il brutto aspetto che sta assumendo nel suo stadio finale la pianta della lenticchia. L’asse fiorale del fiordaliso è eretto, privo di foglie e porta i classici capolini, vale a dire infiorescenze contratte a forma di piccole teste, portanti solo fiori tubulosi, gli esterni patenti in modo che l’infiorescenza risulti più appariscente. Tutta la pianta è ricoperta da una tomentosità molle e biancastra, quasi aracnoide, utile per rallentare la traspirazione negli ambienti secchi. I fiori di fiordaliso vengono usati per preparare colliri: a norma della teoria della signatura, a ciò non è estraneo il colore azzurro vivace che richiama spesso quello delle pupille. Quanto al fiordaliso nell’icografia pittorica, spesso è collegato al risveglio primaverile della natura: basterà citare per tutti il caso di Botticelli che lo ha riprodotto nella Primavera – è tra le specie che escono dalla bocca di Clori e sul vestito di Flora– e nella Nascita di Venere, dipinto su tutta la veste diOra che si appresta a coprire Venere con un manto. Nel linguaggio dei fiori, rappresenterebbe la felicità in amore, la dolcezza e la leggerezza.

Clori

Altre specie, come ad esempio la veccia o l’erba viperina, in alcune situazioni particolari (zone umide, vicinanza agli ovili, ecc.) possono dare origine a macchie di colore blu-violastro, la prima, o celestino-azzurro, la seconda, ma di dimensioni piccole e assolutamente non paragonabili a quelle delle tre specie principali.

Se poi i colori dei campi di lenticchia non bastassero a soddisfare il “palato” esigente, vale sempre la pena recarsi nella zona all’inizio di maggio. In quel periodo la “fiorita” nei campi di lenticchia ancora non c’è, ma il visitatore, il cui spirito è più da naturalista-artista piuttosto che da turista “selfie e fuggi”, quanto a “fiorita” non rimane deluso. Basta che abbia voglia di camminare un po’ e si guardi intorno. Nella zona più bassa del Pian Grande, nella parte verso l’inghiottitoio e solcata dal Fosso dei Mergani, può ammirare, tutto natura, la “fiorita” delle giunchiglie. È come se un Grande Artista avesse steso un lenzuolo bianco e giallo, a coprire il prato non ancora completamente asciutto dalla permanenza della neve. Un mare di bianche giunchiglie (o narcisi che dir si voglia), inframezzate da isole gialle di ranuncoli, sembra avvolgere e quasi sommergere chi si avventura in mezzo al manto bianco. Qui s’avverte la “forza” intrinseca della natura: l’emozione che si prova camminando in mezzo ad una nutrita popolazione di narcisi, dura per tutta la vita. Un atto che carica di energia la mente di chi si immerge in quel mare invitante. Laddove fino a pochi giorni prima c’era la neve o l’acqua, ora una miriade di narcisi, accompagnati qua e là da macchie di bottoni d’oro che abitano le doline, espone all’aria i bianchi fiori penduli, trasformando in una tavolozza sui generis quei prati apparentemente amorfi. Ovviamente ci sono pure altre specie, come ad esempio il piccolo tulipano selvatico dai petali gialli appuntiti. O come la bistorta dalle piccole spighe rosa, che però fiorisce qualche giorno più tardi insieme a tante altre specie, ma così numerosa da costituire un’altra successiva “fiorita”.

Giunchiglie

Il visitatore può anche soffermarsi a guardare nelle vallecole della costa che dalla strada scende verso il Piano o ad addentrarsi con una facile passeggiata nella Val Canatra che si trova a sinistra, oltre Castelluccio: troverà con sua somma sorpresa la “fiorita” delle peonie spontanee, dai bellissimi fiori rosso bordò, che come uno scrigno prezioso lentamente si schiudono ai primi tepori del sole, mimando il gesto di un pugno che s’apre.

Se poi l’ipotetico visitatore è anche uno sportivo, oltre che guardare le “fiorite” dei prati, può anche arrampicarsi fino alle cime dei monti circostanti, dove potrà vedere la “fiorita” di una miriade di specie famose per la loro rarità e per la bellezza dei fiori: tra di esse troneggiano, tanto per citarne qualcuna, le viole di Eugenia (gialle e blu), poi le meravigliose genzianelle che costituiscono veri e propri pratelli di un vivido colore blu, tra le rocce il papavero alpino (dalla clamide non più rossa, ma giallognola) e le mitiche stelle alpine, bianchicce e tomentose per ripararsi dal freddo. Ma non vi azzardate a coglierle: è proibitissimo e … salatissimo!

Peonia selvatica
Genzianella acaule

In ultima analisi, possiamo dire che la “fiorita” o le “fiorite” di Castelluccio, non sono solo un’accozzaglia di colori, ma il risultato di un meccanismo sincronizzato che investe i cicli biologici di tantissime specie naturali o infestanti che si affiancano, in questo caso, alla lenticchia nello sfruttare le particolari condizioni pedo-climatiche in cui si pratica la coltura. Il ritmo di fioritura, apparentemente omogeneo, in realtà è frutto della concorrenza all’interno della componente vegetale, assai ricca ed eterogenea. Una lotta per la vita e per lo spazio vitale in cui alla fine la timida lenticchia finisce per essere la vera dominatrice, in quanto è l’unica specie ad essere raccolta. Se non ci fossero le specie infestanti, non si verificherebbero le loro belle fioriture, a discapito di chi le sa apprezzare, godere e rispettare.

Per concludere, e limitandoci ai campi di lenticchie, tre sono le fioriture intensive che si rilevano quasi in successione, la gialla della senape orapastrella, la rossa dei papaveri e l’azzurra dei fiordalisi. Senza andare troppo fuori del seminato – è proprio il caso di dirlo – da sottolineare che le tre fioriture costituiscono l’insieme dei colori primari usati dai pittori: giallo, rosso e blu. Da questi tre colori si può ottenere qualsiasi altro colore, a cominciare da quelli secondari (verde, arancio, viola), se mescolati combinando in parti uguali i primari.

 

Colori primari

C’è una ragione per cui i tre colori della fiorita colpiscono tanto l’osservatore? Che effetto provocano? Una risposta esauriente sarebbe lunga e complessa. In sintesi, di tutte le frequenze elettromagnetiche che esistono, l’uomo è capace di percepirne solo una piccola porzione come luce (valori di lunghezze d’onda compresi tra i 380 e i 750 nanometri). I colori sono generati dalla nostra percezione visiva, che elabora le lunghezze d’onda provenienti dalla luce e le trasforma nei diversi colori che vediamo. I colori, quindi, non sono che il risultato dell’analisi (o se volete della traduzione) che il cervello fa delle frequenze che colpiscono la retina. Molte funzioni vitali – l’appetito, l’umore, il sonno, gli stati ansiosi e così via – sono facilmente influenzabili dai colori, tanto che esiste una pseudoscienza chiamata cromoterapia, che si occupa di studiarne l’effetto sul benessere delle persone. Viene il sospetto, da questo punto di vista, che tanta gente corra a vedere la “fiorita” per curare i propri malesseri! Una cosa è certa e cioè che alcune frequenze condizionano il nostro stato psicofisico e riflettono la nostra personalità. Basti pensare a quanto agiscono i toni di colore sulla scelta di un vestito o di una cravatta o di un quadro o della tinteggiatura delle pareti di una stanza. Ma qui, in questo angolo di mondo dove le leggende si fondono con la realtà, l’influsso dei colori forse ha qualcosa in più perché è arricchito dal “sibillino incantesimo”.

Fiorita

1) Dal greco prasinos, verde scuro. Le fobie possono interessare più colori in generale (cromofobia) o i singoli colori: melanofobia (nero), xantofobia (giallo), rodofobia (rosa), cianofobia (blu), leucofobia (bianco) e così via.

 

Alessandro Menghini, docente di Botanica presso l’Università di Perugia, dove ha tenuto incarichi di insegnamento presso diversi Dipartimenti. Nel suo ambito disciplinare e scientifico ha affrontato tematiche diverse, dalla Botanica sistematica ad argomenti di carattere applicativo, compresi quelli ambientali e storici. Si è interessato anche di temi legati alla simbologia delle piante. Ha al suo attivo oltre 200 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali. Autore di diversi libri e studi, nonché di numerosi articoli divulgativi.

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