Questo contributo è un compendio di una relazione presentata al convegno “Identità e dignità: AICLU per le lingue nel mondo”, 9-11 luglio 2009, Centro Linguistico Interfacoltà Kore dell’Università di Enna.
È noto che i romani costruirono il loro impero sul diritto e sul potere unificante del latino. L’impero romano, la prima “comunità europea” – o meglio “mediterranea” – della storia, si basava fondamentalmente sull’uso esclusivo della lingua latina come collante politico, culturale e sociale. A più di duemila anni di distanza, la Comunità Europea, nata dalle rovine della seconda guerra mondiale, ha fatto una scelta completamente diversa, basando sul rispetto delle identità linguistiche e culturali dei paesi membri la promozione europea dell’istruzione. Il progetto mira alla preparazione degli studenti comunitari alla cittadinanza democratica, sulla base di due concetti fondamentali: la multiculturalità e il multilinguismo. Questa iniziativa trova nel libro bianco Cresson-Flynn (1995) il suo statuto di riferimento per affermare la centralità dell’istruzione-formazione e la necessità di un rinnovamento del sistema formativo europeo. Introduce come elemento essenziale l’impegno linguistico plurimo nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui suggerisce e promuove il carattere accrescitivo. In altre parole, la Commissione e gli altri organi comunitari sostengono l’importanza basilare dello studio e della conoscenza di più lingue straniere per i cittadini europei, una competenza vista come patrimonio per lo sviluppo culturale e democratico della Comunità e come strumento di pace, coesione e sviluppo.
Purtroppo, anche a fronte di impegni ben precisi, sottoscritti a livello europeo, i vari governi si muovono spesso secondo logiche di politica interna molte volte in contrasto con le direttive comunitarie. Me ne sono resa conto durante le ricerche che si sono poi tradotte nel volume pubblicato insieme a Claudio Vinti: Una professione da inventare. Il docente di lingua straniera nella scuola primaria (Edizioni Guerra, Perugia, 2008). È proprio in quell’occasione che è nata l’idea di una ricerca a livello europeo sulla situazione dell’insegnamento di una lingua straniera nella scuola primaria, anche in considerazione dell’osservatorio privilegiato in cui mi sono venuta a trovare nel mio nuovo ruolo di docente di lingua italiana nella scuola primaria francese.
La mia formazione professionale si è arricchita, nel tempo, di una competenza psicologica e linguistica, che mi ha portato alla specializzazione come insegnante di lingua inglese (nell’ambito dei primi corsi organizzati dai provveditorati negli anni ‘90). Ho svolto questa professione per parecchi anni in Italia prima di ottenere il mio primo mandato all’estero, presso una scuola europea in Gran Bretagna, dove ho lavorato per cinque anni. Tornata in Italia, ho insegnato inglese nella scuola primaria come specialista. Da settembre 2008 è iniziata la mia seconda esperienza all’estero come docente di italiano nella scuola primaria francese.
In Gran Bretagna ho maturato un’esperienza particolarmente costruttiva. Ho fatto parte di un corpo docente multilingue proveniente da quasi tutti i paesi europei. Insegnavo le materie curricolari in italiano, nella sezione italiana, e l’italiano come lingua straniera nelle altre sezioni linguistiche. I collegi docenti erano spesso occasioni per esprimere opinioni e formulare proposte in merito all’armonizzazione dell’insegnamento delle varie discipline – dalla matematica alle scienze, dalla storia alla geografia – all’interno delle varie sezioni linguistiche. Era attribuita grande rilevanza allo scambio professionale tra docenti di diversi paesi, fondamentale per l’arricchimento della propria professionalità a livello metodologico. Ma ciò che ho trovato veramente formativo è stata l’offerta culturale e linguistica proposta agli studenti, incentrata sul concetto di promozione del multilinguismo allo scopo di favorire la cultura della differenza e della tolleranza, finalità del tutto impensabili in altri contesti.
La prima lingua straniera appresa nella scuola primaria diventa la lingua di insegnamento di alcune discipline nella scuola secondaria. L’esposizione precoce e quotidiana dei bambini a una seconda lingua consente loro di padroneggiarla e, in seguito, di studiare alcune discipline in quella lingua. Contestualmente è avviato lo studio di una terza lingua, che andrà a rinforzare il bagaglio culturale dell’allievo, che alla fine del corso di studi sarà venuto a contatto con almeno tre lingue comunitarie, in cui, a livelli diversi, riuscirà in ogni modo a esprimersi.
È mio personale convincimento che l’esperienza delle scuole europee potrebbe costituire un importante punto di riferimento per i paesi comunitari e quindi anche per l’Italia, in quanto, pur essendo nate con scopi diversi, rappresentano un tentativo riuscito di far incontrare lingue e culture differenti nel rispetto di tutte le identità, anticipando tra l’altro le attuali direttive europee in materia di multiculturalità e di multilinguismo. L’introduzione della lingua straniera (LS) nella scuola elementare italiana ha avuto un iter travagliato fin dai programmi didattici del 1985. L’insegnamento della LS, infatti, per molti anni ha avuto una diffusione disomogenea sul territorio nazionale, a causa della scarsità di docenti abilitati. In Europa, come ci ricorda Fernando Galván nella sua ricerca Políticas de promoción de lenguas extranjeras en España y la difusión del español en el mundo (2005), i pionieri dell’insegnamento delle lingue straniere sono stati i paesi nordici e il Lussemburgo, che fin dal 1912 ha inserito le lingue straniere nei suoi programmi didattici. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 è stata la volta di Belgio, Danimarca, Svezia e Finlandia, seguiti da Austria, Olanda e Portogallo, e, con più ritardo, da Spagna, Francia, Grecia e Italia (1992).
Proprio in questi anni in Italia nasce la figura dell’insegnante specialista di LS: un docente di scuola elementare che insegna LS in più classi. Nelle intenzioni del ministero doveva trattarsi di una figura temporanea, in attesa che maturassero e si diffondessero tra gli insegnanti della scuola primaria le professionalità necessarie per insegnare una LS. Si permetteva così a tutti di passare alla figura del docente specializzato, in grado, nella sua classe o nel suo modulo, di insegnare anche la LS accanto alle discipline curricolari. Un obiettivo che ancora oggi l’attuale ministero continua a voler perseguire, come traspare chiaramente dalle ultime decisioni del Ministro.
È tuttavia innegabile che nel frattempo vari elementi negativi siano intervenuti nell’accidentato cammino dell’insegnamento delle lingue straniere nella scuola primaria italiana. Il primo, a mio avviso penalizzante dal punto di vista formativo e culturale, è rappresentato dall’obbligatorietà della sola lingua inglese, mentre si offre solo come facoltativa la possibilità di apprendimento di un’altra lingua comunitaria nell’ambito degli insegnamenti aggiuntivi all’orario d’obbligo. In ogni caso saranno le famiglie a decidere se avvalersi o meno di questa opportunità, compatibilmente con le risorse economiche e professionali della scuola. Ciò fa prevedere che pochi saranno quegli allievi che potranno avere realmente accesso a una seconda lingua straniera. Così, dall’iniziale possibilità di scegliere quale lingua straniera poter apprendere tra inglese, francese, tedesco e spagnolo, si è giunti all’obbligatorietà del solo inglese e all’esclusione di fatto di tutte le altre. Un trend, che io ritengo pericoloso e penalizzante sul piano culturale e formativo e che coinvolge anche l’università, è la moria delle lingue seconde che non siano l’inglese a cui si assiste in tutte le facoltà.
È vero che spesso le direttive europee affidano un ruolo centrale per il successo dell’insegnamento linguistico ai genitori degli allievi, e le statistiche evidenziano che, laddove si dà la possibilità di scegliere, le famiglie scelgono in maggioranza l’inglese, seguito a distanza dal francese e poi dal tedesco e dallo spagnolo. Ma è altrettanto vero che le decisioni prese in Italia dai responsabili ministeriali sembrano rispondere più a esigenze di bilancio e a una certa miopia culturale che all’ottemperanza delle direttive europee. Inoltre avallare la preferenza espressa della maggior parte delle famiglie non sempre si rivela la scelta migliore (ricordo soltanto cosa è successo con l’abolizione del latino).
Di fatto, ridurre al solo inglese le lingue che i bambini incontrano nella scuola primaria è un grave impoverimento, anche se nella secondaria le lingue diventano due. In ogni caso, quasi tutti i paesi si muovono in direzioni diverse. È quanto sostenuto tra gli altri anche da Maria Cecilia Luise che in un suo articolo mette in guardia dai danni che una scelta di questo tipo può avere sulla formazione degli allievi (L’insegnamento precoce delle lingue straniere: un excursus dei documenti europei e le implicazioni per la scuola primaria italiana, in “Studi di Glottodidattica” n. 4, 2007, pp. 65-75). Il fatto che il 77% dei cittadini UE ritenga che i bambini debbano imparare l’inglese come prima lingua dà preziose indicazioni di ordine pratico, ma non esclude la possibilità dell’insegnamento contemporaneo di una seconda lingua, né tanto meno può ignorare che la ricerca glottodidattica considera la precoce esposizione a più lingue straniere un vantaggio cognitivo e comunicativo per gli allievi. È quanto sostiene anche Daria C. Coppola che, recuperando la dimensione formativa dell’educazione linguistica nella scuola primaria, propone, come risposta didattica, di
«presentare non una, ma più lingue insieme, in modo da far cogliere fin dall’inizio il carattere convenzionale dei diversi codici linguistici e le molte e varie realtà socio-culturali che esse veicolano. Entrando subito in contatto con più lingue-culture, risulterebbe a nostro avviso più facile per l’alunno collocare quella che diventerà poi oggetto di studio precipuo, assieme alla materna, in quello spazio espressivo che comprende le molte e diverse lingue e i linguaggi degli uomini.»
(D.C. Coppola, Europa, lingue e Istruzione primaria, Torino, UTET, 2002, p. 33)
Le riflessioni di Daria Coppola, supportate tra l’altro da numerose e convincenti esperienze, dimostrano a mio avviso quanto sia importante sul piano formativo un’azione di sensibilizzazione al plurilinguismo e quanto sia essenziale per tutti gli attori educativi distinguere nettamente le esigenze glottodidattiche da quelle meramente strumentali che spesso orientano le famiglie a richiedere l’inglese per il suo ruolo di lingua franca. Più che di “lingua straniera” nella scuola primaria italiana si dovrebbe parlare di “lingue straniere”, come avviene per esempio in Francia.