In tutti i processi di integrazione sociale sono molteplici i fattori aggreganti e disgreganti e, certamente, tra i più determinanti sono quelli economici e culturali. Mentre dei primi, caratterizzati da interessi materiali convergenti o divergenti, spesso è meno difficile percepire il ruolo, comprendere quali siano i fattori culturali, che sollecitino l’incontro e quali lo allontanino, non è sempre possibile senza complesse analisi multidisciplinari e storiche. Per quanto riguarda l’integrazione europea tale aspetto presenta ad un tempo rilevante interesse e peculiare complessità per la notevole evoluzione nel tempo delle diverse esperienze culturali dei popoli del continente europeo.
La storia europea ha vissuto i sui momenti di maggiore identità nei periodi caratterizzati da un crescente processo di convergenza tra le sue lingue, le sue culture e i suoi diritti, che, secondo il Devoto, si evolvono con simile mobilità, in assonanza con quella parentela tra idea e legge, intuita sin da Eraclito.
Tra gli esempi più significativi si deve annoverare la fase del recepimento del diritto romano da parte dei popoli non più controllati dalle legioni romane e la sua adozione da parte dei regni barbarici, per scelta autonoma, dopo aver percepito ad un tempo la capacità di chiarezza della lingua latina e di disciplina sociale del suo diritto.
Nei territori occupati dai Longobardi si crearono consuetudini imbevute di civiltà sia latina che germanica, frutto della reciproca capacità di adattamento e regolatrici dei rapporti tra occupanti ed occupati ed all’interno di ciascuno dei due popoli.
La nascita delle università, nei secoli dodicesimo e tredicesimo, fu ad un tempo il segno del risveglio degli studi e dell’aspirazione all’autonomia della scienza, compresa quella giuridica, ed uno straordinario stimolo all’incontro delle culture, delle lingue e delle esperienze civili d’Europa.
Il diritto comune fu un fatto di civiltà, secondo il medievista Francesco Calasso, perché si sviluppò “al di là delle terra in cui nacque”. La tradizione giuridica latina fu rispettata dai barbari, che la “rinverdirono”. I Visigoti ed i Borgognoni riordinarono persino le fonti giuridiche.
La Francia e la Spagna, dov’erano sorti i regni romano-barbarici, si aprirono al rinnovamento culturale e giuridico della Scuola di Bologna tra l’XI ed il XII secolo. La Spagna aveva già unificato nel VII secolo la doppia legislazione esistente di matrice visigotico-gotica e romana. Il Portogallo, tramite gli Studi di Coimbra e di Lisbona, s’imbevve di iura communia, di dottrina bolognese e di diritto romano e canonico. I diritti nazionali in Italia, Francia e Spagna si sono sviluppati analogamente alle rispettive lingue, dal fondamento romano agli elementi germanici, alle consuetudini locali, all’influsso culturale della scienza del diritto comune. L’Inghilterra, che pur non aveva il fondamento latino, fu precocemente permeabile alle esperienze culturali delle università italiane ed ai testi di diritto canonico. La Norvegia, la Polonia e la Germania recepirono influssi della scienza giuridica italiana e soprattutto del diritto canonico. La frammentarietà dei diritti locali del Belgio e dell’Olanda favorì il recepimento del diritto romano.
La scienza giuridica medievale stimolò la nascita di varie università in Boemia, Austria, Ungheria, Romania, Danimarca e Svizzera. È quindi doveroso considerare tra le radici dell’identità europea anche il diritto e la scienza giuridica, nelle varie contaminazioni che soprattutto l’esperienza romana aveva trasmesso. Se le radici cristiane sono innegabili, esse non sono tuttavia esclusive, tale è la ricchezza di esperienze e di culture che hanno nel tempo nutrito e condizionato i singoli paesi e che hanno poi plasmato i comuni principi alla base dell’Unione Europea. Sarebbe antistorico non riconoscerlo e non utile per l’ulteriore processo di integrazione dei popoli europei. La UE, pur tra le notevoli difficoltà che incontra nel favorire questo processo, ha almeno voluto valorizzare questa pluralità delle sue radici, dandone segno perfino nel suo motto “In diversitate concordia”, benché non formalmente inserito nel Trattato di Lisbona. Rilevanti sono stati i contributi culturali alla formazione dell’identità europea di nostri pensatori nel passato. L’appello di Dante nel De Monarchia all’imperatore perché unificasse nel suo impero anche le terre italiche, emancipandole dall’opprimente autorità papale, traeva le sue motivazioni anche da aneliti verso le altre esperienze culturali e civili del continente. Grazie a Dante ed a Novalis (pseudonimo di Friedrich Philipp Freiherr von Horderberg) la cultura europea seppe arricchirsi anche di sensibilità orientali. La loro religiosità meticcia e non escludente alimentò quella visione della “cristianità perenne” che molto contribuì alla costruzione dell’occidente. Giacomo Leopardi nel 1824, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, traccia un parallelo tra la decadenza italiana culturale, prima che etica, che riduceva la dialettica politica, di per sé asfittica, a banali contese personali o corporative, e la condizione socio-culturale più matura delle altre nazioni europee, soprattutto del centro-nord, che consentiva di non banalizzare le divisioni politiche. Il genio, non solo letterario, di Recanati percepiva quasi due secoli fa l’handicap culturale, prima che etico e politico, del popolo italiano, per aver visto crescere tardi ed a fatica la sua storia nazionale a causa della lunga e difficile coesistenza tra autorità politica e chiesa cattolica. Il confronto tra i diversi livelli socio-culturali della nostra società e di quelle nordiche, e dei conseguenti effetti sul vivere civile della differente maturità civica e politica, appare, a distanza di quasi due secoli, di impressionante attualità. Un esempio di tali effetti è possibile rilevare nel confronto in corso nei paesi scandinavi sul tema della scuola in rapporto alla crisi economica in atto, affrontato, indipendentemente dagli schieramenti, non in ottica di mero risparmio di costi, come nel nostro paese, bensì di investimento per il futuro.
Particolarmente difficile è stato nel nostro paese lo sviluppo della cultura popolare e della sua emancipazione critica ed autocritica. La crescita della coscienza civile degli italiani, già debole per il diffuso passivo recepimento nei secoli da parte di ampie fasce sociali degli unilaterali insegnamenti, e nello stesso tempo precetti, della Chiesa cattolica, fu annientata dalla reciproca strumentalità tra Stato e Chiesa durante il ventennio fascista. Coscienza civile, individuale e collettiva, e libero arbitrio della persona non avevano avuto modo di decollare o, se in qualche eroico caso germinati, erano stati fortemente contrastati sul nascere, con danno per la maturazione civica, ma anche religiosa e morale, degli italiani. Del tutto particolare in Europa era stata l’asfissia italica per assenza di respiri culturali diversi, anche in quanto il nostro paese non aveva vissuto neppure il travaglio della Riforma. Le pur significative esperienze intellettuali illuministiche, risorgimentali, liberali e socialiste del diciannovesimo e del ventesimo secolo, o erano rimaste elitarie o non avevano realmente influenzato, in profondità e durata, l’emancipazione degli strati sociali più ampi.
Il quarantennio a guida democristiana, pur con notevoli eccezioni di laicità, frustrò nei fatti troppo spesso l’evoluzione maturatasi nella coscienza civile di parte della società italiana ed i principi di forte rinnovamento confluiti nella carta costituzionale, cui tanti cattolici democratici avevano pur dato un contributo rilevante. Nella seconda repubblica e, soprattutto, dal 2008, la condizione socio-culturale degli italiani ha subito, tuttavia, un avvilimento senza precedenti, un assopimento della loro capacità critica e, ciò che è peggio, a causa di un sistema mediatico preordinato al profitto ed al potere progressivamente in chiave monopolistica di un solo gruppo privato. Il regresso culturale e morale dell’Italia, che stiamo vivendo, è vissuto dai più nella inconsapevolezza di tale processo di decadenza e ciò rende più difficile il formarsi di sane dialettiche problematiche, nonostante l’attivo ruolo di critica e stimolo di autorevoli testate degli altri paesi europei ed extraeuropei di diversi orientamenti politici. L’elevato deficit di coscienza critica della nostra società fa sì che le libertà fondamentali in Italia si stiano progressivamente trasformando in mere facoltà formali, prive di effettività, avendo l’accentramento del potere d’informazione ridotto al minimo le voci di dissenso per aver esso creato un popolo di consumatori di prodotti, anche politici, conformati ovviamente agli interessi del monopolio esistente. Tale condiscendenza al potere, quando non imposta, è volontariamente accettata dagli stessi operatori dell’informazione, per profonde ragioni di storico servilismo. Ne è derivato un generale clima di disinteresse alla problematicità intellettuale, sola fonte di liberazione dall’ignoranza e dalla schiavitù, ma indicata per lo più quale portatrice di visioni negative per il benessere del paese.
La telecrazia attuale italiana indebolisce ogni giorno di più la già insufficiente capacità di analisi degli italiani con rischio di contagio per gli altri paesi europei di sollecitazioni demagogiche subculturali, tra le quali l’induzione al mancato rispetto per tutti i diversi con una pericolosa deriva verso l’inciviltà collettiva e l’impoverimento individuale. Questa involuzione, umana prima che civica, non contrastata ed anzi troppo spesso sollecitata da chi dovrebbe frenarla per il suo ruolo istituzionale, induce alle paure più ancestrali, agli egoismi, ai corporativismi, ai nazionalismi ed all’indebolimento delle iniziative pacifiste. Gli europei, con le loro insufficienze per i compiti che la prossima effettiva unità politica della UE loro imporrebbe, rischiano di essere spinti dall’Italia verso un’involuzione ulteriore e ad ingenerosi frazionismi proprio alla vigilia del possibile concreto avvio, con la ratifica del trattato di Lisbona, di politiche unitarie. Felicemente ha osservato Jacques Ziller, docente di diritto europeo all’Università di Pavia, che gli europei, che frenano il processo di unità politica per interessi particolari di breve periodo, somigliano a quei lillipuziani del Gulliver di Jonathan Swift, che tenevano imprigionato il gigante perché non lo conoscevano ed avevano paura che si alzasse, così come temono l’unità politica europea, ignorandone le potenzialità.
Questa miopia non ebbero due grandi italiani, pur in momenti tra i più drammatici della storia europea e pur di formazione culturale profondamente diversa: Luigi Einaudi, che nel 1915 invocò gli Stati Uniti d’Europa, ed Altiero Spinelli, che nel 1941 dal confino scrisse, con Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, il Manifesto per un’Europa federalista. In quei drammi ed in quelle divisioni armate, questi italiani riuscirono a concepire forti utopie di pace, non meri sogni, ma visioni del mondo, che, pur lontane dal presente in cui furono intuite, avevano in sé i disegni concreti per realizzarle, dando segno di un respiro culturale elevato.
Oggi, a qualche settimana dal possibile concreto avvio dell’unità politica europea, dopo la ratifica del Trattato di Lisbona anche da parte dell’Irlanda, i governanti del nostro paese, con atteggiamenti inusitati per gli statisti italiani dal dopoguerra, mostrano frequentemente malcelata insofferenza per indirizzi assunti dalla UE e, fatto più grave, violano frequentemente vari principi fondanti dell’unione, già giuridicamente efficaci.
Stimolano sentimenti di rifiuto dei diversi ed approvano norme liberticide e disumane. Propongono il carcere per i giornalisti che informino di reati appresi da intercettazioni vietate, mentre l’UE, pur di tutelare l’informazione, consente anche la pirateria su Internet e gli USA attibuiscono primario rango costituzionale al diritto di cronaca, cui subordinano quello alla riservatezza dei potenti. Il Parlamento italiano approva ed il Governo attua, con insolita ed ostentata efficienza, i respingimenti dei cosiddetti clandestini, negando di fatto il diritto d’asilo e le più elementari tutele ai minori, nonostante i richiami della Chiesa cattolica all’accoglienza e gli ammonimenti degli organismi europei.
Quanto sopra il governo italiano continua a fare nonostante che nel Trattato di Lisbona sia stato inserito l’articolo 1 bis, secondo cui, tra i valori fondanti dell’Unione, si pone il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze: “Questi valori – dispone – sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. Per l’Articolo 67 (ex articolo 61 del TCE ed ex articolo 29 del TUE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea “L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”. Per l’Articolo 78 (ex articolo 63, punti 1 e 2 e articolo 64, paragrafo 2, del TCE) “L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti”. Convenzione e protocollo che molti giuristi considerano ripetutamente violati nel 2008 e nel 2009 dall’Italia.
L’onore italiano, nella quasi generale indifferenza della carta stampata e delle televisioni nazionali, è stato salvato dal Manifesto antirazzista del 21.7.2008 di numerosi scienziati italiani che hanno dichiarato che “il meticciamento culturale è la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione dell’Unione Europea”. Il rispetto della pluralità dei valori, tutelato dal Trattato di Lisbona , pur ratificato dal Parlamento italiano all’unanimità il 31.7.2008, è negato troppo spesso nel nostro paese sia dalle dichirazioni governative e dal coro mediatico pubblico e privato quasi monocorde, che s’incarica di sostenerle e giustificarle, sia dai concreti provvedimenti del governo e della sua maggioranza parlamentare in crescente contrasto con i principi e con l’ordinamento europeo. Qualora tali propensioni antieuropee fossero dibattute in reali dialettiche istituzionali e nel paese, non potrebbero comunque che godere di rispetto in quanto frutto di libero confronto, ma, difettando al presente un dialogo nelle e tra le istituzioni nazionali, le violazioni dell’ordinamento europeo attuale costituiscono meri atti contra jus, che come tali vanni giudicati e che non potranno restare, purtroppo, senza conseguenze negative, a breve o a lungo termine, per il ruolo dell’Italia nella UE. È un triste esempio quello presente di come le violazioni del diritto – perché le norme europee sono non solo di diritto, ma di rango giuridico superiore all’ordinamento nazionale, anche se ciò sfugge ai più -, soprattutto se perpetrate dalle classi dirigenti, frequentemente si accompagnano nella storia a fasi di degrado culturale. Il fatto che le contraddizioni nazionali, rispetto al processo unitario europeo ed al suo ordinamento già esistente anche se incompleto, avvengano senza approfondite discussioni nel merito, ma prevalentemente per annunci mediatici che non danno al pubblico nulla di più di quanto possano dare slogans pubblicitari e cioè o l’indifferenza o il rifiuto, senza la possibilità di un confronto dialettico, o un’adesione acritica e docilmente permeabile all’indirizzo dominante, teleiniettato a grandi dosi giornaliere, con deriva per ciò stesso subculturale.
La dicotomia tra la cultura di fondo, che ispira l’attuale maggioranza politica italiana e che viene diffusa attraverso i media, ed i principi alla base dell’Unione, emerge, anche in relazione ad altri aspetti della vita sociale, dalla combinata lettura del comma 1 dell’Articolo 17 del Trattato, per il quale “L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale” e del comma 2, per il quale “L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali”. Mentre l’UE non prevede, quindi, minor tutela giuridica alle organizzazioni filosofiche e non confessionali rispetto a quelle religiose e, facendo ciò, eleva il suo rispetto laico per le diversità di opinione ad un livello di tolleranza notevole, in Italia ora ai soli insegnanti di religione cattolica, nominati senza il vaglio statale dei titoli come gli altri insegnanti, è consentito di prendere parte con diritto di voto agli scrutini, attribuendo crediti a chi frequenta le loro lezioni, con vantaggio rispetto a coloro che non le frequentano ed il ministro della pubblica istruzione propone ora anche di attribuire agli insegnanti della sola religione cattolica il voto espresso in valori aritmetici come per le altre materie, così consentendo ai soli fruitori di tali voti di migliorare la media dei giudizi loro attribuiti e, di conseguenza, di trovarsi avvantaggiati nell’attribuzione di borse di studio, incentivando, così, non un credo profondo, vissuto nell’intimità, ma un bigottismo di comodo, il cui prezzo è lo svilimento del sentire religioso. Appare palese la violazione dell’art. 3 della Costituzione, sull’uguaglianza dei cittadini, e delle suddette norme europee che un tale voto attuerebbe.
Altro esempio non solo della tolleranza dell’Unione Europea per le diversità culturali, ma della loro assunzione a valore in sé, si ha nell’atto finale del Trattato di Lisbona, ov’è recepita la Dichiarazione relativa all’articolo 53, paragrafo 2 del modificato Trattato sull’Unione europea: «La conferenza ritiene che la possibilità di tradurre i trattati nelle lingue di cui all’articolo 53, paragrafo 2 contribuisca a realizzare l’obiettivo di rispettare la ricchezza della diversità culturale e linguistica dell’Unione di cui all’articolo 2, paragrafo 3, quarto comma».
Una lezione morale e culturale alle classi dirigenti la dette Bertrand Russel nel 1933 (cfr Religion and Science, Fabbri Edit., 1996, p. 228) con molta semplicità, secondo il suo stile, scrivendo «Quelli per i quali la libertà intellettuale è personalmente importante possono essere una minoranza nella comunità, ma fra di loro si trovano gli uomini che hanno la massima importanza per l’avvenire». L’Italia dell’attuale momento storico, invece, preferisce i consensi generalizzati, dai quali trae generica ed emotiva fiducia per il futuro, demonizzando quanti chiedono un confronto critico e razionale sui problemi attuali.
Quale debito di coscienza, di cultura e di civiltà l’Italia di oggi sta assumendosi verso l’Europa ed anche verso il proprio passato! I pericoli, tuttavia, di involuzione della civiltà europea non vengono soltanto dall’Italia, contenendo l’attuale normativa europea non poche norme frutto di compromesso e, quindi, per la loro vaghezza, suscettibili di pericolose interpretazioni.
Dopo il parziale e sofferto successo del governo italiano nel 2007, con l’approvazione della moratoria della pena capitale da parte di 105 Stati, nonostante il voto contrario degli Usa, della Cina, del Sudan e dell’Iran, alcuni giuristi hanno sollevato il dubbio che il Trattato di Lisbona, rinviando alla Carta dei diritti fondamentali, che contiene riferimenti ad articoli della Carta Europea dei diritti dell’uomo del 1950 ed al Protocollo 2007-C302-02 del 14.12.2007, pur non prevedendo direttamente la pena di morte, potrebbe in alcune ipotesi tacitamente consentirla in caso di uccisioni da parte della polizia di dimostranti, qualora le dimostrazioni siano considerate sediziose. Se questa interpretazione fosse confermata o non ufficialmente smentita – e purtroppo non risultano smentite ufficiali della UE dal 2007 ad oggi -, un grave passo indietro nella tutela dei diritti fondamentali anche in Europa potrebbe rilevarsi, soprattutto per l’uso deviato della norma che potrebbe farsi anche per l’ampia discrezionalità che la valutazione di sediziosità di una dimostrazione pubblica può comportare.
La Santa Sede, dal canto suo, pur avendo dato un rilevante contributo di civiltà nel sollecitare rupetutamente l’Italia ad una politica di solidarietà verso i migranti, la stessa tolleranza non ha mostrato verso gli omosessuali. Non si può non rilevare la difficoltà attuale della politica, ma anche della cultura dell’apparato vaticano, ad affrontare con tolleranza problemi come quello della diversità di orientamento sessuale, se il rappresentante della Santa Sede alle Nazioni Unite, Mons. Celestino Migliore, ha negato il voto favorevole alla depenalizzazione dell’omosessualità come tale, ossia indipendentemente dalla commissione di reati, nonostante che ancora in molti paesi del mondo l’omosessualità sia punita per se stessa con la pena capitale e con la tortura. Né le successive motivazioni addotte di tale diniego, quali i timori di legittimazione delle unioni gay, possono alleggerire la gravità culturale, prima che politica, della scelta. In questo quadro il voto del Parlamento italiano del 13 ottobre 2009, che impedirà l’esame parlamentare del provvedimento che inseriva tra le aggravanti dei reati i fatti commessi «per finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato», è il prezzo pagato alla residua pervicace cultura dell’intolleranza, che ha fatto subire al nostro paese un giudizio negativo dell’Onu per questo passo indietro in una materia così delicata. È questo un altro segnale dell’insufficiente livello di confronto tra le diversità e quindi di regresso culturale, perché laddove la cultura si immiserisce viene limitato lo spazio al dialogo tra le diversità, che sempre arricchisce le persone e le collettività.
Il peggior nemico del cammino unitario della UE è stato, nei decenni trascorsi, l’uso del veto di alcuni paesi per motivi estranei agli interessi generali dell’unione. Mai l’Italia aveva minacciato in passato di ricorrervi. Questo ha reso più grave l’espressa ed inutile minaccia di veto sui provvedimenti a difesa del clima, rivolta al Consiglio d’Europa il 15.10.2008 dal premier italiano, su suggerimento della Confindustria, pochi mesi prima del possibile avvio dell’unità politica della UE, ed in una materia che avrebbe richiesto ampia assunzione di responsabilità da parte di tutti gli statisti per il risanamento del pianeta. Una presa di posizione del genere sul piano internazionale non sarebbe stata possibile in un contesto nazionale di conoscenza, anche scientifica, da parte della classe dirigente meno inadeguato.
Anche il problema della non effettività dei diritti fondamentali dell’uomo, prima che problema politico e di diritto, è un problema culturale, dovendosi misurare primariamente il livello di civiltà e di conoscenza dei popoli dal rispetto che hanno degli altri popoli e dei singoli individui in relazione ai loro più rilevanti bisogni e diritti. Purtroppo l’Unione Europea deve ancora fare i conti con l’insufficiente reale tutela in molti paesi, tra cui anche il nostro, dei primari diritti dell’uomo. Il Prof. Antonio Cassese, già Presidente del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e poi primo Presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, premiato nel 2002 dall’Académie Universelle des Cultures per il suo contributo alla protezione di diritti umani, ha dichiarato a fine 2008 che le autorità italiane hanno assunto tutti gli obblighi internazionali previsti dalle convenzioni e nei trattati sui diritti umani, ma spesso non hanno concretamente attuato quegli obblighi. Cassese ha denunciato che l’Italia ha ratificato la Convenzione dell’Onu sulla tortura nel 1984, dimenticandosi poi di emanare una legge che prevedesse il reato di tortura. Ciò ha determinato in concreto l’assenza di giustizia effettiva, tra l’altro, per i gravissimi maltrattamenti di Bolzaneto agli arrestati. Il rapporto sull’Italia del 2008 di Amnesty International ha denunciato le violenze della polizia di Genova del 2001, l’uccisione di Carlo Giuliani, le violenze in Val di Susa del 2005, la morte di Federico Aldovrandi, la scarsa collaborazione del Governo Italiano alle indagini degli organismi internazionali, che hanno accertato responsabilità italiane nei trasferimenti illegali di Abu Omar, Maher Arar, Abou El Kassim Britel, culminati in arresti arbitrari, sparizioni, detenzione senza processo e tortura, l’uccisione di Gabriele Sandri da parte di un poliziotto e la morte stranissima di Aldo Bianzino nel 2007 nel carcere di Perugia.
Qualora i popoli europei non sapranno evitare la loro sudditanza alla cultura commerciale – soprattutto se questa uniforma anche orientamenti politici e diventa di sistema -, che ha già dato prova di rapida e subliminale capacità di soggezione di ampie fasce sociali italiane, l’Unione Europea perderà il suo primo valore identitario, quello della pluralità dei valori cui riconoscersi, fattore di civiltà per la capacità critica delle diverse idee pur nel loro reciproco rispetto e fattore di moralità per la libertà di scelta tra esse con assunzione di responsabilità: libero arbitrio e coscienza critica civile, sono le mete cattolica e laica da conquistare per la crescita morale della persona e per quella politica del cittadino. L’Europa potrà resistere all’omologazione dello stile di vita e di pensiero, ossia alla subcultura attualmente invadente, soltanto se saprà difendere il libero formarsi delle opinioni e soprattutto se saprà impedire concentrazioni di potere sulle fonti d’informazione, che inevitabilmente conducono ad una progressiva attenuazione del senso critico e dell’intelligenza stessa individuale e collettiva. L’Unione Europea, assumendo nella premessa del suo Trattato, a valore di per sè la diversità dei valori, nella coscienza che le posizioni altrui sono comunque da rispettare anche se da valutare criticamente, ha voluto arricchire la propria cultura aprendosi a quelle altrui diverse. È da sperare, quindi, che l’Europa, che ha saputo concepire questo valore e porselo a regola, sappia difendere la sua cultura, come cultura aperta, viva ed autonoma, e sappia garantire in concreto questo valore nella vita quotidiana dei suoi Stati membri e proporlo al di fuori dei suoi confini. Enorme contributo di civiltà e di pace potrà dare così l’Europa al mondo intero. Diversamente, un’Europa privata della sua anima non potrà incontrarsi con altre anime, ma soltanto respingerle o subirle. Il primo strumento indispensabile ravvicinato, perché l’Europa tenga fede anche al suo valore della tolleranza, è la concreta applicazione del Trattato di Lisbona, pur con tutti i suoi rilevanti limiti. Non consentire alla UE di esprimersi finalmente con scelte unitarie, e quindi di farla vivere come soggetto politico, costituirebbe limite più grave. Purtroppo in Italia non si parla quasi mai dei fattori che ancora frenano il decollo europeo come soggetto politico, pur dipendendo da questo la soluzione di molti problemi dei suoi popoli. Ciò dipende da una sorta di chiusura autarchica nelle proprie illusioni. Il Trattato di Lisbona, anche nella sua ridotta funzione di accordo tra Stati e non più di carta costituzionale che avrebbe obbligato direttamente i cittadini, consentirà scelte e responsabilità comuni europee, necessarie per un miglior governo mondiale, oltre che dei singoli paesi europei, ma anche per vincere una battaglia di civiltà: far vivere al nostro continente e all’Italia una cultura di cui possiamo essere soggetti protagonisti e non inconsapevoli consumatori. La sua vera battaglia l’Europa la deve vincere sul piano culturale e tanto più riuscirà a conseguire una vera unità politica quanto più saprà difendere la sua vitalità e, quindi, la capacità di confronto con opinioni e valori diversi. Senza reale confronto potrà esserci supremazia di uno o più paesi sugli altri, ma non unità, che comporta sintesi di posizioni diverse.
Se nei secoli passati vennero dal nostro paese all’intero continente stimoli alla cultura ed alle arti e lumi di civiltà, oggi il modesto livello culturale della nostra classe dirigente nazionale – nel senso di capacità di confrontarsi con scelte e modelli diversi dai propri – spesso induce a tentazioni demagogiche, che possano sbrigativamente avvalorare i propri assunti di fronte al nostro popolo ed agli altri partners europei senza laboriosi confronti critici ed autocritici. Come in altre fasi della nostra storia, la politica di per sé può non essere sufficiente per la nostra rinascita e per l’avvio, finalmente, di un’Unione Europea protagonista di un mondo meno diseguale e inumano, e necessita di un eccezionale slancio culturale, che metta al bando le banalità ed aiuti il dialogo.
Come nel nostro Risorgimento, spetterà ad una minoranza, se non ad una élite rimasta libera dai condizionamenti mediatici, dare al nostro popolo e all’Europa intera i riferimenti culturali e morali per uscire dal tunnel.
Bibliografia consultata
Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, 1824.
Francesco Calasso, Medio Evo del diritto, Giuffré, Milano 1954.
Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Manifesto di Ventotene (Manifesto per un’Europa federalista), 1941.
Bertrand Russell, Religion and science, Fabbri Editori, Milano 1996.
Giuseppe Galasso, Storia d’Europa, Laterza, Roma 2001.
Paul Krugman, La coscienza di un liberal, Laterza, Roma 2008.
Emidio Speranza, Che Europa vorresti?, Lìbrati Edizioni, Ascoli Piceno Maggio 2009.
Avv. Paolo Franceschetti, lapraticaforense.it, 11.11.08, articolo.