Abstract
Il saggio si pone l’obiettivo di riflettere sull’eredità di Dahrendorf da una particolare angolazione: quella che lo stesso autore ha proposto nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Internazionale Senatore Giovanni Agnelli per la dimensione etica nelle società avanzate, il 30 marzo 1992. L’interesse di tale prospettiva di analisi sta nel fatto che Dahrendorf, nell’interrogarsi sulle motivazioni che hanno portato all’assegnazione del premio alla sua persona, procede lungo un filone autobiografico delineando le tappe più significative del suo apporto al dibattito scientifico e pubblico, sotto il profilo privilegiato della tensione morale verso una società migliore. È come esser di fronte a un bilancio di un autore su se stesso, a un lascito intellettuale e morale che viene messo a fuoco in vita. L’analisi, o meglio, l’autoanalisi, si ferma al 1992, ma è una data in cui la parabola del suo pensiero ha già compiuto le evoluzioni più mature ed è anche una data di significato strategico, all’indomani della caduta dei regimi comunisti, che chiama in gioco speranze di nuove libertà e di una nuova agenda per l’espansione della cittadinanza, di cui questo saggio intende recuperare lo slancio costruttivo e propositivo.
In più occasioni, nel lungo percorso noncurante dei confini, di sociologo, uomo politico e pubblicista, Dahrendorf ha avuto modo di riflettere con taglio autobiografico sulla propria esperienza di vita e intellettuale. Si pensi all’ampia intervista concessa nel 1982 alla Radiotelevisione della Svizzera Italiana di Lugano (trascritta e pubblicata nel 1984 col titolo Autoritratto) e alla monografia Oltre le frontiere. Frammenti di una vita, uscita in edizione tedesca venti anni dopo (2004 [2002]). A condividere l’approccio autobiografico c’è anche «uno dei suoi migliori scritti brevi, quel Moralità, istituzioni e società civile con cui accettò nel 1992 il Premio Agnelli […], una summula davvero magistrale del suo pensiero» (Zincone e Gastaldo 2009: 8). Si tratta di un testo, pronunciato in italiano nella serata del conferimento, che la «New York Review of Books» non intese pubblicare, come invece aveva fatto per le lectures dei precedenti assegnatari nel medesimo premio, Isaiah Berlin e Amartya Sen, con ciò suscitando una «breve e trattenuta delusione» nell’autore (ibid.). La versione italiana originale è disponibile presso la Fondazione Agnelli di Torino[i], ma Dahrendorf dimostrò di tenere a una maggiore diffusione di quella sua prolusione, che trovò altre vie di pubblicazione, sia in inglese che in italiano[ii].
Riflettendo, a oltre dieci anni dalla scomparsa, sull’eredità di Lord Ralf, il testo in questione si rivela di un interesse strategico: il Premio Internazionale Senatore Giovanni Agnelli era esplicitamente dedicato alla “dimensione etica nelle società avanzate”, e ciò stimola in Dahrendorf un’analisi retrospettiva volta a mettere a fuoco le tappe più significative del suo apporto al dibattito scientifico e pubblico, sotto il profilo privilegiato della tensione morale verso una società migliore. L’occasione a suo avviso giustificava il «procedere lungo un filone più autobiografico», in particolare delineando il cammino verso la sua «personale scoperta dei valori della cittadinanza» (2005b [1992]: 56)[iii].
È proprio nel concetto di cittadinanza che egli vede riassumersi quelli che individua come i tre pilastri di una società aperta[iv]: la moralità, le istituzioni e la società civile. La moralità, messa significativamente al primo posto, definisce le mete a cui mirare e non solo ispira «le norme della correttezza e della civiltà nella vita quotidiana, ma anche il desiderio di vedere migliori chances di vita estese a tutti gli esseri umani, e le azioni che derivano da questo desiderio» (2005b [1992]: 56); le istituzioni sono lo strumento per realizzare tale miglioramento, forniscono le regole del gioco attraverso le quali le diverse aspirazioni possono confrontarsi e trovare una legittima via di attuazione ma anche la possibilità di effettuare decisi cambi di programma politico in modo legale e non cruento (le istituzioni democratiche, ad esempio, consentono di eleggere ma successivamente anche destituire coloro dai quali siamo governati); infine, la società civile «fornisce la linfa vitale della libertà», e, attraverso il «caos creativo di associazioni» (2005b [1992]: 56) di cui è costituita, apre le opportunità di autodeterminazione delle persone, risponde alle loro esigenze plurali di appartenenza e le tutela dalla possibile ingerenza o dipendenza dallo Stato.
Interessante notare come Dahrendorf preferisca parlare di “morale” e “moralità”, nonostante il Premio Agnelli venga conferito per i contributi alla dimensione “etica” nelle società avanzate. È lui stesso a illustrare le ragioni di questa preferenza, che in parte affonda nella sua formazione culturale (cita Smith e filosofi morali scozzesi del XVIII secolo, Kant e Durkheim), in parte deriva da una maggiore considerazione per ciò abbiamo acquisito dai romani, piuttosto che dai greci. «Noi europei abbiamo, credo, ereditato la nostra civiltà da Roma, non da Atene. Virgilio, non Omero, è il padre dell’Occidente» (2005b [1992]: 54). L’opzione ricade quindi sui mores, anziché sull’ἦθος. Da intellettuale che non si arrocca nell’empireo delle teorie, ma scende in campo, anche “sporcandosi le mani” con la politica, per favorire le azioni concrete, Dahrendorf ammira più Cicerone con le sue riflessioni sulla vita pubblica e i giuristi dell’imperatore Giustiniano con i loro studi sulle norme che i raffinati poeti greci. Il «dono di Roma all’Occidente» (2005b [1992]: 55) gli appare efficacemente riassunto dal titolo di un noto trattato sull’insegnamento del diritto: le Institutiones giustinianee.
Non è pertanto un caso, viste tali propensioni, che le sue scelte di vita lo abbiano condotto in Gran Bretagna, definita quale “moderna Roma”, fino al punto di chiederne e ottenerne la cittadinanza nel 1988, come ci tiene a precisare. Egli avverte un’affinità profonda con quella tradizione di pensatori «eminentemente pratici» nati in terra d’Albione, quali Locke, Hume, Smith, Bentham, Mill e Keynes, «che non si proposero di trasformare il mondo intero, e ancor meno di ricostruire un’Arcadia immaginata, ma di migliorare aspetti essenziali delle condizioni reali delle persone reali, qui ed ora» (2005b [1992]: 55). Esattamente l’approccio di Lord Ralf, e il cuore della tensione morale del suo cammino di studioso.
Coerente con questa impostazione, egli sceglie di riflettere sui tre concetti chiave enucleati (moralità, istituzioni, società civile) non in astratto, ma ripercorrendo episodi chiave della sua personale esperienza, che s’intrecciano con date e avvenimenti storici di più ampio significato, e si riverberano sulla sua produzione intellettuale.
Il percorso inizia richiamando un saggio giovanile, Homo Sociologicus, scritto nel 1957 e incentrato sulla storia, il significato e la critica della categoria di ruolo sociale (Dahrendorf 1966 [1959]). L’aspetto più innovativo di tale lavoro, che procurò all’autore apprezzamento da parte dei giovani studenti, consisteva proprio nella profonda analisi critica del concetto in esame. L’uomo sociologico, cioè l’uomo – e la donna – in quanto portatori di ruoli sociali, è «una creatura alienata», sottoposta alla pressione delle aspettative, ai vincoli, alle costrizioni che gli derivano dalla società. Dahrendorf metteva una luce una «realtà molesta» della società, in un periodo in cui la sociologia mainstream – Parsons docet – insisteva sull’importanza dell’integrazione di ruolo e si focalizzava sulla conformità e il consenso[v].
Questo orientamento critico era finalizzato ad affermare che «l’individuo reale, anzi morale, può e deve essere visto indipendentemente da tutti i suoi ruoli sociali» (Dahrendorf 2005b [1992]: 57): è eteronomo in quanto portatore di ruoli, ma autonomo in quanto essere morale e tale carattere morale «deve essere incoraggiato a combattere le imposizioni dell’“ombra sociologica” dell’uomo» (2005b [1992]: 57).
Ne derivava un conflitto tra il sociale e il morale, non risolvibile in teoria ma nella pratica, nel quale il sociologo era esortato a «smettere di essere un ostacolo e diventare un motore dello sviluppo di una società di uomini liberi» (2005b [1992]: 58).
Rispetto a questa impostazione, accanto agli entusiasmi dei giovani avidi di azione, vi erano le perplessità degli studiosi più anziani e d’esperienza. Dahrendorf riporta un commento critico di Helmuth Plessner (1960), dal quale a suo tempo si era difeso, ma che a distanza di oltre trent’anni gli appare almeno in parte condivisibile: «Se per rendere inattaccabile la sfera della libertà la identifichiamo con quella della privacy (e privacy, va aggiunto, in senso extra-sociale) la libertà perde ogni contatto con la realtà ed ogni possibilità di realizzazione sociale» (2005b [1992]: 58). Non era esattamente la tesi del giovane amburghese, ma su un aspetto il filosofo di Wiesbaden aveva colto nel segno. La motivazione profonda della trattazione svolta in Homo Sociologicus è rintracciabile, infatti, nell’«insistenza sul carattere assoluto di certi valori fondamentali» (2005b [1992]: 59), primo tra tutti la libertà. Di fronte alla difesa di tali valori assoluti, non negoziabili, non si può scendere a compromessi: in molte circostanze, l’unica moralità valida è l’etica della convinzione.
Nel dialogo con Weber, discutendo sull’opportunità, a seconda delle condizioni e degli ambiti, di optare per l’etica della responsabilità o quella della convinzione, affiora, con forza, il vissuto autobiografico di Dahrendorf e la sua esperienza dei totalitarismi (a 15 anni venne arrestato e imprigionato dai nazisti, provando, sulla propria pelle, la reale, autentica, mancanza di libertà e al contempo il desiderio struggente di essa) (1984a: 29). Da qui la diffidenza e finanche il disprezzo per coloro che, in nome della responsabilità, per impedire il peggio, scesero a patti, rimasero e sostennero i regimi totalitari. Per Dahrendorf l’etica della responsabilità può divenire una scusa per «quell’atteggiamento codardo che ha caratterizzato abbondantemente il nostro secolo, la collaborazione» (2005b [1992]: 59)[vi]. E sono i successori dei collaborazionisti, a suo avviso, a porre i maggiori problemi di moralità pubblica nei paesi postcomunisti degli anni Novanta.
Da uomo politico, oltre che intellettuale, Dahrendorf certamente riconosce che occorre tener conto della complessità dei rapporti tra mezzi, fini e conseguenze e non esclude pertanto il ricorso all’etica della responsabilità, che è l’etica dei politici. Ma ci sono soglie che non possono essere oltrepassate: verso i governi che uccidono, torturano, incarcerano senza processo e sopprimono la libertà di parola, un’unica reazione è possibile, «quella della ripugnanza e dell’opposizione incondizionate» (2005b [1992]: 59).
Purtroppo non basta porre certi valori fondamentali nella sfera di ciò che è assoluto e non può prestarsi ai condizionamenti dei ruoli sociali, come Dahrendorf aveva sostenuto in Homo Sociologicus. Occorre anche avere la capacità di affrontare le questioni morali quotidianamente, nella vita pratica, dove le cose, in maggior parte, non sono semplicemente o bianche o nere. Spesso i passaggi verso regimi illiberali avvengono insidiosamente, perché procedono in modo lento e graduale e ciò rende difficile individuare la soglia da non varcare. Il problema, quindi, è «sapere dove porre il limite» (2005b [1992]: 59). Ancora una volta l’educazione morale del giovane Dahrendorf passa attraverso un episodio autobiografico: il padre Gustav, vicepresidente del partito socialdemocratico nella Germania Est dell’immediato dopoguerra, seppe esattamente quando fosse giunto il momento di dire di no (2005b [1992]: 59-60), riuscì a rendersi conto che aprire la strada a trattative per una fusione con il partito comunista poteva condurre nuovamente alla non libertà, dissentì e se ne andò, mettendo a rischio la carriera e non solo (Dahrendorf 1984a: 29). Ciò avveniva l’11 febbraio 1946, una data che rimane simbolica nella memoria dello studioso e gli ispira, 45 anni dopo, una riflessione pregnante sul tema della moralità: oltre all’adesione interiore a certi valori fondamentali, è essenziale avere la sensibilità e il coraggio di accorgersi di quando l’etica della responsabilità «debba essere abbandonata e diventi necessario prendere posizione» (Dahrendorf 2005b [1992]: 60).
Quanto le argomentazioni di Homo Sociologicus fossero legate ai vissuti personali e all’esperienza dei totalitarismi, non fu colto all’epoca il cui il saggio venne scritto e pubblicato, verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento, in paesi, quali gli Stati Uniti e la Germania Ovest, dove non vi erano tentazioni totalitarie in corso. La posizione di Dahrendorf di allora, che rivendicava un diritto morale autonomo dell’individuo di resistere alla “realtà molesta della società”, si inserì in un umore collettivo che finì con l’ispirare i turbolenti avvenimenti del 1968. Si tratta di un’altra data chiave nel percorso intellettuale e morale dahrendorfiano, dalla quale deriva un’ulteriore “lezione” da trarre dall’esperienza. Pur nella diversità di configurazioni che assunse dei diversi paesi e negli scarti temporali degli eventi ad esso connessi, il 1968 appare accomunato da un «filone anarchico negli intenti e anomico negli effetti», da una «protesta contro la società e i suoi vincoli sotto ogni aspetto e in ogni forma» (Dahrendorf 2005b [1992]: 61). Non si trattò solo di richieste di maggiore democratizzazione, in ambiti quali l’università, la famiglia, il lavoro, ma della spinta all’abolizione di ogni autorità, della discussione di tutto da parte di tutti. La lezione che se ne ricava è per Dahrendorf molto netta: «l’anomia è dannosa per la libertà» (2005b [1992]: 61), l’assenza o carenza di norme conduce al disorientamento e al disordine, i riferimenti dei valori si sgretolano, e la libertà «viene trasformata in un incubo esistenzialista, in cui tutto è lecito e nulla è importante» (2005b [1992]: 61).
Richiamandosi al Second Treatise of Government di Locke, da sempre ammirato, Sir Ralf rimarca gli inconvenienti dello stato di natura, di per sé anarchico, e l’importanza di un patto sociale che dia orientamento attraverso le istituzioni. Esse comportano norme, sanzioni, forme organizzative, ordinamento giudiziario, costituiti in comune, e, in senso più ampio, le regole accettate della vita con gli altri. Ma devono essere regole con un significato, per cui possano essere date delle ragioni, e sorrette da autorità che siano tenute a rispondere delle proprie azioni.
Occorre notare come, nella maturazione del proprio pensiero, rispetto al valore fondamentale della libertà, gli intenti della riflessione dahrendorfiana si spostino dai modi in cui porne il carattere assoluto alla ricerca delle condizioni che ne rendano possibile la pratica concreta. C’è una «correzione di veduta» rispetto allo scritto giovanile Homo Sociologicus, «in cui mancava ancora qualcosa della comprensione del senso delle istituzioni» (2005b [1992]: 54).
Le istituzioni assumono importanza, quindi, perché «servono a preservare la libertà», certo se non sono «puramente “legali”, ma anche “legittime”» (2005b [1992]: 62). Ha in mente leggi ragionevoli e governi democratici che possano essere rimossi e sostituiti. È consapevole che possa esservi un problema di istituzionalizzazione eccessiva, di “ipernomia”, ma la preoccupazione maggiore rimane l’assenza di norme e autorità efficaci, poiché diventa una minaccia per la libertà. «La libertà non è uno stato originario dell’uomo al quale si possa ritornare eliminando tutti i vincoli, né un vuoto postmoderno in cui tutto è lecito. La libertà è una forza civile e civilizzante. Essa fiorisce quindi solo se riusciamo a creare a mantenere istituzioni che le diano stabilità e durata», per cui, «quando aumentano i rischi di anomia, il più importante compito per un liberale è quello di costruire istituzioni» (2005 [1992]: 63). L’importanza che Dahrendorf assegna a questo decisivo pilastro della società aperta, è testimoniata dal fatto che, fra le pochissime citazioni di proprie opere che compaiono nella prolusione con cui accettò il premio Agnelli, vi sia esplicito riferimento alle Hamlyn Lectures del 1985 su Law and Order (1991 [1985]), che riassumono le conclusioni sul rilievo degli aspetti normativi e istituzionali a cui era approdato a partire dall’esperienza del 1968.
Le istituzioni avranno, come vedremo, un ruolo imprescindibile anche nel discorso sulla cittadinanza, che assume centralità crescente nella riflessione dahrendorfiana a partire dagli anni Settanta del Novecento (1974; 1977a; 1989 [1988]; 1993) sono esse, infatti, che garantiscono i nostri entitlements[vii], i nostri diritti, quindi la giustizia sociale, e sempre esse che forniscono la struttura di base per le provisions, i beni materiali e immateriali tra cui scegliamo, sui cui si fonda prosperità economica e che danno “sostanza” alla titolarità dei diritti. Se si vuole estendere la cittadinanza e promuovere maggiori opportunità di vita per il maggior numero di persone, occorre operare attraverso le istituzioni, senza mai smettere di migliorarle e perfezionarle. Compito arduo, soprattutto quando ogni aspetto dell’ordine sociale va sgretolandosi, quando il contratto sociale stesso è in gioco, come è avvenuto con il crollo dei regimi comunisti dell’Est Europa e la cosiddetta rivoluzione del 1989.
È dalle vicende del 1989 che Dahrendorf trae la terza lezione, il terzo spunto di riflessione in merito alle condizioni di una società libera e giusta. Egli legge con speranza, ma insieme con preoccupazione, i cambiamenti in corso nei paesi appena usciti dal socialismo reale, alcuni così rapidi da lasciare un vuoto attraente per avventurieri e speculatori, altri così graduali da permettere alla vecchia nomenklatura di riadattarsi. In questi casi non si tratta di perfezionare le istituzioni, ma di instaurare da capo quelli che Daherndorf considera i due istituti base della libertà, cioè la democrazia e l’economia di mercato, ed è quanto mai difficile farlo partendo da delle macerie (1990). È difficile soprattutto perché decenni di monopolismo di Stato, di partito unico e nomenklatura al potere hanno atrofizzato la società civile, che è il terzo fondamentale pilastro di cui ha bisogno la libertà per essere salvaguardata. «La caratteristica essenziale della società aperta è che le nostre vite si svolgono in “associazioni” che stanno al di fuori della portata dello Stato» (Dahrendorf 2005b [1992]: 64). La pluralità e il caos creativo di tali associazioni, l’articolarsi dei cittadini in innumerevoli parti, interessi e classi, che è ciò che avviene quando la società civile è vitale e favorita dai governi liberali, protegge dalle possibili pretese monopolistiche avanzate da minoranze e maggioranze e dalla eccessiva intromissione dello Stato.
Quanto tale presupposto di base della libertà possa essere fragile e complesso da costruire, ma anche esposto a snaturamenti e derive, emerge con forza dagli sviluppi e dalle lotte di transizione nei paesi postcomunisti. La politicizzazione di esponenti della società civile, il fatto che debbano sentirsi chiamati a ruoli di governo, lasciando le loro passioni e occupazioni principali, può essere entusiasmante – come vedere il drammaturgo Václav Havel quale Presidente della Repubblica nel Castello di Praga – ma secondo Dahrendorf è in qualche modo una forzatura, una prova che la società civile non è ancora consolidata. Ancor più preoccupanti, a suo avviso, sono le varie versioni del fondamentalismo, per lo più religioso o nazionalista, che osserva diffondersi in varie parti dell’Europa orientale all’inizio degli anni Novanta. Vi vede forme estreme di risposta a quella esigenza di appartenenza che è connaturata nell’uomo, alla quale democrazia ed economia di mercato non possono dare adeguata soddisfazione. In caso di difficoltà, politiche o economiche, tali forme di legame basate su credi aggressivi, possono degenerare e aprire la strada a falsi dèi e nuovi dittatori. «Se mai vi è un qualche rimedio a simili minacce alla libertà, lo si deve trovare nella sfera della società civile. L’esigenza umana di appartenenza può essere soddisfatta da una pluralità di associazioni, che in quanto tali non abbiano pretese politiche» (Dahrendorf 2005b [1992]: 66), ma offrano alcuni legami intensi, e una molteplicità di legami più deboli, variamente combinati. Certo, avverte Dahrendorf, ciò dipende in parte dalle istituzioni, che possono incentivare lo sviluppo di una società civile vivace, e in parte dal senso civico dei singoli, che è molto più lento e faticoso a formarsi.
Le riflessioni su moralità, istituzioni e società civile hanno un obiettivo: l’idea della cittadinanza nel «senso più ampio e profondo di questa parola» (Havel 1991). Nella parte conclusiva del discorso di accettazione del Premio Agnelli si precisa il terminus ad quem del «piccolo viaggio attraverso l’educazione morale di un intellettuale europeo» (2005b [1992]: 67) in cui Daherndorf, con licenza autobiografica, ha inteso condurre i suoi uditori. È proprio nella cittadinanza, infatti, che egli vede riassumersi i tre elementi decisivi di una società aperta: essa è un’istituzione, un insieme di diritti fondamentali, di entitlements, che devono essere riconosciuti e garantiti a tutti i cittadini; ha a che fare con la moralità, sia perché i cittadini devono essere civili e civilizzati, sia perché incarna la tensione verso una società migliore, in cui ci siano più ampie chances di vita per il maggior numero di persone; infine, presuppone e arricchisce la società civile, che è l’ambiente in cui essa prospera.
E non è tutto: la cittadinanza è anche «l’epitome della libertà»[viii], in un senso che va oltre il liberalismo classico e si esplicita come libertà attiva, come opportunità reale. Sulla questione cruciale della libertà, Dahrendorf intesse un breve ma fecondo dialogo con i due studiosi che l’hanno preceduto come vincitori del Premio Agnelli: Isaiah Berlin e Amartya Sen. Egli ripropone la nota distinzione di Berlin (2000 [1958]) tra libertà “negativa” e libertà “positiva”, ma, rispetto alla propensione di quest’ultimo per la libertà “da” vincoli indebiti, utilizza in risposta le parole di Sen (1997 [1990]) che collegano i due tipi di libertà e ne mostrano la necessità congiunta. Poi propone un passo avanti nel dibattito sul tema: «la questione non è che la libertà sia negativa o positiva, ma che essa è un’opportunità, una chance – una condizione in cui le persone sono in grado di scegliere la loro strada, sia nel senso che nessuno impedisce loro di farlo, sia nel senso che viene loro data la possibilità di farlo. […] Ma coloro per i quali la scelta rimane una cinica promessa senza alcun riscontro reale, non sono liberi» (Dahrendorf 2005b [1992]: 68-69)[ix].
In queste parole c’è tutto il senso della sfida intellettuale e dell’impegno pratico e pubblico dell’autore: come conciliare la libertà con la coesione e la giustizia sociale, come salvaguardare le istituzioni democratiche e l’economia di mercato e insieme aumentare il benessere umano nell’intero pianeta. Ne emerge il profilo di un “liberale radicale” che sollecita all’azione e all’assunzione di responsabilità, per il quale i diritti sociali di cittadinanza sono una condizione di progresso altrettanto importante dei diritti civili di libertà. Non basta che una società sia in grado di produrre beni in abbondanza perché si abbia effettivamente benessere diffuso: è la combinazione, sempre instabile e conflittuale, tra entitlements e provisions, tra rivendicazione di diritti e disponibilità di beni, a determinare il benessere di una società e le chances di vita di ciascuno (Dahrendorf 1989 [1988]). Quando l’accento viene posto prevalentemente sulla crescita economica, come avviene in modo ricorrente nelle società capitalistiche, occorre dare nuovo spazio alla cittadinanza, a quegli entitlements incondizionati che trascendono e contengono le forze del marcato. E occorre promuovere una “società civile mondiale”: pensarla come vincolata ai singoli paesi, si risolve in privilegio per quelli materialmente e culturalmente più ricchi. Infatti, «fin tanto che essa è contenuta nei confini delle nazioni, è anche accompagnata da atteggiamenti, politiche e regole di esclusione che violano i principi di fondo della società civile. Il compito storico di creare una società civile sarà compiuto solo quando ci saranno diritti di cittadinanza per tutti gli esseri umani. Noi abbiamo bisogno di una società civile mondiale» (Dahrendorf 1989 [1988]: 57).
Cittadinanza e società civile ne emergono come obiettivi morali, obiettivi per cui lottare e per cui non si finisce mai di lottare: è questo forse il più importante lascito dahrendorfiano che siano chiamati a raccogliere.
Marta Picchio, PhD, è ricercatrice di Sociologia generale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, umane e della formazione dell’Università degli Studi di Perugia. Tra i suoi interessi di ricerca, i classici della Sociologia, la Sociologia dello straniero, della cittadinanza e dei diritti umani (marta.picchio@unipg.it).
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[i] La copia conservata presso la Fondazione Agnelli è un esemplare del libretto, con pagine non numerate, che fu diffuso tra il pubblico invitato alla cerimonia di assegnazione del premio, nella sala dell’Opera di Torino, il 30 marzo 1992. Si ringrazia sentitamente la Fondazione Agnelli, in particolare Stefania Padulano dell’Amministrazione, per aver messo a disposizione il testo originale scansionato in pdf.
[ii] Dapprima il testo fu inserito, in inglese, in una raccolta, redatta verso la fine degli anni Novanta, di seminari, discorsi e lezioni curata da Dahrendorf (1997a); successivamente, su concessione della Fondazione Agnelli, entrò a far parte – con alcune modifiche redazionali e testuali più un’introduzione dell’autore – dell’insieme di scritti che spaziano dal 1990 al 2003 pubblicati da Laterza con il titolo, non rispondente all’originale tedesco di un anno precedente, La società riaperta (Dahrendorf 2005a [2004]).
[iii] Della considerazione e quasi l’“affetto” che Dahrendorf nutriva per questo breve testo, sono prova anche le parole introduttive che ad esso dedica a distanza di anni: «si tratta in un certo qual modo, se l’espressione non suona eccessiva, di una professione di fede intellettuale» (Dahrendorf 2005b [1992]: 54).
[iv] «Società aperte sono le società che consentono il tentativo e l’errore. Questa è la definizione più semplice del concetto […]. Com’è naturale, il concetto traduce la teoria della conoscenza di Popper applicata alle situazioni sociali, economiche e politiche. Noi non possiamo sapere, possiamo solo ipotizzare. […] Non possiamo essere sicuri di come debba presentarsi la buona società, possiamo solo proporre dei progetti che vadano in quella direzione […] la possibilità di dibattere i loro pro e contro è appunto ciò che il vivere in una società aperta assicura» (Dahrendorf 2005a [2004]: 197).
[v] Come sottolinea Abbonizio (2021), il giovane Dahrendorf, negli anni Cinquanta e Sessanta, riuscì a incrinare il dominio delle teorie basate unilateralmente sul principio dell’integrazione, mettendo in luce come il conflitto possa essere un fattore decisivo del mutamento sociale.
[vi] Nella versione originale del discorso, conservata presso la Fondazione Agnelli, il passo è più netto: la collaborazione è definita con un superlativo, come l’atteggiamento «più codardo» del Novecento.
[vii] Il termine entitlement è mutuato da Povertà e carestie di Amartya Sen (1981), quindi da un ambito di critica economica ai problemi di povertà.
[viii] Guardando alla cittadinanza in prospettiva storica, circoscrivendo l’analisi ai principali paesi occidentali, essa appare a Dahrendorf, sulla scorta di Marshall (2002 [1950]), come un “percorso verso la libertà”, un percorso “da sudditi a cittadini”, come precisa citando il titolo di un noto volume di Giovanna Zincone (1992), sociologa politica che conosceva personalmente e che ha contribuito a diffonderne il pensiero in Italia. Per un toccante ricordo di Lord Ralf da parte della studiosa torinese, a lungo direttrice di «Biblioteca della Libertà», che pubblicò numerosi scritti dell’autore, si rinvia a Zincone e Gastaldo (2009).
[ix] Il complesso tema della libertà, come intenderla, come analizzarne i cambiamenti, come conciliarla con gli altri valori fondanti delle società aperte, e come collegarla al liberalismo quale orientamento politico, anch’esso in trasformazione, corre lungo l’intero percorso intellettuale dahrendorfiano: si veda, tra gli altri, Dahrendorf 1977b; 1979; 1984b; 1988; 1989; 2005c.