Nei loro studi teorici su Lettore Modello e Lettore Empirico, Umberto Eco e Wolfgang Iser, autori dei caposaldi della Teoria della Ricezione, non si sono misurati con la produzione letteraria di Flannery O’Connor. Nata e vissuta (1925-1964) nella Bible Belt degli Stati Uniti, la scrittrice stessa non ebbe un rapporto propriamente sereno con la sua readership e per più di un motivo la sua narrativa si presta a un’interessante disamina del ruolo del lettore. Caparbia e pienamente convinta della propria prospettiva cattolica in un ambiente ad altissima presenza protestante, la O’Connor fondamentalmente se ne infischiava del lettore empirico, di colui che, come indica il termine, effettivamente prendeva in mano i suoi libri e li leggeva riscontrandovi le più disparate tematiche. Era senza dubbio maggiormente interessata al Lettore Modello, o lettore ideale, quella entità fittizia in grado di percepire tutto il contenuto potenziale del testo, in grado di realizzarlo appieno.
Il lettore empirico entrava nella sua orbita nel momento in cui l’orizzonte estetico dei suoi scritti veniva travisato o ignorato, come nel caso in cui la sua opera finiva incasellata in quella tradizione letteraria del Sud, la School of Southern Degeneracy, popolata dai personaggi eccentrici, spesso sessualmente audaci, di Truman Capote, Carson McCullers, Tennessee Williams. «Tutto ciò che proviene dal Sud verrà chiamato grottesco dal lettore del Nord», ebbe a scrivere a proposito, «tranne nel caso in cui sia davvero grottesco, e allora sarà chiamato realistico».
Realistico e grottesco, sano e malato, sacro e blasfemo, normale e abnorme sono alcune delle dicotomie oppositive tra le quali, come su un letto di Procuste, le aspettative del suo lettore vengono dolorosamente tirate. Dunque, come aveva teorizzato cent’anni addietro Edgar Allan Poe, la brevità del racconto e il suo effetto sul fruitore ultimo sono elementi imprescindibili per comprendere l’uso che la O’Connor fa di quell’epifania simil-joyciana che avviene in un dato momento della narrazione e che al lettore impreparato appare violentemente traumatica ovvero misteriosamente affascinante. Nei suoi due romanzi, La saggezza nel sangue (Wise Blood), 1952 e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away), 1960, ma ancor più nelle sue due raccolte di racconti, pubblicati nel 1956 e nel 1965, postumi in italiano, col titolo di La vita che salvi può essere la tua, e poi in varie collezioni, quella che per Joyce era un’epifanica rivelazione della realtà, un velo che si squarciava senza scosse troppo evidenti, diventa per i suoi personaggi una violenta, se non violentissima, presa di coscienza, a volte con esito fatale.
Il lettore modello, affinate le proprie competenze enciclopediche specifiche (postulate da Eco) relative al mondo estetico dell’autrice, capirà che i corpi che esplodono (“Il profugo”) o che vengono sventrati (“Greenleaf”) o smembrati (“Brava gente di campagna”), impallettati a sangue freddo (“Un brav’uomo è difficile da trovare”), deturpati o violentati nei modi meno prevedibili, nel migliore dei casi gabbati e turlupinati (“La vita che salvi può essere la tua”) non sono altro che corpi fino ad allora privi della grazia divina e talmente ottusi, talmente induriti dalla secolarizzazione del loro piccolo mondo, da dover necessariamente essere sottoposti a tali violenze per salvarsi. Sono anche corpi che s’impongono massicciamente in primo piano, invadenti e deformi (“Il geranio”, “Gli storpi entreranno per primi”, “Il giorno del giudizio”), perché nell’ottica cattolica dell’autrice il rifiuto della corporeità sancito dal protestantesimo è, fondamentalmente, un’eresia.
Come recita il titolo di un suo racconto, il corpo è “Il tempio dello spirito santo”, e la sua narrativa espone e impone la centralità del corpo, tanto che la critica ha parlato di «arte incarnata» (Christina Bieber Lake, The Incarnational Art of Flannery O’Connor, 2005). Paradossalmente, c’è chi ha ritenuto talmente di nicchia la sua visione estetica, improntata alla teologia di Sant’Agostino e agli scritti del gesuita Pierre Teilhard de Chardin, entrambi decisamente distanti dal bagaglio del lettore medio americano del secondo dopoguerra (e non solo), da impedire la massima (ideale) fruizione della sua narrativa, sminuendone, di conseguenza, la portata culturale (Carol Shloss, Flannery O’Connor’s Dark Comedies. The Limits of Inference, 1980). In realtà, la grandezza di questa autrice sta proprio nella capacità di produrre testi narrativi che possono essere efficacemente navigati a svariati livelli di profondità senza perdere la loro forza evocativa e guadagnandosi comunque un posto di assoluto rilievo nel pantheon della letteratura novecentesca.
La sofferta appartenenza regionale, per esempio, offre uno sfondo ambientale che è di per sé già alta letteratura. Non perché si sentano gli echi di altri autori del Sud, al di là di quelli a lei contemporanei che lei non amava, che pur ci sono (il folklore ottocentesco della Georgia, per esempio, e lo stesso William Faulkner), ma perché, nella sua convinzione agostiniana che la realtà «fluisca da Dio in due modi, intellettualmente nella mente degli angeli e fisicamente nel mondo delle cose», a un livello denotativo, la sua opera è profondamente radicata in un realismo pittorico ad altissimo potere narrativo. A popolare i suoi testi è gente comune in situazioni comuni in luoghi immediatamente riconoscibili: le colline della Georgia, le campagne di tutto il Sud, in qualche caso le città, da Atlanta finanche a New York. L’abbigliamento, i modi di fare, i modi dire, l’arredamento delle case, sono tutti presentati con dovizia di dettagli.
C’è sempre una dimensione domestica dalla quale il/la protagonista parte per poi confrontarsi con entità esterne e scoprire, mai senza un conseguente shock, che i confini tra il sé e l’altro sono labili, e che quella corazza psico-fisica nella quale si trincera è immancabilmente destinata a essere penetrata e abbattuta. La centralità di tale schema ricorrente porta lo sguardo del narratore a poggiarsi sempre su paesaggi e ambienti che si prestano a una connotazione prima di tutto evocativa e poi anche simbolica: il limitare del bosco, un solco tra due pascoli, lo steccato intorno alla fattoria, il fiume (un battesimo decisamente peculiare avviene appunto nel racconto “Il fiume”), i binari del treno (“Il negro artificiale”), la tromba delle scale attraverso la quale non si sale più verso casa ma verso un più alto senso della vita (“Un colpo di fortuna”).
È come se l’autrice aspettasse al varco sia il lettore, sia il malcapitato personaggio, destinati entrambi a essere privati delle loro fatue certezze e a subire la violenza della grazia divina. La stessa O’Connor, nelle sue lucide e taglienti osservazioni sull’arte della scrittura (Mystery and Manners, tradotte in italiano come Nel territorio del diavolo), dichiara di cercare sempre qualche crossroads, un incrocio particolare dove terreno e divino si incontrino, così come avviene per il sacramento cattolico. Il viaggio, con conseguente senso di direzione o di disorientamento, le aree liminali tra una geografia e un’altra, i luoghi-non luoghi come le sale d’aspetto, diventano quindi il setting perfetto per obbligare i riottosi protagonisti a guardarsi dentro, a percepire la realtà, a veder scardinata la propria presunzione di superiorità. Nulla come gli intellettuali cinici e disincantati la disturbano e diventano vittime dell’ironia dell’autrice. Ma anche la tipica proprietaria terriera che guarda dall’alto in basso le famiglie di lavoranti della fattoria, considerate white trash, poco più elevate del tipico nero analfabeta e strafottente. Sono intellettuali i protagonisti di due tra i racconti più noti e amati di questa autrice, Hulga, la studiosa di filosofia con una gamba di legno in “Brava gente di campagna” e Julian, il laureato in “Punto Omega”, la prima sottoposta a una violenza psicologica e fisica molto simile a uno stupro da parte di un perverso venditore ambulante, il secondo destinato a un infinito dolore per aver tormentato la madre fino all’esito fatale. Ma in entrambi i racconti l’intellettuale è contrapposto a un altro personaggio che ritiene di conoscere la vita meglio di lui/lei, in uno schema di coppia che genera un conflitto immancabilmente comico.
«La bambina aveva preso la laurea in filosofia e questo era fonte di massimo imbarazzo, per la signora Hopewell. Si poteva dire: mia figlia è infermiera o mia figlia è maestra, e persino mia figlia è ingegnere chimico. Ma non si poteva dire: mia figlia è un filosofo. Quelle, erano cose finite coi greci e coi romani”, dichiara la madre della trentenne protagonista di “Brava gente di campagna».
Non è necessario essere intellettuale, però, per ritrovarsi in un contrasto di questo tipo, in cui un personaggio diventa il bersaglio della presupponenza di un altro, in uno schema ricorrente, spesso volto a svelare la fondamentale ignoranza di entrambi. C’è un caso in cui, fuor di metafora, una di queste ormai riconoscibili donne tronfie e supponenti viene effettivamente colpita su un occhio dal libro lanciato da una ragazza che non sopporta più le sue stupide massime. Non è un caso che il punto di urto sia un occhio: la signora, come dal titolo del racconto, è costretta a una “Rivelazione”. Nonno e nipote, in un altro dei racconti più riusciti dell’autrice, “Il negro artificiale”, non fanno che punzecchiarsi per chi abbia più nozioni ed esperienza su come sia la città, mondo in realtà alieno a loro, che vivono in una dimessa casa isolata nelle campagne della Georgia. Entrambi, dopo un viaggio pieno d’imprevisti, torneranno a casa, ovviamente non come ne erano partiti. Il testo, infatti, ripercorrendo lo schema del country come to town, ovvero del campagnolo che si trova spaesato nell’ambiente urbano, è anche un perfetto esempio del racconto di iniziazione.
Antico quanto l’arte stessa della narrativa, lo schema dell’iniziazione prevede necessariamente un viaggio, un luogo di partenza che sarà poi quello dell’arrivo finale, una serie di cronotopi di “soglia” come l’alba o la mezzanotte, nonché vari altri elementi spaziali e simbolici che appaiono, astutamente intessuti, nelle maglie di questo racconto. Un bel giorno, all’alba, Nelson e il nonno partono dalla loro dimora di campagna per andare a vedere Atlanta. Sul treno, dimenticano il pranzo che si erano preparati a casa, così come dovranno dimenticare il loro vecchio io nel percorso di cambiamento iniziatico. Ma la caratteristica più interessante di questo testo è che i due protagonisti saranno esposti a un drammatico confronto con la questione della razza, un universo di significanti e significati di enorme portata storica e sociale. In un Sud in cui il fardello del segregazionismo è ancora onnipresente come se il tempo si fosse fermato prima del 1865, il senso ultimo del messaggio della O’Connor è che la razza è una categoria artificiale. Non solo il bambino, che non ha mai visto un uomo di colore, non riuscirà a distinguerli dai bianchi (gli sembrano solo più abbronzati o “color caffè”), ma, finito in un quartiere afroamericano, sarà profondamente attratto da una grossa, sensuale donna nera, nella quale, alla fine, rivede se stesso.
Il programmatico confronto tra il sé e l’altro più di una volta, in questi racconti, si presenta sotto forma di distorto specchio razziale. Nel già citato “Punto Omega”, il cui titolo è tratto da Teilhard de Chardin (in originale “Everything That Rises Must Converge”), la mamma borghese di Julian, così attenta alla forma da entrare in un autobus «come se entrasse in un salotto in cui tutti l’aspettavano», così ancorata alla sua appartenenza sociale e razziale, morirà di crepacuore dopo un traumatico faccia a faccia con una donna di colore che indossa il suo stesso identico cappello (che le era parso inconfondibile segno di distinzione) e che non accetta il suo comportamento maternalistico.
Il profugo dell’eponimo racconto, invece, è un immigrato polacco che è percepito come minaccia talmente subdola e potente dalla proprietaria dell’ennesima fattoria, da provocarle uno shock fisico simile a un’esplosione, dopo il quale – anche se ad altissimo prezzo – la donna potrà uscire dalla gabbia del suo corpo insensibile e impermeabile. Se le immagini di gabbia, recinto, steccato, sono ricorrenti (parte del romanzo La saggezza nel sangue si svolge in uno zoo), ciò avviene come emblema del bisogno che questi personaggi hanno di trincerarsi nelle loro certezze, all’interno delle quali, però, illudendosi di salvarsi, si precludono la vera salvezza. Oltre alla lettura religiosa, a quella di matrice razziale, e a quella improntata alla semiotica dello spazio, non bisogna però trascurare un approccio che storicizzi questa produzione letteraria all’interno del discorso della Guerra Fredda. Così il polacco, il venditore di Bibbie, e tutti i criminali e i truffatori che incombono sui placidi universi della O’Connor sono anche una rappresentazione di quel senso di invasione e minaccia che l’America degli anni Cinquanta riconduceva (non sempre esplicitamente e non sempre consapevolmente, si pensi al film L’invasione degli ultracorpi) alla red scare, al terrore nei confronti del nemico comunista (Jon Lance Bacon, Flannery O’Connor and Cold War Culture, 2005). Così il più efferato tra i criminali che popolano questa fiction, il Misfit di “Un brav’uomo è difficile da trovare”, che decide di sterminare un’intera famiglia per nessun altro motivo se non per pura malvagità, può assumere, per il lettore ideale, tutta una serie di connotazioni che lo rendono meno inspiegabile e agghiacciante.
L’ironia di alcuni titoli della O’Connor, come anche il suo stile realistico talmente dettagliato da intessere con grande leggerezza nelle sue maglie la controparte simbolica, nasconde al lettore impreparato che l’autrice si muove prevalentemente, come sosteneva lei, “nel territorio del diavolo” (per questo amava Dante e il suo netto schematismo della Commedia). Un artista che abbia intenti spirituali, diceva Flannery, troverà nella vita moderna delle distorsioni che lo disgustano e il suo problema sarà farle apparire come distorsioni a un pubblico che è abituato a vederle come naturali. «Questo artista potrebbe essere obbligato a usare i mezzi più violenti possibili per far arrivare la propria visione a un pubblico di lettori ostili. Quando ritieni che il tuo pubblico condivida i tuoi valori ti puoi rilassare e parlargli in modo normale. Ma a chi ha problemi di udito devi urlare. Per chi è quasi cieco devi disegnare figure enormi e spaventose». Mai manifesto letterario fu più chiaro e calzante di questa postilla a una produzione letteraria violenta, grottesca e destabilizzante. Ma non illudiamoci di essere, così, passati dalla categoria del lettore ostile a quella del lettore ideale. C’è un livello di mistero che, nella narrativa di Flannery O’Connor, non si concede mai pienamente all’interpretazione. La prosa dell’autore ideale che ella aveva in mente si sarebbe costantemente spinta verso “i confini del mistero”, poiché per quel tipo di scrittore il significato di una storia non inizia se non a una profondità alla quale «l’adeguata motivazione e l’adeguata psicologia e tutti i vari approcci siano già stati soddisfatti. Tale scrittore sarà sempre più interessato a ciò che non capiamo piuttosto che a ciò che capiamo».
Flannery O’Connor (Savannah, 25 marzo 1925 – Milledgeville, 3 agosto 1964) è stata una delle più importanti scrittrici statunitensi del ‘900. Fervente cattolica, figlia del Sud protestante degli Stati Uniti e dell’area culturale della Bible Belt, scrisse 32 racconti e 2 romanzi, La Saggezza nel Sangue (1952) e Il Cielo dei Violenti (1960). Spesso caratterizzati da un registro grottesco, i suoi racconti presentano spesso eventi imprevedivili, quasi a rappresentare la presenza di un fattore “altro”, imponderabile, nei destini dei suoi perasonaggi, riconducibile alla sua formazione protestante. Esistono oggi due fondazioni che prendono il nome della scrittrice e che hanno sede nella sua casa natale a Savannah, la “Flannery O’Connor Childhood Home”, e nella fattoria di famiglia a Midgeville, la “Andalusia Farm”, dove visse la maturità e si trasferì per porre sollievo ai suoi problemi di salute.
Alessandro Clericuzio insegna Lingua e Letteratura Angloamericana all’Università di Perugia. Si occupa di teatro contemporaneo, poesia e multiculturalismo nel mondo anglosassone. Ha dedicato diversi lavori all’opera di Tennessee Williams, ed è autore di Grottesco americano. I racconti di Flannery O’Connor.