«La Madonna del Santo Venerdì… m’ispira questo saluto a Mila che rivive dalle ceneri della catasta e in voi nuovamente s’incarna. La Madonna del Santo Venerdì ha oggi il viso velato della mia più bella malinconia. Alle campane del mio campanile rustico è messo il bavaglio. Il silenzio de’ miei ulivi è tanto doloroso che sembra ascoltare la divina ambascia da cui gronda il sudore di sangue. Mi ritorna a quando a quando nello spirito alcuna parola della madre misera che dice l’ora della passione, e alcuna di Mila che si accusa davanti al popolo giusto; e l’ultima voce di Ornella che promette il paradiso alla maledetta».
Da dove mai era saltato fuori quel foglio?
Esule da poco al Vittoriale D’Annunzio aveva inviato quella lettera aperta all’attrice Vera Vergani che interpretava Mila nella Figlia di Iorio, il suo capolavoro, ripreso all’Argentina, dopo diciotto anni dal debutto, il 15 aprile di quell’anno 1922.
Dario Niccodemi, il direttore della compagnia, l’aveva letta agli spettatori nell’intervallo tra il secondo e il terzo atto.
Il tono era pieno di rimpianto e di nostalgia: il poeta vi rievocava i luoghi in cui era stata composta l’opera e non nascondeva il suo umore in quei mesi che precedettero la marcia su Roma.
«Ho dimenticato tutto il resto. Ma mi rifluisce oggi nel cuore la nostalgia dei luoghi dove l’opera fu costrutta, e quell’affannata felicità che accompagnava il canto scaturito da una sorgiva più profonda della mia anima stessa, sgorgato dalle vene perenni di tutta la mia gente… Domani notte, nella notte tra il sabato di Resurrezione e la domenica di Pasqua maggiore, mi piacerebbe di ritrovarmi sulla spiaggia di Nettuno; mi piacerebbe di camminar solo in sogno dietro il gregge nero e bianco, e di ripassare a guado il Loricino, e di riguardare i monti di Cori spetrati dall’albore della luna scema, e di riascoltare in me la fedele tristezza della mia stirpe… Beato Aligi che poté dormire settecent’anni e non ricordarsi più della sua culla…».
In quegli stessi giorni della Pasqua del 1922 D’Annunzio così scriveva in una lettera alla Duse per invitarla a raggiungerlo sul Garda: «Ho un’automobile per il viaggio. Offro questo con molto tremito, come tu sai. E non spero né dispero. Fa quello che il cuore ti dice. Sappi che ho per te, Ghisola ed Eleonora, un sentimento divenuto più alto e più vasto nel ricordo e negli anni; e che sono un povero uomo».
La loro storia d’amore, iniziata nel 1894, era finita bruscamente nel 1904 e da allora non si erano più visti.
L’avrebbe incontrata per l’ultima volta a Milano nell’agosto di quello stesso 1922 e, dopo la misteriosa caduta dalla finestra del Vittoriale, il 19 settembre le avrebbe scritto il seguente telegramma: «Gabri attende da Ghisola la parola della resurrezione. Giunsero ieri i bozzetti delle scene secondo mie indicazioni. Non so se io debba mandarle a Milano e poi curarne esecuzione. Non so sperare una visita francescana all’inferno. Cercherò in ogni modo venire io stesso».
Diciotto giorni dopo la dura lettera indirizzata da D’Annunzio a Mussolini il 9 gennaio 1923, a pochi mesi dal suo sessantesimo compleanno Ernst Hemingway, sul «Toronto Daily Star» del 27 gennaio, dichiarava: «Può darsi che duri quindici anni come può darsi che venga rovesciato la primavera prossima da Gabriele D’Annunzio che lo odia… Sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso, che è Gabriele D’Annunzio».
L’anno successivo, il 10 giugno 1924, sarebbe avvenuto il delitto Matteotti ma bisogna attendere la pubblicazione del primo volume delle Faville del maglio per trovare in una lettera del Vate a un legionario, secondo quanto riferito dall’on. Tito Zaniboni, la seguente espressione risentita: «Sono molto triste di questa fetida ruina».
Proprio quell’anno, meno di due mesi prima, il 21 aprile, un lunedì di Pasqua, la Duse era morta a Pittsburg e D’Annunzio, sconvolto, le avrebbe dedicato le pagine memorabili del primo volume delle Faville , dove la presenta come la consolatrice «del tempo dell’ebrietà di Alcyone».
Forse, mentre scriveva quelle pagine, il suo pensiero andava a quei giorni dell’estate del 1903 quando, dopo aver compiuto, in «Settignano di Desiderio», i suoi quarant’anni e dopo aver scritto per l’occasione le scintillanti pagine delle Esequie di giovinezza, si era andato a rifugiare nella villa Borghese a Nettuno.
La Duse lo aveva raggiunto ed era lì con lui.
Cavalcavano lungo la spiaggia. Il velo svolazzante che Eleonora portava intorno al capo e lasciava libero dietro a sé come un’ala, il modo eccentrico di vestire e di cavalcare di lui, provocavano spesso commenti ironici. Erano cavalcate oltre il campo dei tiri d’artiglieria, attraverso la macchia, sulla strada di Torre Astura, dove il poeta e la divina andavano a godere il tramonto e a cercare ispirazione.
Tutto ritornava alla mente del tempo di allora: il balcone della villa dal quale si dominava la pineta e il mare, lo studio in una soffitta, la finestra dalla quale spaziava sull’infinita distesa delle acque. Lavorava lì per buona parte della notte.
In una lettera scritta alla Duse il 17 luglio 1904, nella ricorrenza dell’anniversario dell’inizio della Figlia di Iorio, D’Annunzio le diceva di quando, in attesa del suo ritorno, dopo aver comperato un teatrino alla figlia Renata, aveva composto per l’occasione una commediola che ancora sapeva a memoria: «La sirenetta: È venuta di lontano / una dolce creatura / che ha per nome Bellamano / e ci porta la ventura. Il coro: Chi sarà? Chi mai sarà? La sirenetta: Di lontano è a noi venuta. / Ah con noi fosse per sempre! / L’hanno già riconosciuta / le rosette di settembre. Il coro: Chi sarà? Chi mai sarà? La sirenetta: La conosce l’acqua chiara, / la conosce la mortella, / e anche quella che si parte / nerazzurra rondinella. Il coro: La signora! La signora! / Benvenuta la signora! / Ora e sempre, sempre e ora, / benvenuta la signora!».
Tutto ricordava di quel tempo lontano.
Già in giugno si era rivolto ad Annibale Tenneroni pregandolo di sollecitare Augusto Sindici, per le cui XIV Leggende nel 1900 aveva scritto la prefazione, a dargli qualche indicazione riguardo alla possibilità di trovare una villa solitaria e quieta: «Ho cercato invano un rifugio sulla spiaggia di Rimini. Ora mi piacerebbe molto di passare l’estate sulla spiaggia neroniana».
In una lettera a Giuseppe Treves del 5 luglio 1903 scriveva: «Partirò domani per Nettuno […] Ho veduto Cicciuzza con grande commozione… spero di poterla condurre con me al mare e di udire la sua voce melodiosa tra i lecci della vecchia villa».
Poi a Giovanni Pascoli, il 16 luglio 1903: «Sono qui – dinanzi al mare neroniano, in vista del promontorio Circeo; e ricomincio a lavorare. Oggi è per me un giorno di grande purità; ho qui sulla tavola la buona carta su cui sto per scrivere i primi versi di una tragedia pastorale».
E ancora a Adolfo de Carolis, il 17 luglio: «Ti scrivo in fretta. Fra poco monterò a cavallo per andare alla selva d’Astura. La campagna è divina e dalla terrazza borghesiana si scopre l’immenso mare. Il corno dogale del Circeo è là, nel cielo netto. Spero che mi verrai a trovare. Mi metterò al lavoro domani».
Il 31 agosto inoltre avrebbe confidato a Michetti: «Caro Ciccillo, queste settimane d’estate resteranno memorabili per me. Non avevo mai lavorato con tanta violenza e non avevo mai sentito il mio spirito in comunione così forte con la terra».
Infine in una lettera a Benigno Palmerio del 3 settembre 1903 avrebbe dichiarato: «Caro Benigno. Confesso che non ho aperto le tue lettere sapendole piene di seccature. Sabato scorso, al tramonto, terminai La figlia di Iorio, che mi sembra la più alta opera da me composta fin qui, profonda e semplice. Ho sentito, scrivendola, le mie radici nella terra natale. Ora ho ripreso il lavoro per condurre a termine le poche cose che mancano al volume delle Laudi».
Erano nati così i Sogni di terre lontane.
Con fuga immaginativa e nostalgia il poeta evocava in ogni lirica una delle “terre lontane” in cui era dolce il settembre: il nativo Abruzzo pastorale, le romane terme di Diocleziano, il Loricino , il fiumicello laziale ricordato da Tito Livio che sfocia in mare presso Nettuno passando attraverso la tenuta di Augusto Sindici , la fonte di Giuturna, ai piedi del Palatino, Capodistria, fiore dell’Adriatico, la brumosa pianura lombarda, il remoto mare d’oriente.
Di quei “sogni” si sarebbe di certo ricordato due anni dopo, nel 1905, nel discorso premesso a Più che l’amore: «”Tu sei forse la mia ultima terra lontana” dice egli alla donna che lo chiama e lo suscita. I fiumi, i monti, le selve, i deserti, tutte le patrie ignote e agognate sembrano sprofondarsi nel suo spirito e convertirsi in regioni interiori. Altri cammini, altre culture, altri dominii, altre città riconosce egli in sé o intravvede. Tramutato in spazio mistico il continente periglioso è dentro di lui, cinto dalle onde “senza schiuma e senza strepito” dell’immensa Malinconia…».
Con quel foglio davanti a me riflettevo.
Pensavo a D’Annunzio ed insieme pensavo a me.
Mi accorgevo che attraverso di lui avevo proceduto ad una lettura di me stesso.
Paragonavo i miei quarant’anni, quando avevo scritto il saggio dannunziano che intitola L’usignolo d’Orfeo, con i quaranta anni di D’Annunzio quando, in quello stesso scenario del Tirreno, aveva scritto La figlia di Iorio.
La figlia di Iorio e la favola della Bella addormentata.
In quel saggio il riferimento alla favola della Bella addormentata risulta quanto mai significativo per D’Annunzio.
Nelle ballate dell’Isaotta Guttadauro è la fiaba della Bella addormentata che nel rifiuto opposto alle offerte del sire, onde è restituita al suo sonno, si fa immagine dell’anima del poeta: «Altre plaghe ho regnate. / Eranmi schiavi gli astri in lunghe torme; / e in tal regno le feste ho celebrate / de’ suoni de’ colori e de le forme».
Non a caso quei versi sono riportati poi nella lettera dedicatoria del Trionfo della morte e poi ancora, a proposito di Stelio Effrena, nel Fuoco : «Alludendo a me Francesco de Lizio si rammaricava che un artista così magnificamente sensuale fosse costretto a celebrare le feste “dei suoni, dei colori e delle forme” nel palagio dei suoi sogni solitari».
Ma dove il riferimento alla favola della Bella addormentata risulta più evidente è nel capitolo del Piacere che descrive la convalescenza di Andrea, quando si abbia presente il brano del Journal intime di Amiel che D’Annunzio riprende: «J’éprouve comme la paix indéfinissable de l’anéantissement et de la quiétitude vague du Nirvâna; je sens devant moi et en moi passer le fleuve radie du temps, glisser les ombres impampables de la vie, et je le sens avec la tranquillité cataleptique de la Belle au bois dormant».
E le tre sorelle nelle Vergini delle rocce sono le Belle addormentate nei boschi verso cui cavalca il protagonista e richiamano l’infanzia, la puerizia e l’adolescenza del Principe azzurro rimaste intatte come tre piccole Belle addormentate nella madre, secondo quanto è scritto in Esequie di giovinezza: «La mia infanzia, la mia puerizia, la mia adolescenza sono rimaste intatte come tre piccole Belle addormentate sotto il vecchio tetto, fra le vecchie cose immobili. Quando arrivo, a troppo lunghi intervalli, tutt’e tre si svegliano, e mi sembra che ciascuna mi dica le stesse parole della Principessa al Principe grazioso: “Ah, come vi siete fatto attendere!”. E siamo fidanzati. E ciascuna ricomincia a vivere e a sorridere, nella vita e nel sorriso di mia madre».
Già preannunciato nel ritornello cantato da Ornella («Tutta di verde mi voglio vestire, / tutta di verde per santo Giovanni, / ché in mezzo al verde mi venne a fedire…») nella Figlia di Iorio è infine il più esplicito riferimento alla favola della Bella addormentata : «Vuoi dormir settecent’anni / con la bella sonnacchiosa?».
«Madre, madre, dormii settecent’anni, / settecent’anni; e vengo di lontano. / Non mi ricordo più della mia culla» sono le parole di Aligi alla madre nell’imminenza dell’incontro con Mila e la madre le ripete in grido disperato alla conclusione della tragedia, prima che il parricida venuto a prendere perdonanza riceva la tazza del consòlo da quella che sola può offrirgliela, da colei dalle cui viscere è uscito, ed esclami: «mozzatemi entrambe le mani, / nel sacco di cuoio cucitemi /… / e gittatemi nella fiumana / ch’io vi dorma settecent’anni / ch’io dorma sott’acqua, nel gorgo / profondo, ancòra settecent’anni / e più non mi ricordi che il giorno / di Dio ha illuminato quegli occhi».
Il sonno del pastore Aligi, che ricorda il sonno mitico del pastore Endimione, è «come nelle fiabe, in cui tutto il mondo si ferma – il castello, gli uccelli sui rami, i servitori, i cuochi spennando i polli – fino a quando verrà il giorno della liberazione», scrive Lella Ravasi Bellocchio nel saggio Appunti di lettura del profondo su ‘La figlia di Iorio’, dove ricorda una significativa considerazione di Cesare Musatti: «Mi diceva sempre mia madre: non fare la fine del pastore Aligi».
Da dove mai era saltato fuori quel foglio?
Da una vecchia cartellina, un piccolo gruppo di appunti, un abbozzo di tanti anni fa, poche note per un racconto progettato.
Era l’abbozzo di un racconto: uno scrittore che sovrappone i suoi stati d’animo a quelli immaginati del suo personaggio.
Allora non ero stato capace di utilizzarle, ma ora certo avrei saputo che farne.
C’è chi ha scritto che la morte è come il sole, non si può guardare in faccia.
Nelle sue ultime lettere a Titti, l’ultima Clematide, D’Annunzio, in malinconica attesa della visitatrice estrema, così scriveva: «Trapasserò come tutti i mortali».
Quel mio racconto, che mi richiamava al ricordo di un tempo lontano, avrebbe potuto costituire per me un parapetto che mi consentisse di non vederla.
Ne provavo una specie di gioia postuma.
Ripetevo le parole dell’introduzione di Italo Alighiero Chiusano all’Usignolo di Orfeo: «E ora ecco Sabino Caronia regalarmi un D’Annunzio “gambero”, un D’Annunzio proiettato indietro verso la madre o verso quella facente funzione della madre che è la sorella, o addirittura la moglie; un D’Annunzio che nel canto dell’usignolo a cui allude il titolo esprime “il dolore inconsolabile per la perdita del legame prenatale”, un D’Annunzio in cui anche la figura prepotente del padre, anche la minaccia di castrazione e “l’identificazione tra organo sessuale e piaga infetta”, anche il tema di Persefone e della Bella Addormentata sono chiari segnali d’un voler “annullare retroattivamente la nascita”. Onde la frase fin troppo famosa “Madre, madre, dormii settecent’anni” assume ora tutt’altro suono: non più quello languido di una decorativa estenuazione Liberty, ma un grido delle viscere, un anelito tragico del puer ormai uomo a farsi puer aeternus, cosa unicamente possibile se si potesse mai avverare l’assurda (ma forse sperata?) ipotesi di Nicodemo, in quel colloquio con Gesù che non a caso avviene nell’isolamento e nell’avvolgimento notturno: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”».
Tutto era per me come una mattina di tanti anni fa quando, in occasione del mio compleanno, poco dopo aver letto quella introduzione al mio libro, con Diana ero andato da Terracina al Circeo.
«Bada che non saremo mai più giovani come oggi», mi aveva detto.
Ed io guardavo il tempio del Fanciullo e intanto pensavo a D’Annunzio che, pochi mesi dopo aver scritto le sue Esequie di giovinezza, se ne era venuto alla villa Borghese di Nettuno.
Sapevo degli appunti presi da D’Annunzio nel febbraio-marzo del 1897 per la progettata quinta parte del Fuoco che non sarebbero stati mai sviluppati e di cui resta notizia solo nella lettera a George Herelle del 18 dicembre 1899: «Nella quinta parte Roma, la rappresentazione del teatro d’Apollo, la vittoria, la catastrofe del tram che si svolge tra le tre anime, il mare neroniano di Anzio, la campagna romana, Astura e la sua selva dantesca».
Ricordavo quegli appunti : «Mortella dice: “Sarà, se la fiamma dura, non sarà se la fiamma si spegne”. Allora accendono un mucchio di aghi ai piedi di un albero. Il fuoco si propaga con straordinaria celerità. Ella si dona, mentre entrambi immaginano intorno al loro amore supremo l’incendio di tutta la fragrante foresta», «Essi, giunti a Nettuno per la via degli scogli, vanno alla torre d’Astura per mare, su una lancia a vela. Mortella dice: “No, no, non qui. Laggiù, laggiù; su quella punta lontana”».
E avevo letto, nel volume di Luigi Francesco Cimmino, di un altro appunto su una gita al Circeo nei quali la Duse parlava del romanzo in gestazione
Così io, quarantenne, affacciandomi in vista dall’alto del promontorio immaginavo il quarantenne D’Annunzio che, celebrate da poco le sue «esequie di giovinezza», nella quiete della villa Borghese di Nettuno rievocava quella gita in compagnia della Duse quando anche lui, come me, dall’alto del promontorio del Circeo, si era affacciato in vista del tempio del Fanciullo.
Era forse il sapore di una gioia lontana o soltanto il piacere che provava a ripetere il suono degli esametri di Virgilio: «Juppiter Anxurus arvis praesidet».
Le figure del tempo di già avrebbe poi voluto intitolare una delle più memorabili Faville del maglio.
Sentiva il bisogno di fermare i ricordi
E tuttavia diffidava della memoria.
Diceva: «Rimemorare non è per me aver vissuto né rivivere ma vivere nel vivere». E ancora: «Osare dichiarare il giudizio su Proust – spiegare che l’arte è lontanissima da certi trattati quasi scientifici fondati sulla memoria fallace».
La vita si vive a fasi, come si sa, la vita non conclude.
Ogni esistenza è, in fin dei conti, un progetto interrotto.
Nel Libro segreto avrebbe scritto: «Ora che so alfine quale sia la vera essenza dell’arte, ora ch’io posseggo la compiuta maestria, ora che dopo cinquanta libri ho appreso come debba essere fatto il libro, ora non ho se non il vespro di domani per esprimermi, non ho se non il mattino di domani per cantare e per illudermi di essere lieto».
E metteva in guardia i suoi biografi: «Chi mai oggi e nel secolo o nei secoli potrà indovinare quel che di me ho io voluto nascondere?».
A metà marzo del 1933, al compimento dei settant’anni, in una lettera ad Alfredo Felici avrebbe accostato enigmaticamente il delitto Matteotti al delitto di quel Corrado Brando che in Più che l’amore dichiara: «Prendo su di me tutto quel che è peggio… ».
Che cosa voleva dire?
Chi mai potrà indovinare quel che di sé egli ha voluto nascondere?
Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, curatore di numerosi profili di narratori italiani contemporanei, ha pubblicato alcuni volumi di saggi critici oltre a romanzi, racconti e raccolte poetiche. Collabora ad autorevoli riviste e giornali.