Privacy Policy 1956 Budapest, Perugia
Autori Aldo Peverini Vol. 11, n. 2 (2019) Politica Storia

1956 Budapest, Perugia

Perugia, 11 novembre 1956: è in svolgimento la manifestazione del Pci, celebre per la presenza di Togliatti (segretario nazionale del Partito comunista italiano), convocata per celebrare il trentanovesimo anniversario della rivoluzione russa mentre è ancora in corso la rivolta del popolo magiaro, che l’invasione sovietica dell’Ungheria cerca di soffocare nel sangue. Precedentemente, nel giugno di quell’anno, ci fu l’insurrezione degli operai polacchi a Poznan a cui seguirono tre giorni di scontri con la polizia e un numero di vittime imprecisato.
La manifestazione è stata anticipata da fortissime e reiterate polemiche, decine di scioperi delle scuole medie-superiori in tutta la regione (principalmente nel capoluogo dove si muove con sicurezza l’organizzazione e l’egemonia della Giovane Italia), pronunciamenti di tutti i partiti (ad eccezione di un diviso Partito socialista) contro l’invasione sovietica, prese di posizione e ferme condanne della chiesa, parziali sospensioni dal lavoro nelle fabbriche, catene di solidarietà per la raccolta di fondi e medicinali a favore degli insorti.
La polizia ha vietato al Pci il comizio in piazza IV Novembre e nel contempo impedito che dalla regione giungessero a Perugia manifestanti con gli autobus o con il treno. Il divieto risiede, secondo il ministero degli interni, nella necessità di salvaguardare l’ordine pubblico.
Contestualmente viene vietato anche un comizio di Edgardo Sogno, [1] il fondatore del movimento ferocemente anticomunista ‘Pace e libertà’.
Togliatti terrà il suo discorso alla sala dei Notari, senza altoparlanti esterni, davanti a circa duemila persone.
Piazza IV Novembre è completamente isolata e interdetta dalle forze di polizia anche ai singoli passanti. La stupenda piazza, cuore della città, testimone privilegiato della sua millenaria storia, ha un aspetto tetro che viene sottolineato da un cielo nuvolosamente nero e a tratti piovigginoso e dai continui e lugubri rintocchi del campanile della cattedrale.
La città spettrale, ricorda la faida tra gli Oddi e i Baglioni e l’inevitabile spargimento di sangue. Qui fortunatamente non ci sono morti e feriti gravi né vittime di scontri feroci.
Questa contrapposizione è la contrapposizione tra città e campagna. Da una parte, Perugia, la città più importante dell’Umbria, è governata da una ristretta élite, composta da professionisti e insegnanti, che rappresenta la campagna (mezzadri e braccianti), i piccoli borghi e una classe operaia minoritaria. Quest’ultima composta soprattutto da minatori che stanno combattendo una battaglia contro i licenziamenti, che hanno già perso.
Dall’altra, la città, non ha una rappresentanza del centro urbano né una posizione di potere istituzionale: si sente umiliata e reagisce con la sua componente sociale maggioritaria a vocazione conservatrice e reazionaria, con arroganza e violenza.
La mobilitazione anticomunista è corale: va dal Msi alla Dc, passando per il Pri e il Psdi e vede la partecipazione di molte centinaia di persone. Perugia è isolata e presidiata dalla polizia in assetto da guerra.
La città è in mano a questo schieramento anticomunista. Non lasciano passare i contadini diretti alla manifestazione insieme agli attivisti comunisti di tutta l’Umbria, che sono giunti in città con auto private.
Li intercettano alle falde del Pincio, li aggrediscono con pugni, calci e bastoni respingendoli indietro: è una lotta impari di dieci contro uno.
I manifestanti bloccano poi il centro e assediano la federazione provinciale del Pci in piazza della Repubblica, difesa (si fa per dire) da uno sparuto e spaurito gruppo di militanti comunisti e solo i poliziotti con autoblinde e armati di fucile riescono a respingerli e a tenerli sotto controllo.
Tentano di penetrare in piazza IV Novembre da corso Vannucci ma vengono respinti anche qui dalla polizia che sbarra loro la strada.
Anche piazza Matteotti è invasa dalla folla, che preme per raggiungere corso Vannucci e piazza IV Novembre e si scontra con la polizia; qui scorrazza l’avvocato Clementi (fervente democristiano) avvolto nel tricolore, che incita la folla lanciando slogan anticomunisti.
Tantissimi e prevalentemente giovani, sono i militanti missini giunti anche dai vari centri della regione. Renato Smantelli [2] è uno dei più attivi e decisi; vestito con jeans e giubbotto di pelle ed armato di bastone è alla guida dei fascisti della Giovane Italia. Ha diciotto anni ma già viene riconosciuto come un capo.
Quel giorno è infaticabile: con i suoi si sposta dal Pincio a via Baglioni, poi al mercato coperto a caccia di quei comunisti che disinformati pensano di raggiungere la sala dei Notari. Si trovano invece davanti i bastoni e l’aggressività dei reazionari e dei fascisti.
Più tardi è in prima fila nei tentativi di assaltare la federazione del partito comunista e per un momento sembrò che l’obiettivo fosse raggiunto, ma il deciso intervento della polizia li ricacciò indietro.
Chissà, forse Renato pensava in quei momenti di essere degno del padre, militare in una base di sommergibili, morto a La Spezia durante la seconda guerra mondiale e che lui considerava il suo eroe.
Partito Togliatti, la protesta si stempera ma non impedisce che nel tardo pomeriggio si verifichino altri incidenti, questa volta ad opera di piccoli gruppi di militanti comunisti in cerca di una amara rivincita: ne fa le spese anche l’avvocato Clementi.
Perché il Pci, che non aveva una base sociale nella città che gli garantisse la manifestazione di piazza, pensò di organizzare l’anniversario della rivoluzione d’ottobre proprio a Perugia in piazza IV Novembre?
C’è da chiedersi come mai un politico attento e prudente come Togliatti volle, caparbiamente, celebrare questo comizio.
Eppure a volte certi errori, che ci appaiono per così dire grossolani, si rivelano poi vincenti nel tempo.
E’ vero, si dirà poi, che la manifestazione per celebrare il 39° anniversario della rivoluzione d’ottobre era in preparazione da tempo, ma davanti al susseguirsi degli avvenimenti in Ungheria e al crescere della protesta a Perugia, perché il comizio di Togliatti non avesse luogo, c’era tutto il tempo per spostare la manifestazione altrove.
Nonostante tutto venne confermata e si può ragionevolmente supporre che a prendere la decisione fu lo stesso Togliatti.
Ma quella celebrazione non venne svolta in altre città poiché le manifestazioni reazionarie, conservatrici e fasciste sarebbero state  contrastate e controllate da una mobilitazione larga e di massa dei militanti del Pci (che nella maggioranza, specialmente operaia, non condannava ma spesso manifestava consenso, approvazione per l’intervento sovietico).
Che cosa avrebbe comportato quell’apologia della repressione popolare in Ungheria, in termini di  ordine pubblico, se  non si fosse svolta a Perugia?
Questo è ciò che voleva evitare Togliatti.
L’appoggio all’invasione dell’Ungheria, dietro il paravento della solidarietà socialista, va bene (non risparmiando in privato critiche all’operato del partito sovietico) ma senza esacerbare la situazione italiana con inutili scontri di piazza, in attesa che le proteste si calmino. E soprattutto non incrinare l’egemonia comunista di vasti strati operai e popolari e il legame con l’Unione Sovietica.
Questa scelta costerà una perdita di immagine e consenso al partito comunista. [3] “La capacità e la volontà togliattiana di ricomporre il partito, magari attraverso discussioni tutt’altro che semplici, di evitare rotture ma discutere ad oltranza, questa scelta e questa volontà non riuscirono a evitare un esodo, una diaspora di persone, di gruppi, di singoli, di personalità, dal Pci”. [4]
Questa strategia, senza dubbio è facilitata dagli avvenimenti internazionali; la repressione ungherese cammina di pari passo con la crisi di Suez. [5] 
L’intervento armato anglo/francese/israeliano è fermato solo dalla decisa reazione e presa di posizione degli Stati Uniti.
Comunque si può ragionevolmente affermare che il XX congresso del Pcus, la rivolta operaia di Poznan e la rivoluzione ungherese, insomma l’intero 1956 è stato il buco nero in cui è precipitata, nel corso degli anni, la politica di dominio dell’Unione sovietica trascinando con se la teoria e la pratica dei paesi del socialismo reale e anche l’esistenza stessa dei partiti comunisti dell’occidente.
Chi scrive ha avuto l’occasione di passare a Budapest il 24 luglio 1962, assieme a una delegazione di giovani comunisti italiani (di cui facevo parte) diretta ad Helsinki per partecipare al Festival internazionale della gioventù.
Durante la sosta in città mi incontrai con un giovane comunista ungherese conosciuto a Perugia, dove aveva frequentato i corsi di lingua italiana all’Università per stranieri. Ne era nata un amicizia provvisoria e scambi di opinioni politiche e di curiosità sui nostri due paesi e sulle molte cose che univano e incrociavano la storia dell’Italia con quella dell’Ungheria.
Dopo i saluti e un caffè mi disse che, se mai avessi voluto, mi avrebbe portato a visitare un luogo a cui teneva molto e non ne accennò il motivo. Acconsentii e preso il tram ne scendemmo dopo dieci/quindici minuti. Ci trovammo in una zona pianeggiante abbastanza estesa, dove l’altezza delle case e dei palazzi, o meglio delle loro rovine, arrivava a pochi metri di altezza.
Guardai il mio amico, ero così interdetto e timoroso della probabile risposta che non osavo fargli domande; lui ovviamente capì e mi disse semplicemente “Questo era un quartiere operaio!” e si avviò verso la fermata del tram. Nessuno di noi due, al ritorno e fino a quando ci lasciammo, accennò a quella visita e al suo significato.
Dopo diverso tempo che ero tornato in Italia, una mattina nella federazione del Pci, come sempre sfogliavo i giornali all’ingresso (così del resto facevano tutti i funzionari che arrivavano in sede abbastanza presto) e ne nasceva sempre qualche commento su questo o quell’articolo o notizia.
Non ricordo quale fu il motivo per cui con un membro della segreteria, futuro segretario provinciale, si finì a parlare dei paesi socialisti e dei rapporti che esistevano tra loro e l’Unione sovietica; in questo contesto portai ad esempio l’Ungheria (raccontando anche la mia esperienza a Budapest) che quando osò chiedere autonomia e indipendenza, sulla spinta delle manifestazioni studentesche e operaie, si trovò in casa i carri armati sovietici. La discussione si animò, salì di tono e ad un certo punto mi sentii dire con durezza che la mia giovane età non mi autorizzava a credere con ingenuità a delle fandonie sulla matrice politica dei controrivoluzionari ungheresi (che era accertato fosse reazionaria e fascista) e dunque a mettere in discussione la linea dl partito.
La nostra discussione (sui ‘fatti d’Ungheria’ così veniva chiamata, allora dal Pci, la rivoluzione magiara) naturalmente finì in quel momento. Nel partito invece era finita da un pezzo e non fu più ripresa se non tardivamente, dopo più di trent’anni, in forme più o meno letterarie ma lontane da una seria analisi politica.

 

[1] Edgardo Sogno (Torino, 29 dicembre 1915 – Torino, 5 agosto 2000)  Eroe della Resistenza, Medaglia d’oro al Valor Militare, diplomatico di indiscusso prestigio. Aveva combattuto in Spagna dalla parte dei golpisti senza essere fascista. Durante l’occupazione nazista fonda la “Franchi”, una delle migliori formazioni militari sorte durante la Resistenza. La sua impresa più famosa, fu il tentativo di liberare Ferruccio Parri, ma venne catturato e mandato in un lager. Nel dopo guerra fonda il movimento ‘Pace e libertà’ con una fortissima connotazione anticomunista. Il 4 Novembre 1956 quando i sovietici invadono l’Ungheria, Sogno giunge nel paese per organizzare l’espatrio di esponenti del deposto governo Nagy. Nel Febbraio 1971 Sogno fonda i Comitati di Resistenza Democratica. Nel 1974 il magistrato Luciano Violante lo accusò di aver tentato il cosiddetto Golpe bianco «al fine di mutare la Costituzione dello Stato e la forma di governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale»: finì per un mese e mezzo in carcere a Regina Coeli insieme a Luigi Cavallo. La vicenda si concluse qualche anno dopo con il suo proscioglimento pieno per non aver commesso il fatto.

[2] Renato Smantelli (Perugia, 22 aprile 1938 – Arezzo 16 dicembre 1983) è il dirigente più in vista della Giovane Italia, infatti il 12 gennaio 1957 verrà nominato segretario provinciale di tutto il settore giovanile del Msi. Nel 1969, quando una parte dei dissidenti missini, che fanno riferimento al Cson (Centro studi ordine nuovo) guidati da Rauti rientreranno nel Movimento sociale, Smantelli sarà uno dei diciotto dirigenti, guidati da Clemente Graziani che non rientreranno nel Msi e daranno vita al Movimento Politico Ordine Nuovo (Mpon).

[3] Il dissidio più significativo venne con il manifesto dei 101, firmarono scrittori, professori, giornalisti; questi intellettuali erano vicino o iscritti al partito comunista, se ne andarono tra gli altri Renzo de Felice, Italo Calvino, Fabrizio Onofri, Eugenio Reale, Antonio Giolitti. Anche a Perugia si registrarono le dimissioni dal Pci dei consiglieri comunali; prof.ssa Fernanda Maretici Menghini (ass.re all’istruzione) e di Guglielmo Nocera insegnante di diritto alla facoltà di giurisprudenza. Si dimise anche Giuseppe Granata docente di storia e filosofia (ex ass.re all’istruzione). Ferocemente critici Orfeo Carnevali e Pio Baldelli che uscì poi dal Pci. Anche all’interno della direzione comunista si espresse il dissenso e la condanna sull’intervento sovietico, il più clamoroso fu quello del capo del sindacato della Cgil Giuseppe Di Vittorio, non meno significativa risultò la presa di posizione di Fausto Gullo un dirigente di primo piano del partito comunista. Iniziative analoghe a quelle di Roma (il manifesto dei ‘101’, il dissenso degli studenti della Fgci, ecc.), ci furono in altre città come Torino, Pisa, Mantova, Perugia, sebbene mancò qualsiasi forma di coordinamento. A Perugia fu  preparato un manifesto murale, recante in calce la firma «gli studenti comunisti», che così si apriva: «Colleghi, compagni e cittadini! I tragici avvenimenti che hanno insanguinato la nobile repubblica ungherese feriscono in primo luogo noi, studenti militanti nel Pci, nel profondo dei nostri sentimenti. Noi siamo convinti che in Ungheria sia accaduto qualche cosa di identico ai fatti di Poznan´: non un movimento controrivoluzionario, cioè, ma una rivolta contro la tirannide e la burocrazia. Gli errori e i crimini di una parte della classe dirigente hanno provocato una tale lacerazione in seno al popolo ungherese, da costringerlo ad affrontare ancora una volta la lotta per realizzare due rivendicazioni tradizionali della classe operaia, degli studenti e dei lavoratori tutti: la democrazia nel socialismo e l’indipendenza nazionale» (il testo è stato riportato da un articolo di Micromega e firmato).

[4] Così Luciano Canfora, nel 1956 L’anno spartiacque Palermo, Sellerio, 2016. Il volume è una attenta e documentata ricostruzione degli avvenimenti che segnarono in modo drammatico quell’anno. Di momenti definiti poi epocali ce ne furono diversi; dal XX congresso del Pcus che dette il via alla destalinizzazione, platealmente con il rapporto segreto, reso pubblico in occidente dal giornalista Harrison Salisbury sul New York Times, Nella primavera iniziano gli incidenti alla frontiera dell’Egitto con Israele, alle elezioni Nasser prende il 99,9% dei voti, gli inglesi e americani si ritirano dal finanziamento della diga di Assuan, la risposta è la nazionalizzazione del canale di Suez. L’invasione dell’Egitto da parte di Israele, Francia e Inghilterra avviene mentre è in corso la rivolta ungherese. Il 28 giugno a Poznan sanguinosa repressione degli scioperi e delle manifestazioni operaie, successivamente il governo polacco recepì la lezione, al punto che il 20 ottobre Gomulka (nella primavera Gomulka era stato scarcerato, riabilitato e riammesso nel partito comunista) diviene il segretario del partito, nonostante l’opposizione minacciosa dei sovietici. Il 23 ottobre esplode la rivolta ungherese accesa da una manifestazione organizzata dal ‘Circolo Petofi’, fondato dai fuoriusciti dall’organizzazione degli studenti comunisti, con cui si chiedono libere elezioni e si plaude alla lotta operaia e studentesca di  Poznam. La polizia spara sui manifestanti, che nel frattempo sono diventati più di duecentomila, provoca decine di morti e il governo proclama la legge marziale, chiede l’intervento dell’Urss, divampa l’insurrezione. Dopo alcuni giorni, mentre dislaga la protesta, si forma un nuovo governo a guida Imre Nagy (recentemente riabilitato) Nei giorni seguenti Imre Nagy dichiara l’uscita dal Patto di Varsavia, la neutralità, l’abolizione del sistema del partito unico e libera il cardinale Mindszenty dal domicilio coatto. Intanto continuano gli scontri sempre più feroci e sanguinosi, si apre la caccia agli agenti della polizia segreta ed anche ai militanti comunisti. L’esercito magiaro insorto a fianco degli operai e dei studenti è guidato da Pal Malèter, che viene considerato l’eroe della rivoluzione. Il segretario del partito comunista ungherese Kadar, insieme al ministro degli interni Munnich si trasferiscono presso l’ambasciata sovietica. Ottenuto l’assenso degli altri paesi comunisti compresa la Jugoslavia, le divisioni corazzate sovietiche il 4 novembre alle ore 4,00 invadono l’Ungheria per reprimere la rivoluzione ungherese, nonostante ciò gli scontri, in una vera e propria guerra continueranno per giorni e giorni in tutto il paese. Imre Nagy e il generale Malèter (ministro dell’interno) riparano nell’ambasciata yugoslava, che non avrà nessun pudore a consegnare i due ai sovietici per fargli subire, due anni dopo, un processo farsa, seguito dall’impiccagione. Nello stesso tempo la diplomazia sovietica si muove decisamente per denunciare l’invasione dell’Egitto all’Onu,  al quale chiede di imporre il ritiro anglo/francese/israeliano dall’Egitto, contemporaneamente si attiva presso i paesi ‘neutrali’ perché prendano posizione per il ritiro e soprattutto dialoga con gli Stati Uniti per evitare pericolose derive della situazione egiziana. Lo stesso Canfora nel suo libro cita un convegno promosso a Bologna in occasione del 40° anniversario dell’invasione dell’Ungheria in cui Miklos Vasarely, ex-portavoce del governo Nagy sintetizzò il suo pensiero con una frase efficace e molto incisiva “I russi ci uccisero, l’America ci tradì”.

[5] La nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser, ricongiungeva quel territorio all’Egitto, annullando così la concessione franco-inglese. La decisione unilaterale di Nasser fu il pretesto per l’occupazione dell’Egitto, in particolare di Porto Said, da parte dell’esercito israeliano e contestualmente dai paracadutisti inglesi e francesi. Il monito dell’Unione Sovietica e soprattutto la richiesta pressante e ultimativa degli Stati Uniti costrinse le due potenze coloniali ad una umiliante e definitiva ritirata.

 

Aldo Peverini ha scritto articoli e saggi sulla pubblicità e la comunicazione sia commerciale che politica, compresa un’indagine/ricerca sullo stato della pubblicità in Umbria, poi pubblicata. Lavora da circa trent’anni nel settore della comunicazione e della pubblicità, sia commerciale che istituzionale e politica, fondando agenzie di comunicazione o come consulente. Ha recentemente curato il volume Quando la politica era passione una cronistoria, degli anni ’70 in Umbria, raccontata, commentata e con un ampio corredo fotografico. E’ l’autore dei testi e della sceneggiatura della Storia di Perugia a fumetti pubblicata per la prima volta nel 1980, di cui ora è in corso la stampa della terza edizione, in un nuovo formato editoriale. La Storia di Perugia ha ricevuto il primo premio ex aequo per la sezione ragazzi alla prima edizione del Premio Letterario Regionale promosso da Umbria Libri nella edizione del 2018 .

Il racconto storico qui pubblicato fa parte di un nuovo volume in preparazione, che ripercorre l’itinerario storico dal secondo dopoguerra delle formazioni neofasciste umbre.

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