Vol. 12, n. 1 (2020)
Il primo numero della rivista semestrale “Umbria contemporanea” data 2003. Raffaele Rossi ne è il fondatore, e fino al 2008, anno in cui deve rinunciare all’impegno per motivi di salute, ne è anche il direttore e il correttore di bozze. L’obiettivo della sua sfida intellettuale è chiarito nelle pagine di presentazione del numero di esordio: «“Umbria contemporanea” nasce come proposta di studio, ricerca e dibattito sulle trasformazioni avvenute in Umbria negli ultimi cinquant’anni, allo scopo di meglio comprendere il presente e ritrovare le coordinate che ci consentano di pensare e progettare il futuro».[1] Rossi non intende semplicemente produrre una rassegna di riflessioni sul passato, ma forgiare uno strumento di indagine storico-sociale in grado di «rileggere la storia contemporanea dell’Umbria muovendo dalle domande che pone il presente per avere conoscenza e coscienza di sé stesso».[2] Dietro a queste ragioni emerge con nitidezza l’interpretazione e la funzione che Rossi attribuisce alla storia, la quale è spinta a valicare il perimetro di scienza del trascorso per tradursi in scienza del cambiamento tra continuità e discontinuità, tra complessità e contraddizione.[3] L’intellettuale perugino instaura così un rapporto organico tra storia e politica; un rapporto che, attraverso un sistematico ri-pensamento critico dei processi, eleva quella tensione ideale indispensabile per la qualità del governo del mutamento (economico, sociale, politico, antropologico). Da qui discende e matura una costante relazione dialettica tra cultura e politica capace di accrescere la comprensione delle situazioni concrete e delle trasformazioni profonde che investono i molteplici ambiti della vita civile. “Umbria contemporanea” sorge perciò con l’intento di ridurre le distanze tra elaborazione intellettuale e mondo politico.
Nel XXI secolo, con il superamento dell’acceso conflitto ideologico novecentesco, con la crisi delle grandi narrazioni e la parcellizzazione delle identità, l’agire politico ha infatti smarrito quella forza culturale che, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, aveva permesso di indirizzare i destini collettivi alimentando un’appassionata partecipazione democratica. L’ambizione di Rossi è dunque di riannodare i fili di due momenti – l’intellettuale e il politico, appunto – al fine di rispondere alla società delle “passioni tristi” con la razionalità dell’utopia. Il recupero di un uso pubblico della storia serve a Rossi per controbilanciare le derive che tendono a banalizzare il passato, progressivamente confinato nelle celebrazioni di una memoria istituzionalizzata, folclorizzata, troppo spesso piegata a mere legittimazioni politiche.[4] “Umbria contemporanea”, nel merito, cerca di trovare un virtuoso punto di equilibrio fra due opposte ed estreme visioni di storia: la storia come negazione e la storia come mito. Se la prima valuta in specie il perpetuo spostarsi in avanti del tempo, determinando uno sbilanciamento senza radici sul futuro, la seconda, tutta volta a cogliere i mali del contingente, si esaurisce in una sorta di mito consolatorio, chiudendosi in un ritorno nostalgico al passato.[5] Sulla stessa scia di Walter Benjamin, Rossi concepisce la storia come un tempo aperto: il passato non abbandona il presente e non può risultarne separato. In altri termini, al pari del filosofo tedesco, lo studioso perugino ritiene che per riattivare il passato sia necessario vagliare le contraddizioni del presente; operazione che diventa tuttavia possibile solo assegnando al racconto storiografico una dimensione pubblica e politica.[6]
Il nucleo dell’analisi storico-sociale della rivista risiede nella rubrica centrale “Ripensare l’Umbria”, considerata da Rossi il luogo privilegiato dal quale poter «guardare indietro e in avanti».[7] A essa vengono accompagnate altre rubriche che «ripensano l’Umbria» tramite ottiche e contributi più specificatamente territoriali o precipuamente settoriali. Numero dopo numero la rivista abbandonerà un approccio abbastanza generalista alle questioni regionali per circostanziare con crescente puntualità temi e problemi. I numeri dedicati all’industria ternana, al centenario della Cgil, alle infrastrutture, al paesaggio, alla multiculturalità e alla religiosità, in effetti, assomigliano quasi a vere e proprie monografie.[8]
Nel 2003 e nel 2004 “Umbria contemporanea” si concentra in particolare sulla definizione storico-critica dell’identità regionale. La sfida intellettuale di Rossi principia da una domanda: all’alba del nuovo millennio, quali prospettive delineare per un’Umbria stretta nella morsa delle contraddizioni dell’età contemporanea? Per un’Umbria, da un lato, aggredita da una globalizzazione segnata da pulsioni neo-centralistiche e, da un altro, incalzata da esigenze di innovazione politica e sociale? Rossi torna così a fare i conti con il periodo risorgimentale e con i contesti della formazione dello Stato unitario, avanzando un ragionamento teso a ricollocare strategicamente i profili identitari della regione per come si sono man mano condensati ed evoluti tra Otto e Novecento: l’Umbria delle città, l’Umbria verde, l’Umbria francescana e l’Umbria rossa paiono allora – a suo avviso – tessere di un unico mosaico in cui la storia riflette l’identità di un territorio e di un popolo in viaggio verso l’emancipazione.[9] Dalla nascita della Provincia dell’Umbria sino all’indomani del secondo conflitto mondiale, le masse contadine, inquadrate nelle consolidate meccaniche della mezzadria, sono escluse dal partecipare ai processi di sviluppo economico-sociale. Sotto questo aspetto, negli anni Cinquanta/Sessanta si assiste a un’imponente svolta, perché, tramontando la tradizionale Umbria agricola, si estingue anche l’altrettanto tradizionale rapporto tra città e campagna. La mezzadria era stata un prodotto delle città. Più precisamente, nei secoli si era cristallizzata una relazione complessa di governo – e talvolta di duro dominio – della città sulla campagna, ma si era pure stabilizzata una relazione di ambivalenza, con le città che la campagna connotava nelle funzioni di capitali agrarie.[10] La stagione dell’inurbamento delle masse contadine, che – ça va sans dire – non avviene senza traumi sociali nonostante maturi con evidente ritardo rispetto ad altre zone del paese, proietta l’Umbria nell’epoca moderna, confermando e in parallelo riconfigurando strutturalmente il protagonismo della città. Di sicuro, l’Umbria resta l’Umbria delle città, in quanto il denominatore comune del territorio regionale rimane il diffuso reticolo di centri urbani (medi, piccoli, piccolissimi).[11] Al medesimo tempo, però, padroni e contadini vengono sconfitti dal “miracolo economico”, la campagna si urbanizza e le vecchie capitali agrarie si industrializzano.[12] Le annose carenze nello sviluppo capitalistico e l’urbanesimo di ascendenza medioevale diventano in pochi lustri gli elementi di forza sui quali poggiare la peculiare tipologia di modernizzazione della regione. A parere di Rossi, città di contenute dimensioni hanno il vantaggio di potersi esprimere come «uno spazio organizzato dove uomini appartenenti a classi e ceti differenti, a vari mestieri e professioni si uniscono, con un alto grado di creatività, per edificare un progetto comune».[13] Viceversa, con il gigantismo urbano, ben rilevabile sia in aree del Nord che del Sud Italia, trionfa la frammentazione e la contrapposizione degli interessi, tramutando l’ambiente-città in uno spazio spersonalizzato, atomizzato e disarmonico.[14] Le città sono innanzitutto i luoghi della coesione sociale e della partecipazione democratica; sono i luoghi in cui provare a saldare vivacità produttiva e avanzamento socio-culturale.[15] Il Comune, nel Centro Italia più che altrove erede dei caratteri dell’antica civitas, si lega in Umbria a un glorioso passato di autogoverno e di solidarismo. Con l’avvio del disegno repubblicano e con la successiva prepotente espansione del settore industriale, il Comune è chiamato a valorizzare tali radicati impulsi attraverso il capitale sociale disponibile sul territorio, attraverso cioè l’interscambio di quelle risorse materiali e immateriali in grado di nutrire circuiti di democrazia diffusa e gangli del dinamismo economico locale.[16]
La grave arretratezza dell’Umbria del dopoguerra si trasforma così nel detonatore di una nuova e rapida via di modernizzazione, che prende plastico abbrivio con la scelta di sperimentare la programmazione derivata dal Piano di sviluppo organico del 1962.[17] Nondimeno, la pregnante coniugazione delle lotte sociali per l’estensione dell’autonomia democratica con i progetti di ambito economico si concreta soltanto grazie all’avvento dell’ente Regione nel 1970. Al proposito Rossi afferma che «la costituzione della Regione come entità politica ha rappresentato il momento più significativo di svolta, riuscendo a far procedere un percorso di unificazione e di identità quale non si era avuto nel corso dei secoli passati».[18] In breve, la Regione incarna lo strumento che consente all’Umbria di mettere a fuoco la propria identità e di imprimere nel modello di sviluppo un marcato segno democratico e popolare. Si tratta di un traguardo raggiunto comunque con fatica e in seguito ad aspri contrasti ideologici. Tuttavia, è dall’acceso e libero confronto politico-culturale degli anni Sessanta e Settanta che l’Umbria, da regione “introvabile”, diviene una regione “ritrovata”[19].
Tema decisivo, per Rossi, è come svolgere il regionalismo formalmente sancito, poiché questo non si agisce in maniera automatica con l’introduzione di un impianto squisitamente procedurale di governo. In prima battuta, allora, l’intellettuale perugino tiene a sottolineare la distinzione tra regionalismo e regionalizzazione. Il regionalismo «è un’idea, una disposizione, un atteggiamento mentale che costruisce il senso di appartenenza a un territorio, al suo modo di sostanziarlo e di farlo valere nei confronti di altre regioni e dello Stato; la regionalizzazione è una costruzione amministrativa cui ricorre il potere centrale per meglio organizzare il suo sistema di governo, in piena coerenza con una concezione centralistica».[20]
Il regionalismo ipotizzato da Rossi vive nell’incrocio di reminiscenze teoriche che vanno da Carlo Cattaneo ad Antonio Gramsci passando per Aldo Capitini. Sulla scorta di Cattaneo, Rossi mira a un regionalismo che sblocchi le energie e le iniziative locali, che si basi sulla molteplicità dei Comuni e sulla loro mutua indipendenza. Da Capitini raccoglie invece il concetto di territorio locale inteso come ambito sociale, come formazione socio-spaziale di matrice storica in diretta connessione con una tensione federalista di forte contenuto democratico. Da Gramsci recupera la considerazione per la quale, sebbene lo Stato unitario sia un progresso necessario, i movimenti e le opzioni politiche che tentano di spezzarlo per stabilire un fecondo rapporto tra ordinamento amministrativo e rinnovamento democratico sono sempre da incentivare e sostenere. Se le Regioni menzionate dalla Carta costituzionale del 1948 sono la risultante di una contrapposizione e di una contraddizione tra regionalizzazione centralistica e regionalismo, tra una cultura statalistico-unitaria, vicina alle esperienze dei modelli istituzionali franco-napoleonici, e le istanze autonomistiche, le Regioni definite nel 1970 debbono compiersi acquisendo uno slancio pienamente regionalista nei metodi e nelle finalità dichiarate.[21] La Regione non può quindi risolversi in un soggetto di governo dell’economia territoriale, ma deve attestarsi come un fattore di riforma democratica dello Stato, altrimenti l’autonomia regionale rischia di riprodurre le classiche forme e le note torsioni dello statalismo. Perché ciò non accada è indispensabile che il regionalismo sia costantemente capace di rinnovarsi, di evolversi, di ri-pensarsi. Del resto, fin dall’origine rivendica una natura dinamica volta a rimuovere le concrezioni di potere arroccate nel secolare immobilismo. La nozione di regione, infatti, appartenne all’inizio ai gruppi progressisti risorgimentali e poi al movimento operaio, interessato a combattere con l’arma dell’unità dei lavoratori il dominio della conservazione imposto dalle élites locali.[22] Il regionalismo rappresenta dunque per Rossi l’intrinseca espressione di uno spirito riformatore di chiaro stampo progressista.
Senza mettere in luce, anche per sommi capi, la generale intelaiatura intellettuale ordita in decenni di riflessione dall’intellettuale perugino è impossibile comprendere i motivi che nel 2003 determinano la nascita di “Umbria contemporanea”; è impossibile spiegare l’interrogativo di fondo proposto dalla rivista, cioè quale futuro per un’Umbria stretta tra le pressioni di una globalizzazione a venatura tecnocratica e i fabbisogni democratici dei territori. Poco o niente si capisce dell’operazione “Umbria contemporanea” se non si ribadisce che democrazia, partecipazione e questione sociale sono, sì, le piste di ricerca e di studio di Rossi, ma sono anche e soprattutto le stelle polari del suo lungo impegno politico, precisamente della sua militanza nel Partito comunista e della sua attività nelle istituzioni locali e nazionali.[23]
Mentre l’anima intellettuale problematizza, l’istinto politico cerca soluzioni: è questa l’effettiva modalità di relazione dialettica tra cultura e politica assunta ed esercitata dal direttore della rivista. Per assicurare uno sbocco costruttivo e non intellettualistico alla domanda di fondo che giustifica l’impresa di “Umbria contemporanea”, Rossi non può prescindere dal ricomporre i diversi e plurali elementi che costituiscono l’identità regionale. A tal fine, prende in esame una serie di luoghi comuni divenuti nel tempo rodate espressioni dell’immagine complessiva della regione.[24] All’Umbria delle città – concetto già sinteticamente accennato – si affiancano l’Umbria verde, l’Umbria francescana e l’Umbria rossa.
L’Umbria verde è di certo uno stereotipo d’indubbia fortuna e durata. Tra i padri fondatori annovera il poeta Giosuè Carducci, e nel 1925 si ritrova nel titolo di un libro di Carlo Faina. Nel corso del ventennio fascista l’Umbria verde è corroborata ed esaltata dalla retorica del ruralismo. In tale periodo viene coniata pure un’altra efficace immagine che ancora oggi appartiene alla regione: “Umbria cuore d’Italia”. Infine, negli anni Settanta, a scopi di promozione turistica, si impone il famoso slogan: “L’Italia ha un cuore verde: l’Umbria”.[25] Benché le città abbiano ormai invaso le campagne e il territorio appaia profondamente modificato dalla cementificazione, l’Umbria verde, a cavallo tra XX e XXI secolo, continua a essere un importante fattore identificante sia per gli umbri sia per i non umbri.[26]
Rossi è convinto che «l’Umbria sia tutta storia e paesaggio, e che anche il paesaggio sia storia, creazione degli uomini, prodotto delle loro vicende, dei loro pensieri e del loro immaginario».[27] Il significato storico-politico delle tematiche relative all’ambiente e al paesaggio è esposto con accuratezza da Simone Neri Serneri nel numero di “Umbria contemporanea” del dicembre 2007. Scrive Serneri: «La storia dell’ambiente considera congiuntamente la dimensione storico-sociale dell’intervento antropico sulla natura e la dinamica storica degli assetti ecosistemici, consapevole che società e natura condividono porzioni dei rispettivi processi riproduttivi. Difatti, le società umane si sviluppano inglobando al proprio interno spezzoni di natura, ma non recidono i legami – fisici, biologici, ecosistemici – con la restante complessità del sistema naturale. Di qui scaturisce il carattere eminentemente storico delle relazioni tra natura e società».[28] Di qui, al contempo, si aggiunge il carattere politico delle relazioni tra natura e società. Riemerge allora in tutta evidenza la questione democratica, che tocca in modo principale la gestione, la tutela e la valorizzazione del paesaggio. A cominciare in specie dagli anni Ottanta/Novanta, le battaglie promosse da comitati e associazioni ambientaliste ed ecologiste mettono le istituzioni locali e regionali davanti alla necessità non solo di esperire interlocuzioni corrette e positive con la società civile sensibile al tema, ma di facilitare regolari percorsi partecipativi funzionali a una generale e condivisa presa in carico delle responsabilità. D’altro canto, in materia ambientale, gli errori sono difficilmente correggibili e spesso pesano sulle generazioni future in termini di salute, vivibilità e perdita di opportunità: condividere le responsabilità, di conseguenza, conviene a ogni stakeholder in campo.[29]
La rubrica “Ripensare l’Umbria” del numero di “Umbria contemporanea” edito nel giugno 2007 è interamente dedicata al paesaggio; al paesaggio inteso non come argomento settoriale o semplicisticamente riferito a una dimensione percettiva-formale-estetica, bensì compreso nella più larga accezione scientifica di insieme di elementi naturali e umani.[30] La categoria di paesaggio viene perciò estesa: insieme al paesaggio di pregio si considera il paesaggio della vita quotidiana, il paesaggio che manifesta un interesse pubblico locale, il paesaggio pur degradato su cui le istituzioni hanno l’obbligo di intervenire. Il paesaggio, in sintesi, diventa un bene comune; e se diventa un bene comune, la collettività non può essere esclusa dai processi decisionali che lo riguardano. Nodo cruciale di un benessere diffuso e tangibile, il paesaggio si declina in “diritto sociale” per entrare nella sfera di senso della democrazia. Ed ecco, allora, che un frammento identitario dell’Umbria – l’Umbria verde – dalla storia si riconduce alla politica presente, suscitando prospettive di innovazione sociale e culturale.
Un altro tassello dell’identità umbra è il francescanesimo: Umbria verde e Umbria francescana sono indubbiamente interrelate, giacché raccontano, con icastico slancio, la fertile connessione che nella storia della regione sussiste tra religiosità e ambiente. Tuttavia, ancora una volta, per non scivolare nell’astrazione o nella superficialità, occorre approfondire il resistente filo storico che allaccia il medioevo alla contemporaneità. Rossi riscontra infatti una sorta di correlazione tra il Duecento e il Novecento per la comune portata dell’eccezionale trasformazione della società, che, nel primo caso, lascia alle spalle il feudalesimo, nel secondo, l’Umbria agricola. Le città di oggi sono il frutto del capitalismo mercantile, della circolazione del denaro, dell’università, della cultura e dell’arte medioevali, ma anche dei meccanismi di creazione di un pre-proletariato indifeso e di moltitudini di poveri.[31] Nel cupo e gramo humus di un’indigenza endemica, a partire dal XIII e XIV secolo, trovano in Umbria un terreno adatto a prosperare fermenti ereticali che testimoniano, con la rivendicazione rivoluzionaria della povertà, l’esigenza di una riforma della società del tempo.[32] Senza quindi straordinarie forzature teoriche si intuisce come l’immagine dell’Umbria verde e francescana sia facilmente ricollegabile a quella tradizione democratica e risorgimentale, di cui era stato primo interprete Luigi Bonazzi.[33] Il francescanesimo, inoltre, a differenza di coevi movimenti religiosi, è un fenomeno urbano. Francesco di Bernardone proviene dalle file del ceto mercantile, della nobiltà e delle professioni, però non rinuncia agli agi per rinchiudersi in convento. San Francesco è un intellettuale del Duecento che parla a grandi folle di uomini afflitti dalla miseria attraverso un universalistico messaggio di radicale rinnovamento sociale. Il “poverello” diventa dunque espressione di valori e principi che non si disperdono nel lungo cammino della storia, ma si innestano nella cultura popolare e nel pensiero di intellettuali moderni. Tra questi, Aldo Capitini, un figlio della spiritualità umbra, che nel discorso filosofico – laicamente – mai dimentica quell’elemento di trascendenza in grado, ad esempio, di rendere ancor più vivida, forte e coerente la richiesta di pace.[34] Un tipo di pace che è forse bene precisare: non una pace chimerica, eterea, incorporea, né una pace rutilante, immanente, una pace di pacificazione, ma una pace tesa a unire una visione ideale di umanità con il pragmatismo di una politica incardinata nelle molteplici antinomie della realtà.
Le orme di San Francesco sono rintracciabili in tantissimi angoli di Umbria. Nell’immaginario di italiani e stranieri Umbria e San Francesco sono fuse in un continuum che ha nel tempo stimolato ampie produzioni artistiche, letterarie e cinematografiche. Francesco catalizza insomma un mondo narrativo «che invita a partecipare a un destino sempre capace di rinnovarsi e catturare negli anni l’immaginazione delle persone».[35]
La vicenda storica umbra, in conclusione, «si connota di una religiosità istintiva dalle radici remotissime, di una visione mistica della vita e della natura, che si ritrova nel Cantico delle Creature e nei Laudari animati da spirito ribelle».[36] I complicati multiversi dell’estremamente semplice, naturale, autentico percorrono il lento transfert che va dall’eresia alla politica, riuscendo così a eccitare il vago atteggiamento anti-istituzionale, il sentirsi istintivamente all’opposizione del popolo umbro giunto nella modernità. Per Rossi – intellettuale di sinistra privo di preconcetti e dogmatismi – da questo afflato, quasi come logica implicazione, discende l’ineludibilità del rapporto tra pensiero cattolico e sub-cultura comunista. Un rapporto che in Umbria inizia già negli anni Trenta grazie anche agli input capitiniani.[37] La tradizione anticlericale cresciuta all’ombra dei sentimenti risorgimentali non induce la classe politica comunista a evitare di considerare la rilevanza della religiosità della quale la regione è permeata, né determina pregiudizi o prevenzioni nei confronti della Chiesa. Secondo il direttore di “Umbria contemporanea”, non è la contrapposizione tra un partito e una confessione religiosa la leva attraverso cui è possibile migliorare la società. Al contrario, giudica indispensabile la collaborazione tra coloro che, pur nella diversità ideale e culturale, si oppongono a un mondo violento ed egoista e lavorano per un futuro più libero e giusto.[38]
Nel 2008 “Umbria contemporanea” elabora sulla religiosità un numero doppio (10-11). In sede di presentazione, Rossi evidenzia come la religione non debba essere relegata alla sfera privata. Se così fosse, a suo giudizio, riemergerebbe la «vecchia contesa tra un certo laicismo (Gramsci affermava che esso aveva fallito il compito storico di educare “la coscienza morale del popolo-nazione”) e il clericalismo, che appartengono invece a un’epoca tramontata».[39] Sono pertanto i nuovi orizzonti globali introiettati nella crisi politico-culturale italiana a pretendere il proficuo confronto tra le matrici laiche e religiose del paese. Rossi, habermasianamente, ritiene imprescindibile un attivo ruolo pubblico della religione e delle relative istituzioni. Il precario stato di salute della democrazia indica la necessità di rafforzare la coesione sociale, scongiurando quegli insulsi conflitti ideologici che finiscono sistematicamente per alzare muri e barriere dentro il corpo di una cittadinanza smarrita e, quindi, per indebolire lo Stato laico. La rubrica “Ripensare l’Umbria” procede sul crinale che separa la spiritualità trascendente dalle sue implicazioni sociali e si addentra sull’intensa significatività politica di figure quali San Francesco, San Benedetto e Santa Rita per puntualizzare il contributo del movimento cattolico nella modernizzazione dell’Umbria. Perciò, più che la fede, l’agiografia o la religione nel territorio regionale, è l’impatto reale delle soggettività della cultura cattolica sulla società umbra l’argomento della rivista del 2008. Vari e diversi sono gli articoli che in tale occasione ospita “Umbria contemporanea”; ancora una volta si tratta di ricomporre a unità un’identità congenitamente attraversata da tentazioni centrifughe.
In Rossi l’attenzione alla religiosità, in specie di ascendenza francescana, si interseca con i temi della solidarietà, dell’integrazione e dell’accoglienza. Sotto questo aspetto, il numero di “Umbria contemporanea” edito nel 2006, che ha per oggetto privilegiato la società multiculturale, rappresenta uno sforzo intellettuale generoso. “Ripensare l’Umbria” affronta il multiculturalismo da varie angolature, sorreggendosi sul contributo di competenze provenienti dal vasto panorama delle associazioni, dei sindacati e degli enti locali.[40] Agli esordi del Duemila, sono ormai centrali, nell’opinione pubblica come nel dibattito politico, i problemi inerenti all’immigrazione, all’integrazione, alla convivenza interreligiosa. Rossi, in proposito, sente il bisogno di una risposta umbra coerente alla storia e all’identità della regione. Religione, laicità, democrazia sono le direttrici di una riflessione a più voci, che ambisce in primo luogo a donare uno spazio di discussione utile tanto al campo degli attori sociali interessati quanto al campo dei decisori politici. Nella cornice intellettuale di “Umbria contemporanea” il multiculturalismo è eminentemente un metodo, un’attrezzatura da mettere a disposizione delle comunità locali per trasformare i pericoli di esclusione sociale in occasioni di geometrico avanzamento democratico.
Va da sé che la stessa scala di priorità tematiche stilata dalla rivista risenta della visione politica del suo direttore. L’Umbria delle città come spazio di partecipazione e dinamismo relazionale, l’Umbria francescana come paradigma di una tensione al cambiamento e alla pacifica armonia della comunità umana, l’Umbria verde come riferimento a un benessere collettivo materiale e immateriale rappresentano articolazioni di un pensiero politicamente schierato. Non meraviglia, pertanto, che Rossi enfatizzi l’incidenza dell’Umbria rossa tra i poliedrici tratti dell’identità storica della regione. L’intellettuale perugino nega che le fortune del Partito comunista in Umbria siano state dettate dall’efficienza e dall’efficacia di una macchina ideologica e organizzativa o dall’atavico anticlericalismo di una larga fascia di popolazione. L’Umbria è “rossa” perché il Pci ha saputo costruire, sulle istanze storiche di mutamento degli assetti sociali, una via di crescita e progresso.[41] Scendendo in profondità, l’Umbria è divenuta “rossa” perché le forze social-comuniste sono riuscite in un duplice intento: hanno conseguito una solida alleanza con quel ceto agrario che, abbandonata la mezzadria, chiedeva un nuovo ruolo e un nuovo peso nella società industriale, e hanno saputo in parallelo riposizionare nei contesti della contemporaneità i caratteri della civitas, stimolando nel territorio, con l’esercizio del governo, un fermento cooperativo di tradizione medioevale completamente liberato dalle sue intrinseche implicazioni corporative. Rossi crede insomma che Umbria verde e Umbria rossa si susseguano e si sovrappongano. In sostanza crede che il passaggio da un rapporto di dominio della città sulla campagna a un rapporto di alleanza della città con la campagna sia stato uno sbocco storico naturale e, al contempo, una conquista lenta e non banale assolutamente decisiva per gli esiti dell’Umbria moderna.[42]
Lo stereotipo dell’Umbria rossa risale agli anni Cinquanta. Alle elezioni amministrative della primavera 1952 le sinistre guadagnano un notevole consenso, insinuando negli ambienti conservatori una preoccupazione che il 6 giugno, sul settimanale di ispirazione destrorsa “Centro Italia”, appare sintetizzata in un titolo: Umbria rossa.[43] Tuttavia, il Pci si affermerà primo partito della regione soltanto nel 1963, in un periodo in cui la relazione tra città e campagna già inizia a sperimentare un patente cambiamento.[44] Dal dopoguerra in poi, il partito comunista umbro si regge su due gambe: sull’apporto delle masse contadine che si urbanizzano e sul sostegno della classe operaia, in particolare della classe operaia ternana. “La Dinamica” è la città nella quale l’insediamento del Pci risulta più radicato sin dalle fasi della Liberazione. Nelle problematiche ternane si immerge la rubrica “Ripensare l’Umbria” del terzo numero di “Umbria contemporanea” (2004). Rossi vuole qui ragionare sui chiaroscuri dell’evoluzione di Terni come sito industriale, non rinunciando a tornare sulle tensioni e sui contrasti sociali che hanno travagliato la comunità locale all’epoca dell’espansione produttiva e dei licenziamenti di massa. Per richiamare l’unicità della “città dell’acciaio” nel contesto regionale, Rossi insiste nel dire che l’origine del suo sviluppo industriale è essenzialmente rispondente alle esigenze dello Stato, cioè espressione di una politica economica volta ad armare la nazione. Questa peculiarità originaria, secondo lo studioso perugino, costituisce la basilare diversità storico-antropologica che intercorre tra Terni e il resto dell’Umbria agricola. Se per l’Umbria agricola l’antagonista diretto è individuato nella proprietà terriera, per Terni l’antagonista diventa il potere dello Stato centrale.[45] Si tratta di una differenza importante, poiché le due soggettività sociali protagoniste dell’avvio dell’Umbria moderna – i mezzadri o ex mezzadri e gli operai – non hanno identici interessi e identici sovraordinati referenti, per cui, condurre a convergenza ambo le prospettive è stato tutt’altro che immediato e scontato. Sta di fatto, comunque, che il movimento operaio, al pari delle masse contadine, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, trova nel Pci e nella Cgil i suoi primari interlocutori politici.
Il ruolo del sindacato viene ricordato da “Umbria contemporanea” nel 2005, anno della celebrazione del centenario della Cgil. Nelle pagine iniziali, Rossi descrive il sindacato come uno dei primattori della vicenda storica che ha concorso a determinare l’Umbria moderna. Le parole chiave che si leggono scorrendo i testi di “Ripensare l’Umbria” sono “diritti”, “unità”, “sviluppo”, “democrazia”.[46] Secondo l’idea del direttore, l’Umbria ha rotto il giogo della propria arretratezza in virtù del fatto che i lavoratori, fin dagli esordi del Novecento, acquisiscono progressivamente coscienza della loro condizione. Nel dopoguerra, contadini e operai riprendono tale eredità per conseguire, in alleanza, un concreto scatto verso un futuro migliore. Nell’Umbria dei Comuni e dei campanili, dunque delle diversità e delle divisioni, la Cgil è un motore di unità che contribuisce fattivamente a superare i più caparbi localismi e i più tetragoni corporativismi, nonché a legittimare il movimento dei lavoratori umbri sia nelle proteste sia nelle proposte di assunzione di responsabilità collettiva. Per Rossi, l’azione della Cgil ha rafforzato la coesione sociale della regione, ha implementato la rappresentanza degli interessi e, in particolare, ha agevolato la composizione, entro un quadro unitario, di lavori, professioni e soggettività organizzate.[47] A parere di Rossi, insomma, senza il sindacato “rosso”, l’Umbria sarebbe stata certamente meno “rossa”.
L’Umbria delle città, l’Umbria verde, l’Umbria francescana e l’Umbria rossa sono identità che compongono l’unità storico-culturale della regione. Perché l’unità umbra si realizzi anche sotto il profilo politico, occorre però attendere la nascita dell’ente Regione, il quale conferisce a una popolazione fattasi popolo la concreta possibilità di riconoscersi in un progetto comune.[48] Attorno all’idea di Regione si crea in effetti uno slancio partecipativo che coinvolge ogni spaccato sociale e territoriale dell’Umbria. Gli anni Sessanta e Settanta sono un momento di effervescente esperienza collettiva: diritti civili, servizi alla persona, diritto allo studio, salute nelle fabbriche, riforma della psichiatria divengono i principali ambiti su cui si concentra la riflessione politica generale e su cui si tenta di innestare un metodo di lavoro e di confronto dialettico teso a elevare la qualità democratica dei rapporti tra società e istituzioni. Il regionalismo, accostandosi a una strategia di progressiva appropriazione sociale del potere, si traduce in un nuovo (e dirompente) elemento di identità. Quello immaginato per l’Umbria non è un regionalismo che si esaurisce in un’ingegneria istituzionale, né in una prassi amministrativa fondata sulla pura gestione e valorizzazione dei sistemi economici e produttivi territoriali; è soprattutto un regionalismo che prova ad accettare la sfida – di lungo corso e respiro – della riforma democratica dello Stato. Nondimeno, negli anni Ottanta già si affaccia una poderosa riflessione critica in merito al ventennio di rapida modernizzazione vissuto dalla regione. In svariati settori del mondo politico e intellettuale, si ha la sensazione che lo sviluppo umbro abbia puntato tanto sulla quantità e troppo poco sulla qualità, schiacciandosi eccessivamente sul dogma “crescita uguale benessere”[49] Per Rossi, un simile “difetto” ha una chiara ricaduta sull’interpretazione del funzionamento delle istituzioni regionali. Se infatti lo scopo fondamentale è l’aumento della produzione della ricchezza, la regionalizzazione tende a slittare verso un carattere centralistico, che di per sé impedisce o coarta l’approdo al federalismo come necessaria e organica riforma dello Stato. Una spiccata centralizzazione delle competenze amministrative e una pronunciata verticalizzazione degli apparati decisionali assecondano le sollecitazioni del capitalismo dell’età contemporanea, ma, viceversa, frustrano l’istanza democratica legata alla complessità dei bisogni delle comunità locali.
All’epoca del “regionalismo senza Regione”[50], gli esponenti della sinistra umbra ritenevano che un maggior livello di partecipazione nel territorio e un maggior tasso di protagonismo politico da parte delle variegate soggettività sociali generassero una creatività diffusa capace di garantire strutturalmente equità e qualità al modello di sviluppo locale. Sul finire del Novecento, invece, il regionalismo deve fare i conti con i propri ritardi e i propri fallimenti: il rallentamento del ciclo espansivo, la de-industrializzazione dell’area ternana e la crisi generale del sistema politico e partitico obbligano le istituzioni umbre a riconfigurare approcci, metodologie d’intervento e obiettivi.[51] Quale futuro per un’Umbria stretta fra una globalizzazione con inclinazioni accentratrici e richieste di democrazia dal basso è quindi una domanda che va valutata e soppesata all’interno di quest’ultima analisi. Rossi risponde al quesito asserendo che la regione può evitare un rischio di marginalità attraverso una progettualità unitaria e dinamica agita dentro i contesti dell’Italia mediana. «La storia recente – argomenta il direttore di “Umbria contemporanea” – dimostra che la lamentata scarsa coesione interna, l’assenza di un capitale unificante, la tendenza a gravitare verso l’esterno costituiscono elementi di debolezza se l’Umbria resta chiusa in sé stessa, ma diventano punti di forza quando i suoi problemi sono posti a dimensione più ampia, ad esempio a livello di una grande area europea come quella dell’Italia centrale, di cui l’Umbria può essere, con tutte le sue realtà urbane, crocevia, ponte e fulcro dinamico».[52]
Lungi dal trascurare le differenze, la mezzadria, l’importanza delle città medie e l’egemonia dei ceti agrari accomunano l’Umbria a Marche e Toscana. L’analogo portato storico che afferisce alle tre regioni appena citate ha, per Rossi, la potenza culturale e politica per fornire una soluzione alla crisi di modello causata dalla globalizzazione. Nel giugno 2005, nella rubrica “Ripensare l’Umbria”, l’intellettuale perugino delinea l’urgenza di sollevare una questione di valore nazionale finalizzata a rivendicare il ruolo della medianità. In breve, a opinione di Rossi, serve caldeggiare nel dibattito pubblico e politico la questione dell’Italia di mezzo. Il paese, infatti, sembra esageratamente condizionato da un Nord che concepisce lo Stato quasi solo in funzione sussidiaria e un Sud che pretende dallo Stato la soddisfazione di un’ampia gamma di esigenze sociali ed economiche.[53] Umbria, Marche e Toscana debbono pertanto proporsi come un attore collettivo che intende vincere la tendenza centralizzatrice e il processo di de-istituzionalizzazione in atto tramite l’adozione di formule e pratiche democratiche innovative e fortemente ancorate ai caratteri delle singole realtà economico-sociali. L’ipotesi politica dell’Italia mediana ha perciò senso soltanto se indirizzata alla semplificazione della vita delle comunità, al restringimento della frammentazione e alla promozione di una complessiva crescita civile.
Cooperando con tre diversi referenti, ossia le città, le regioni contermini e l’Europa, l’Umbria acquisirebbe gli strumenti per uscire dai rischi dell’isolamento e della marginalità. Nondimeno, per proiettare il regionalismo umbro fuori dalle secche di una certa staticità, è per Rossi dirimente sostituire alla concezione dell’Umbria policentrica quella dell’Umbria plurale. L’Umbria policentrica definisce un dato oggettivo, declinabile sia in chiave localistica sia in chiave centralistica. Se il policentrismo, che nei decenni ha contribuito ad alimentare alcune manifestazioni centrifughe sfibrando via via i tessuti connettivi della regione e infiacchendo man mano gli apparati istituzionali nati nel 1970, è un’oggettiva realtà, l’Umbria plurale è invece un progetto da inverare. Costruire l’Umbria plurale significa, per l’intellettuale perugino, «portare a unità le diversità, in modo che la regione, per quanto piccola, possa far valere all’esterno un ruolo unitario».[54] Mentre l’Umbria policentrica è un retaggio storico, l’Umbria plurale è una scelta politica che mira ad arginare le numerose fughe disgreganti, di cui da sempre è percorsa la regione, al fine di disegnare un impianto unitario imperniato sul riconoscimento delle comunità locali nelle loro intime differenze.[55] L’Umbria plurale diviene così viatico di un regionalismo di tipo nuovo, orientato ad accrescere le potenzialità della regione nel più ampio quadro delle relazioni socio-istituzioni dell’Italia mediana. Affinché l’Umbria espleti fino in fondo la sua funzione nell’Italia di mezzo, per Rossi, è innanzitutto essenziale aggredire il tema dell’organizzazione della vita sociale nello spazio geografico disponibile; un’organizzazione che – storicamente – poggia su due imprescindibili elementi: movimento e stanziamento. Il numero di “Umbria contemporanea” del giugno 2006 verte quindi su strade, ferrovie e infrastrutture in generale. Secondo il direttore della rivista, il nodo cruciale non è capire se e quanto le infrastrutture producano sviluppo; il punto è indagare il rapporto tra economia, tecnologia ed ecologia. Anche in questo caso, Rossi non articola una riflessione di carattere economicista. Al contrario, sottolinea come, per territori contigui, un’adeguata infrastrutturazione materiale sia utile in specie sul versante dello sviluppo sociale e culturale.[56]
In conclusione, il rilancio del regionalismo nel XXI secolo non passa da un’implementazione normativa volta a dare maggiore cogenza a politiche che si risolvono in un ristretto perimetro territoriale. Il nuovo regionalismo è un progetto aperto, che vede nell’estensione delle reti di relazione tra comunità locali e tra varie soggettività politico-sociali dell’Italia mediana una prospettiva di crescita civile, prima ancora che economica. Il regionalismo del Duemila, in sintesi, si incarna per Rossi in un processo dinamico che, sul piano istituzionale, nutre con favore la speranza di una riforma dello Stato in senso federale. D’altro canto, alle note carenze dello Stato unitario, si sommano all’alba del XXI secolo problematiche inedite che contribuiscono a modificare nel profondo i consolidati rapporti tra centro e periferia.[57]
Con “Umbria contemporanea” Rossi regala alla società regionale una traccia di lavoro, una pista da seguire per orientarsi, con cognizione, in un futuro denso di insidie ma pure di opportunità. Non si può nascondere che l’Umbria “ri-pensata” da Rossi abbia la sua scaturigine anche in un pensiero di tipo utopico. Ma quale utopia? Non certo l’utopia che indica un non-luogo, l’impossibile da realizzare o conseguire. Prendendo in prestito la definizione che ne dà Ernst Bloch, l’utopia che si apprezza nelle pagine di “Umbria contemporanea” è quella della sfera del “non ancora”, qualcosa di libero e di aperto su cui vale la pena spendere tempo, energie, risorse umane e intellettuali.[58] Probabilmente è proprio questo genere di utopia a rendere ancora così presenti e “contemporanei” i contenuti della rivista.
Raffaele Rossi nasce a Perugia il primo febbraio 1923. Conseguito il diploma all’Istituto Magistrale nel 1942, inizia l’attività di docente nelle scuole elementari rurali. Successivamente, laureatosi in Lettere a Roma, passerà a insegnare anche presso le scuole medie inferiori. Già nel 1943 partecipa all’organizzazione dei gruppi antifascisti locali, collaborando con diverse personalità intellettuali dell’epoca, quali Averardo Montesperelli e, soprattutto, Aldo Capitini. A partire dal 1948, intensifica il suo impegno politico nella fila del Partito comunista: dal 1951 al 1956 è segretario della Federazione di Perugia, mentre dal 1956 – anno in cui entra a far parte del Comitato centrale nazionale – al 1966 dirige quella di Terni. Subito dopo è chiamato a svolgere il ruolo di segretario regionale. Al lavoro politico nel partito, Rossi somma nel tempo svariati incarichi istituzionali: dal 1952 al 1956 è consigliere comunale a Perugia; dal 1960 al 1968 è consigliere e poi assessore alla Pubblica istruzione al Comune di Terni; dal 1975 al 1980 è di nuovo consigliere comunale a Perugia; e sempre a Perugia è vice-sindaco dal 1980 al 1987. La figura pubblica di Raffaele Rossi non è però relegabile a una dimensione squisitamente locale: dal 1968 al 1979 è infatti eletto per tre volte senatore. In Parlamento si occuperà di industria, comunicazioni, ecologia, istruzione e politica estera. Da parlamentare diventerà pure membro del Consiglio d’Europa (Commissione Cultura ed Educazione). In Rossi l’attivismo politico-istituzionale fa tuttavia il paio con la vivacità intellettuale. Appassionato di storia e, in particolare, di storia del Risorgimento e storia urbanistica, Rossi contribuisce con costanza e in più forme allo sviluppo di svariate istituzioni culturali. Tra queste, la Società Dante Alighieri, l’Università per Stranieri di Perugia, l’Accademia di Belle Arti di Perugia, la Deputazione di storia patria per l’Umbria e l’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, del quale sarà presidente per ben diciotto anni. Rossi è inoltre autore di numerosi saggi e volumi di storia locale. A studiare e scrivere continuerà fino al 2010, anno della sua scomparsa. Cfr. http://www.antifascismoumbro.it/personaggi/rossi-raffaele (ultima consultazione: 16 aprile 2020).
[1] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 5.
[2] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 2, 2004, p. 5.
[3] R. Rossi, La città. La democrazia, Edimond, Città di Castello 2009, p. 33.
[4] “Umbria contemporanea”, 1, 2013, p. 6.
[5] R. Rossi, Discorso sulla città. Passato e presente a confronto nella regione “ritrovata”, Protagon, Perugia 1984, p. 25.
[6] W. Benjamin, Opere complete, a cura di R. Tiedermann, H. Schweppenhäuser ed E. Gianni, vol. VII: Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2010, p. 485 e seguenti.
[7] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 2, 2004, p. 5.
[8] “Umbria contemporanea, 12-13, 2009, p. 6.
[9] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, pp. 9-14.
[10] R. Rossi, La città. La democrazia, cit. p. 79.
[11] R. Rossi, L’unità umbra, in“Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 10.
[12] R. Rossi, La città. La democrazia, cit. p. 82.
[13] R. Rossi, Discorso sulla città. Passato e presente a confronto nella regione “ritrovata”, cit. p. 15.
[14] ivi, p. 18.
[15] R. Covino, Tradizioni civiche ed autonomie locali, in “Umbria contemporanea”, 14-15, 2010, p. 141.
[16] Cfr R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.
[17] Cfr. E. Mantovani, L’Umbria e la programmazione regionale, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi: l’Umbria, a cura di R. Covino e G. Gallo, Einaudi, Torino 1989.
[18] R. Rossi, Discorso sulla città. Passato e presente a confronto nella regione “ritrovata”, cit. p. 40.
[19] Cfr. R. Volpi, Le regioni introvabili. Centralizzazione e regionalizzazione dello Stato pontificio, Il Mulino, Bologna 1983.
[20] R. Rossi, R. Sottani, Le variazioni circoscrizionali in Umbria. Localismo e federalismo, in “Storia dell’Umbria”, XVIII, 1994.
[21] Cfr. R. Rossi, Una piccola regione in una prospettiva federalista, estratto da Uomini, economie e culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, E.S.I., Napoli 1997.
[22] Cfr. R. Rossi, Il Pci in una regione rossa. Intervista sui comunisti umbri, a cura di R. Massarelli, Grafica Perugia, Perugia 1975.
[23] M. Tosti, La ricerca storica: una lezione di vita, in “Umbria contemporanea”, 14-15, 2010, p. 102.
[24] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 11.
[25] ibidem.
[26] G. Coco, Il futuro delle regioni tra metamorfosi e identità, in “RES 2016-2017”, Agenzia Umbria Ricerche, Perugia 2016, p. 433.
[27] R. Rossi, La città. La democrazia, cit. p. 83.
[28] S. Neri Serneri, Per una storia ambientale dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, in “Umbria contemporanea”, 9, 2007, p. 7.
[29] A. Alunni, Ambiente e partecipazione: tempo di consuntivi, in “Umbria contemporanea”, 9, 2007, p. 48.
[30] R. Rossi, Il paesaggio tra percezione estetica, territorio e società, in “Umbria contemporanea”, 8, 2007, p. 5.
[31] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 13.
[32] ibidem.
[33] Cfr. F. Bracco, E. Irace, La cultura umbra tra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. L’Umbria, a cura di R. Covino e G. Gallo, Einaudi, Torino 1989.
[34] R. Rossi, Discorso sulla città. Passato e presente a confronto nella regione “ritrovata”, cit. p. 69.
[35] G. Coco, Il futuro delle regioni tra metamorfosi e identità, in “RES 2016-2017”, Agenzia Umbria Ricerche, Perugia 2016, p. 434.
[36] R. Rossi, La città. La democrazia, cit. p. 83.
[37] ivi, p. 160.
[38] ivi, p. 164.
[39] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 10-11, 2008, p. 9.
[40] G. Coco, Nota introduttiva, in “Umbria contemporanea”, 7, 2006, pp. 8-9.
[41] R. Rossi, Discorso sulla città. Passato e presente a confronto nella regione “ritrovata”, cit. p. 77.
[42] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, pp. 13-14.
[43] ibidem.
[44] Cfr. R. Rossi, Armando Fedeli. Carlo Farini. Dal socialismo umbro al “partito nuovo”, Quaderni Regione dell’Umbria-serie studi storici, Editrice Guerra, Perugia 1979.
[45] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 3, 2004, p. 5.
[46] R. Rossi, Presentazione, in “Umbria contemporanea”, 5, 2005, pp. 5-6.
[47] ibidem.
[48] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 15.
[49] ivi, p. 16.
[50] Cfr. C. Carnieri, Regionalismo senza Regione. Considerazione sull’Umbria degli anni Cinquanta e Sessanta, Protagon, Perugia 1992.
[51] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 16.
[52] R. Rossi, L’unità umbra, in “Umbria contemporanea”, 1, 2003, p. 17.
[53] R. Rossi, Umbria plurale nell’Italia mediana, in “Umbria contemporanea”, 4, 2005, pp. 10-14.
[54] ivi, p. 12.
[55] R. Rossi, Tra equilibrismi e palude, in “Umbria contemporanea”, 6, 2006, p. 152.
[56] R. Rossi, Dall’isolamento all’integrazione: strade, ferrovie, sviluppo, ambiente, in “Umbria contemporanea”, 6, 2006, pp. 5-11.
[57] Cfr. R. Rossi, Una piccola regione in una prospettiva federalista, estratto da Uomini, economie e culture. Saggi in memoria di Giampaolo Gallo, E.S.I., Napoli 1997.
[58] E. Traverso, Malinconia di sinistra, Feltrinelli, Milano 2016, p. 146.
Valerio Marinelli è ricercatore Isuc (Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea) e cultore di storia contemporanea presso il Dipartimento di Lettere-Lingue, letterature e civiltà antiche e moderne dell’Università di Perugia.