Nostra madre ci aveva avvertiti, per dir meglio: ci aveva quasi terrorizzati. Quelli non si dovevano neppure avvicinare. Non parliamo poi di frequentarli, neanche a pensarne.
Eravamo poco più che bambini, e naturalmente il divieto non ebbe altro effetto che acuire la curiosità e il desiderio di conoscerli. A scuola, per essere precisi era un convitto gestito dalle Orsoline, li evitavano tutti, maestra compresa si può dire, e loro comunque non facevano nulla per avvicinare gli altri. A prima vista quel che più stupiva, e quindi rendeva difficile avvicinarli, erano i loro abiti: colorati, strani e vistosi, le loro acconciature fatte di trecce e boccoli penzolanti, le scarpe che non erano scarpe ma dei complicati sandali con cinghie di cuoio che salivano fino alle ginocchia per lui, delle pantofoline ricamate adorne di perline e ciondoli per lei.
C’era una eccezione però: suor Dorotea. Era la suora magazziniera, gestiva le provviste, era grande come un casamento e riusciva a portare un sacco di mandorle sulle spalle tenendolo con una sola mano. Con l’altra mano teneva la mano di Kevork, che era il più piccolo, il quale a sua volta teneva per mano sua sorella, Anouch, poco più grande di lui. Anouch portava sempre dei guanti, quelli per l’estate erano spesso neri di pizzo traforato e la coprivano fino al gomito. Nessuno di noi aveva mai visto le sue mani, Scriveva con la sinistra, e quando mangiava, e loro mangiavano sempre un po’ discosti dagli altri, teneva il cucchiaio con la sinistra, e se si dovevano usare forchetta e coltello, cosa che accadeva raramente perché dalle suore di carne se ne mangiava davvero poca, la destra compariva sul piatto come una specie di lampo, eseguiva il compito necessario e subito scompariva in grembo tra le pieghe del grembiule. Suor Dorotea era anche l’unica che con loro parlava una lingua diversa da quella che a scuola parlavamo e scrivevamo tutti.
Vero che diverse erano le lingue che si potevano cogliere durante la ricreazione, ma quelle più o meno le conoscevamo tutte, dal tedesco al serbo-croato, dallo sloveno al francese, all’inglese. Si spiega, la babele, con il fatto che il quartiere era sede di diversi consolati e la città era ancora amministrata dal GMA. Italiani sì, ma per il momento non del tutto.
Io, a scuola, ma anche fuori da scuola, poiché i genitori lavoravano, dovevo badare alla mia sorellina. A scuola poi ero fidanzato con Micol, che era davvero italiana, una delle poche, e ci tenevo molto. Il suo babbo, amico dei miei, era il medico che ci curava quando stavamo male.
Di tentativi di avvicinarli ne feci diversi, maldestri probabilmente, perché non portavano mai a nessun risultato. Mi frenava soprattutto mia sorella, la paura che le incutevano era così evidente che
loro si ritraevano subito non appena avevano il minimo sentore di un approccio.
Dovette passare qualche anno perché ci ritrovassimo, eravamo ragazzetti ormai, si andava alle medie. Inevitabilmente separati dai nostri fratelli e sorelle minori ci trovammo nella stessa classe. Erano classi miste per la ragione che eravamo talmente pochi che fare una classe di soli maschi avrebbe significato fare una classe di cinque, forse sei, alunni. Con Anouch diventammo amici per reciproco interesse, o necessità forse. Io ero bravo in italiano, latino, storia e geografia, lei era imbattibile in matematica e tedesco. Si leggeva e scriveva ancora in caratteri gotici. Inciso nell’inciso: a leggere e scrivere in gotico l’avevamo imparato dalle suore per precisa volontà di suor Celeste, la direttrice, che oltre al gotico aveva un’altra passione: l’inno dell’impero, e perciò nelle occasioni ufficiali non cantavamo mai il tristemente eroico Fratelli d’Italia, ma il bellissimo Serbi Dio l’austriaco regno (da cui la saga di Serbidiola), che da noi, in una lingua più attuale, si diceva Salvi Iddio dell’Austria il regno; l’inno venne musicato da F.J. Haydn, ripreso poi dalla repubblica di Weimar nel ’22, con il testo modificato in quel Deutschland, Deutschland über alles che i tedeschi cantano ancora oggi.
Così inevitabilmente con Anouch ci trovammo, poco a poco, a diventare inseparabili. I compiti li facevamo sempre insieme e quasi sempre a casa sua. Potevo portarci mia sorella che aveva smesso di aver paura di loro e adesso giocava abbastanza volentieri con Kevork, che poi sarebbe più o meno la versione armena di Giorgio. Loro erano armeni, quindi, e visto che eccellevo in storia e geografia, mi misi a studiare con impegno la storia del suo paese e del suo popolo. Nella biblioteca di casa loro c’erano molti libri sull’argomento, ma i due che più mi coinvolsero furono Four Years Beneath the Crescent di Nogales Mendez e I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel.
Il primo è un resoconto abbastanza oggettivo di un testimone oculare, e corresponsabile dei fatti accaduti, il secondo un’epica romanzata del genocidio del popolo armeno perpetrato dai turchi tra 1915 e 1916. Un milione e mezzo di morti. Certo la storia dell’Armenia non si riduce a questo, però per loro era ancora la memoria più viva e terribile.
Ora devo dire due cose su Anouch, anzitutto che era bellissima e gentile e poi che portava sempre i guanti perché alla mano destra aveva un dito in più. Aveva sei dita e un giorno, senza che neppure dovessi insistere più di tanto, me la fece vedere quella mano e mi raccontò, un po’ alla buona, la storia, quasi una leggenda, che in famiglia si tramandava sulla sua mostruosità.
Mostro: in teratologia, branca dell’embriologia, gli esseri viventi che presentano difformità di struttura rispetto alle regolarità della specie cui appartengono. Quindi se uno che nasce con sei dita è un mostro dal punto di vista biomedico. Poi ci sono i mostri mitologici e quelli immaginari tipo gli unicorni, la Medusa, eccetera, ma sono un’altra categoria.
Si sapeva che la deformità si tramandava in famiglia, ma non era chiaro con che ritmo o frequenza ciò accadesse, pare fosse due generazioni sì e una no. Era certo che passava per la linea femminile, ma a volte si manifestava anche nei maschi i quali però venivano presto amputati dell’escrescenza, anche perché piuttosto che un dito, spesso nei maschi era una sorta di pezzo di carne ciondolante senz’ossa e senza cartilagini. Nelle femmine quel dito in più, di solito perfettamente funzionante veniva conservato, e a quelle che ne erano dotate, al paese loro, si attribuiva un certo potere magico, taumaturgico.
Si spiega forse così l’atteggiamento di mia madre, che non era cattiva, ma certo era un concentrato di superstizioni e fobie molte delle quali se non proprio contraddittorie quantomeno inimmaginabili dentro una stessa testa. Dal culto di Padre Pio a quello di Santa Rita, dalla paura delle divise, quali che fossero: carabinieri, militari americani, peggio se erano neri, e ce n’erano tanti anche sul tram che portava in centro, alla repulsione per le tonache e i sai, non quelli delle suore certo ma preti e frati proprio non li sopportava (però tra le sue reliquie conservava un brandello del saio di Padre Pio!). Votava socialista mia madre, ma aveva una non nascosta simpatia per i monarchici, ben sapendo della responsabilità del Re nel consentire a Mussolini di prendere il potere e poi di emanare le leggi razziali che il duce proprio nella nostra città, nel settembre del ’38 annunciò. e alla nostra famiglia tanta gioia portarono. M’interrompo qui ma la lista potrebbe continuare a lungo.
Probabilmente mia madre sapeva qualcosa di questa faccenda delle dita e perciò temeva che il nostro, di me e mia sorella, possibile contatto coi mostri portasse una qualche specie di malocchio in casa nostra. Anche se il bambino un mostro non era, le sue mani avevano cinque dita ciascuna e così era nato come mi disse Anouch.
Un milione d mezzo di morti non è poca cosa per un piccolo popolo, che in quell’occasione rischiò di scomparire dalla terra e dalla storia. Certo solo un quarto, – da quel che ormai sembrava un dato assodato – di quanto non fosse toccato in sorte in tempi più vicini al popolo cui apparteneva mia madre. Quel popolo non è scomparso dalla storia, però è scomparso da una parte della terra in cui aveva vissuto per secoli.
Questo fatto, lo sterminio, in qualche modo ci accomunava, anche se c’erano delle differenze, ma sulle differenze non ci siamo mai messi a discutere. C’erano e basta, si trattava soltanto di prenderle per quello che erano: usanze, costumi, abitudini, tradizioni. Alcune si potevano condividere altre no, tutto qui.
Vivere con la paura costante d’essere aggrediti, deportati, e magari massacrati, non è il miglior modo di vivere e così loro avevano deciso di partire. Legami di parentela con una famiglia di armatori che viveva da più di un secolo nella nostra città, avevano reso la cosa non troppo difficile, nonostante i tempi bui in cui si viveva. A dire il vero anche i miei genitori avrebbero voluto partire: per l’Australia. Il paradiso in terra. Ci andavano tutti, in pochi anni la città s’era dimezzata, una volta al mese s’andava a salutare la nave che partiva carica di emigranti. Ma per un problema di natura credo politica, a mio padre venne ripetutamente negato il visto d’ingresso, e così non ho avuto la fortuna di crescere in mezzo ai canguri.
Di grande aiuto per non rimanere schiavo dei pregiudizi e delle superstizioni, moneta corrente a casa mia, furono per me i genitori di Anouch. Colti, gentili e intellettualmente generosi. Casa loro era frequentata dalle persone più disparate, commercianti e imprenditori, professori e musicisti. All’inizio, quando cominciai ad andarci, a volte rimanevo un po’ imbambolato in situazioni piuttosto stravaganti, perché seppure avessimo tutto lo spazio protetto per studiare e fare i compiti, accadeva che, magari per uscire in giardino (che in realtà era quasi un parco) ci si trovasse in mezzo ad un gruppo di adulti che discutevano, e discutevano come minimo in due lingue diverse, ma potevano essere anche tre o quattro le lingue, e tra coloro che le parlavano spesso c’erano degli ospiti abbigliati in maniera esotica, esotica come alcune delle lingue che parlavano e di cui io non capivo una parola. E la madre di Anouch stava al pianoforte e qualcuno accanto a lei suonava un violino, oppure un signore magro e anziano suonava una specie di piffero, che seppi poi si chiamava duduk, e quando suonava lui tutti si zittivano e ascoltavano. Abituato com’ero a una routine familiare piccolo (piccolissimo) borghese, fatta di chiacchere, bigotteria luoghi comuni, a volte mi girava la testa se riflettevo anche solo un poco a cos’erano la storia e la geografia dei libri e quanto poco sapessero della storia e della geografia del mondo vissuto. Il mondo visto e sentito e annusato, perché anche gli odori, dai profumi alle puzze nella loro enorme varietà, fanno parte del mondo e lo caratterizzano. Gli odori che permeavano quella casa e le persone che ci passavano e quelle che ci vivevano, insieme ai suoni delle voci e della musica, molto probabilmente sono stati gli stimoli più profondi e quelli che in me hanno agito con maggiore continuità, e che infine mi hanno portato a essere quel che sono e a fare il poco che bene o male riesco a fare.
Poi loro sono partiti e noi siamo rimasti. Ci siamo scambiati qualche lettera. Poche.
Resta soltanto una manciata di ricordi, una convinzione radicata e qualche trascurabile rimpianto.