Il bagno di Michele è affollato come ogni domenica, con l’orchestra al fianco sinistro a sparare musica per ragazzi e ragazze insensibili al caldo di un torrido giorno di luglio, i bambini che giocano al lato sinistro su dondoli e passerelle acrobatiche in miniatura, al centro il bar, opportunamente coperto per offrire riparo ai bagnanti affamati, ma soprattutto assetati, di fronte la distesa di ombrelloni bianchi che dirada vicino al mare con tre file di gigantesche palme ben distanziate, predisposte per accogliere nella grande ombra protettrice i privilegiati che possono permetterselo.Sergio, professore di filosofia a Firenze e scrittore noto nei residui ambienti di critica letteraria, ma abbondantemente ignorato dai lettori del tempo presente, si pente amaramente di essere sceso al mare in quel pomeriggio domenicale per lasciare in pace per qualche ora l’amico che lo ospita distrattamente in una bella dimora con piscina nell’entroterra della costa adriatica.Ha deciso d’impulso di andare al mare per separarsi dall’amico, generoso e ospitale ma qualche volta insopportabile nelle sue pignolerie, accentuate dall’età che volge al tramonto delle speranze e delle aspettative. Indeciso a tutto tra la calca nel bar che emana profumi e sudori viene provvidenzialmente visto da Michele che lo accompagna nella prima fila degli ombrelloni, quella che precede le palme, e gli dice dottore (Michele chiama dottore chiunque non puzzi di selvatichino, l’odore inconfondibile che il contadino di queste parti si porta dietro per incrostazione atavica, resistente a bagni, docce e profumi) si prenda l’ombrellone 14 e si goda un bel bagno. Rinfrancato dall’inatteso aiuto del titolare dello stabilimento lo ringrazia e ne segue il consiglio concedendosi un bagno rigeneratore in un’acqua dalla trasparenza opaca. Dopo il bagno si stende sul lettino dell’ombrellone 14 e inizia a leggere l’ultimo romanzo del suo amico Giuseppe Munforte, Dove batte l’onda, anche lui molto apprezzato da alcuni critici ancorché ignoto ai mitici lettori forti. Mentre legge, di tanto in tanto, butta l’occhio sulla spiaggia nella speranza di intercettare un bel culo ben fissato su gambe tornite e ambrate e vede un siparietto che lo incuriosisce: su una palma alla sua sinistra, nell’ultima fila dal mare e nella prima dopo gli ombrelloni, vede arrivare un cameriere con in una mano una caraffa di vetro contenente un liquido che sembra tè, leggermente opacizzato dal ghiaccio abbondante, e nell’altra un grande vassoio colmo di frutta locale e esotica poggiata artisticamente su piatti di ceramica colorata e in parte infilati in grandi stecchi. Anche da lontano si vede la brillantezza della frutta ben fredda e pronta per essere addentata in quella calura, ma, con sua sorpresa, nota che le due coppie di ultraquarantenni, più giovani di lui di un decennio, dopo la festosa accoglienza del vassoio e del cameriere riprendono a conversare e a sorridere di non sa cosa, data la distanza che li separa. Riprende a leggere deluso dal mancato incontro con un culo degno e leggermente stupito dall’aristocratico comportamento della doppia coppia che di fronte alla brocca di una bevanda fredda e alla succosa fragranza della frutta fresca oppone un ostentato disinteresse. Dopo qualche pagina non resiste a guardare di nuovo e ritrova la scena immutata: i quattro che parlano e sorridono tra loro, il vassoio integro e la caraffa piena. Protetto solo dal parasole del lettino e vittima come tutti dell’afa non capisce, anzi ne è molto infastidito, come si possa lasciare intatti una bella caraffa di tè freddo e tanta bella e buona frutta su un vassoio di portata, e così decide di assecondare il buon senso che è in lui e di rassegnarsi a tacere (con se stesso in questo caso) di fronte a ciò che non si comprende. Riprende la lettura di Dove batte l’onda, e si lascia catturare dal racconto di un uomo che si perde proprio nel momento in cui si illude di aver trovato un senso in un incontro, in una donna che lo riporta in una vita che era stata la sua e nel ricordo di un inabissarsi nelle onde da cui è riemerso si rende conto che l’onda batte ancora la sua zampa. Ha appena finito di leggere il romanzo e, incredulo, vede il vassoio ancora pieno di tè e di frutta, ma la caraffa ha perso l’umore del freddo, la frutta ogni freschezza e la doppia coppia l’apparente brillantezza del conversare.
Il sole sta tramontando, non brucia più, ma il caldo, pur attenuato, mantiene la sua presa sulla pelle nell’appiccicaticcio fastidioso che solo una doccia ristoratrice può alleviare. Si alza e si avvia verso il bar per saldare il conto e tornare a casa, ma quando raggiunge la passerella che porta alla cassa devia verso il mare per passare vicino alla palma della doppia coppia e vede da vicino il mutato siparietto: il vassoio sempre intatto, la brocca con il tè leggermente più chiaro per il ghiaccio ormai sciolto che il sole ha trasformato in una bevanda calda, la frutta quasi avvizzita, il silenzio tra le due coppie nella spiaggia ormai deserta. Per andare alla cassa deve passare di nuovo vicino alla palma e mentre la supera, senza guardare, sente nel naso il sentore di selvatichino che ha imparato a conoscere dopo le molte vacanze trascorse nella villa del suo amico che possiede un podere, ereditato dalla famiglia, dove qualche volta è stato per aiutare a vendemmiare e lì ha sentito quell’afrore inconfondibile. Nel breve tragitto in macchina cerca di nuovo una spiegazione al comportamento delle due coppie di amici della palma ma, per la seconda volta, si arrende all’incomprensibile. Arrivato a casa racconta all’amico la strana situazione osservata sulla spiaggia e vede il suo sorriso ironico, come se per lui fosse tutto chiaro. Ti fa ridere, gli dice, a me sembra assurdo e mi farebbe incazzare se la tua ironia fosse rivolta al mio stupore. No, gli risponde l’amico, è naturale che non capisci, ma in realtà è tutto molto semplice e lineare. Tanino e Aliseo sono due ex contadini del tipo scarpe grosse e cervello fino, che stufi di lavorare la terra senza grande profitto hanno corteggiato, adulando e umiliandosi, un ricco signore del paese che faceva il manager in una grande azienda del centro Italia, convincendolo a mettere insieme una società per la produzione e la commercializzazione del vino. All’obiezione del manager che non aveva tempo e poi lui non avrebbe potuto essere socio senza lasciare la sua azienda risposero che il tempo non era un problema, perché cinque minuti della sua genialità valeva un anno del loro lavoro messo insieme e per la società non c’era alcuna difficoltà: l’avrebbero fatta formalmente loro due, ma appena avrebbe potuto sarebbe entrato lui regolarizzando l’accordo privato che potevano fare subito. In questo modo lui avrebbe avuto solo vantaggi perché l’azienda prima di recuperare gli investimenti non avrebbe fatto profitti e quando lui sarebbe entrato formalmente sarebbero passati gli anni difficili dell’avvio e del pareggio di bilancio. Il suo ingresso formale sarebbe avvenuto solo nel momento nel quale si sarebbero raccolti i frutti del rognoso lavoro iniziale che loro due si sarebbero messi sulle spalle e poi conclusero noi siamo agricoltori di terza generazione e per noi la parola data è più sacra della vita. Solo dopo molte e reiterate insistenze il manager acconsentì all’accordo e invece dei cinque minuti dedicò moltissimo tempo, concentrazione e attenzione prima alla progettazione, poi alla costruzione della cantina. Successivamente studiò il marketing strategico, ma il lavoro più difficile fu definire il protocollo di vinificazione con l’enologo e posizionare l’azienda nelle più importanti guide nazionali e internazionali. A questo lavoro dedicò tutti i fine settimana, le ferie e il tempo libero. Dopo solo quattro anni l’azienda era conosciuta e apprezzata nel mercato interno e all’estero, al sesto cominciava a fare considerevoli profitti. Tanino era diventato un abile commerciante e Aliseo un bravo cantiniere e a quel punto avrebbero potuto fare a meno dell’enologo e del manager, e così fecero. Quando il manager chiese di formalizzare il suo ingresso, poiché aveva risolto i problemi con la sua azienda e poteva diventare socio, gli opposero prima problemi procedurali e poi gli dissero a brutto muso che per entrare avrebbe dovuto licenziarsi dalla sua azienda, pagare sei anni di stipendi del loro massacrante lavoro e ipotecare le sue proprietà, come avevano fatto loro al momento della costituzione della cantina e aggiunsero ironicamente che il loro era uno stipendio da manager. I due ex contadini erano diventati imprenditori e il manager, che un briciolo di buon senso l’aveva conservato lasciò perdere, recuperando almeno il denaro investito in un’azienda che era stata anche la sua. Aliseo è stato fin da ragazzo un animale da soma e mentre prima sudava sulla terra ora sgobba in cantina, mentre Tanino da contadino dandy è diventato un commerciante con quintali di pelo sullo stomaco, ma, in fondo, sono rimasti contadini con il sitino di selvatichino che nessun profumo potrà mai cancellare e allora il loro piacere non è bere il tè e mangiare frutta esotica sotto la palma, ma esibire, anzi ostentare che non ne hanno voglia e la possono lasciare in mostra, come altri contadini che hanno costruito, accanto alla vecchia casa di campagna, una villa in stile, tutta arredata, ma vivono nella cucina della vecchia casa. Sono rimasti poveri dentro e nessuna ricchezza li emanciperà. E’ vero che tutto è semplice e chiaro? Al mio rispondere sì l’amico ha aggiunto, no, in realtà non tutto lo è fino in fondo, perché quel manager ero io. A quel punto tutto mi è stato chiaro, anche il racconto che aveva dovuto attendere la spiegazione dell’amico per essere scritto.