Mi sono interessato in passato degli aspetti psicologici che entrano in gioco in campo oncologico e ciò è avvenuto subito dopo la morte di mio padre per epatocarcinoma.
L’aggettivo che mi sembra più calzante per dare un’idea di quale sia stata la mia esperienza in quella situazione è Devastante.
Ciò nonostante, avverto un senso di profonda gratitudine verso mio padre che mi ha permesso di cogliere l’occasione, la “buona occasione”, di essere partecipe, per la prima volta, al percorso di distacco di una persona dall’esistenza in vita.
Alcuni mesi prima di quest’evento era nato mio figlio ed avevo avuto la “buona occasione” di essere partecipe, per la prima volta, al percorso di radicamento di una persona nell’esistenza in vita.
L’aggettivo che mi sembra più calzante per dare un’idea di quale sia stata la mia esperienza in quella situazione è Esaltante.
In entrambe le situazioni mi sono sentito coinvolto affettivamente attraverso il vincolo familiare ed al pari sollecitato a tener attivo lo sguardo professionale.
In un caso (morte del babbo) mi trovavo in casa mia, della mia famiglia d’origine, e di ritorno dall’ospedale dove ”non c’è più niente da fare”, avevo trasformato la camera dei miei in un ibrido ospedaliero con asta per la flebo, siringhe, stetoscopio, sfigmomanometro, WC chimico e quant’altro.
Nell’altro (nascita del figlio) mi trovavo in un ospedale, ma comodamente alloggiato in una camera arredata come in un albergo con letto matrimoniale, ampio bagno con vasca da parto, stereo, libreria, frigorifero e telefono.
Tutto era preparato affinché la nascita avvenisse nella maniera meno medicalizzata possibile, pur assicurando un livello di intervento adeguato e pronto in caso di necessità. L’accoglienza in area domesticata ( leggi: con atmosfera di casa) estesa ad entrambi i coniugi era molto rassicurante, ma anche aprire la porta e trovarsi nel mezzo della corsia di un ospedale tradizionale contribuiva sensibilmente alla nostra tranquillità.
Nel primo caso invece, quel “non c’è più niente da fare” decretava l’uscita di scena della medicina quale sistema organizzato di conoscenze, pratiche e procedure atto a contrastare, antagonizzare, combattere la malattia e mi lasciava, unico ed ultimo avamposto con le armi spuntate a ritardare il più possibile l’evento, assistere, monitorare, indirizzare l’andamento della malattia?
Mentre apparecchiavo la stanza con il materiale cortesemente offerto dall’ospedale, con il babbo gonfio d’ascite già nel letto, sentivo che eravamo come quei soldati lasciati indietro a rallentare l’avanzata del nemico, nell’attesa, senza speranza, di una capitolazione inevitabile.
Da quel momento e durante le innumerevoli notti insonni che seguirono ho progressivamente preso coscienza di essere stato formato ed allenato per praticare una medicina “belligerante”. Una medicina fatta di “lotta contro questa e quella malattia” di “difesa della salute” di “presidi sanitari, terapeutici, preventivi”, di anticorpi come missili intelligenti alla ricerca del “target” antigenico, di infiammazioni come incendi, di cellule neoplastiche come incursori, di metastasi come avamposti capaci di aprire conflitti su nuovi fronti.
Una medicina capace di pompare all’inverosimile l’onnipotenza eroica del medico ma anche di regalare frustrazioni immense come oceani di sconfinata impotenza.
Una medicina, un sistema di conoscenze, che tenendomi concentrato sui sintomi e sulla malattia da “combattere” mi aiutava, in quella circostanza per me così particolare, a difendermi dal dover prendere in considerazione la persona del mio congiunto nella sua necessità di accompagnamento all’esperienza degli ultimi tempi di esistenza in vita.
A differenza degli altri familiari potevo rifugiarmi nel ruolo professionale ed evitare, almeno apparentemente, che quanto mio padre andava esperendo evocasse in me lo spettro della mortalità, della mia stessa mortalità, riflessa nell’innegabile evidenza della sua che si andava compiendo.
Citando Savater “Moriranno altri uomini, ma ciò accadde nel passato/che è la stagione (nessuno lo ignora) più propizia alla morte”[1].
Dice Borges all’inizio di un breve e magnifico poema apocrifo:
“E’ possibile che io, suddito di Yaqub Almansur/muoia come dovettero morire le rose e Aristotele?”.
Per quanto la statistica sia irrefutabile e il nostro stesso corpo non smetta di mandarci segnali inequivocabili, la nostra morte sembra a ognuno di noi non molto di più di un’ipotesi, intimamente poco verosimile. Se volete, sappiamo che moriremo, ma non ci crediamo.
Sull’argomento Sigmund Freud è assertorio:
“Effettivamente la propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo constatare che in realtà continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare l’asserzione che non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte, o, ciò che equivale, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”
(S. Freud, 1915: Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. in Id., Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976. p.137)
Non so definire bene, oggi, quanto allora mi trovavo ad agire in ruolo di medico dal procedere alla misurazione di vari parametri biologici, all’elaborare complesse strategie per evitare il crollo della protidemia e l’ulteriore diffusione dei liquidi in peritoneo.
Perché lo facevo? E perché mi sembrava inevitabile doverlo fare?
Mi stavo occupando della persona di mio padre o della sua malattia?
Tentavo di contrastarne il male nell’illusione onnipotente di poterne rallentare se non annullare l’esito?
Pre-occupandomi delle sua malattia, mi prendevo forse l’agio psicologico di non occuparmi della sua imminente morte e della nostra, la sua come la mia, innegabile mortalità?
E soprattutto, quella componente del mio agire, diciamo così, tecnico-scientifica corrispondeva a qualcosa che, anche solo parzialmente, potessi chiamare “cura”?
Prendermi cura del male, del suo andamento, del suo procedere nel corpo o prendermi cura di quella persona che, a sua volta, con tanta cura mi aveva allevato?
E le due cose insieme, così come apparivano entrambe necessarie, sarebbe stato umanamente possibile agirle contemporaneamente?
Così narrava Igino:
La “Cura”mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la “Cura” che per prima diede vita a questo essere, fin che esso vive lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami “homo” poiché è fatto di “humus” (Terra)[2].
Quanto espresso da Igino è intuizione poetica che una ventina di secoli dopo ha trovato conferma in osservazioni etologiche e psicanalitiche di grande ed affascinante rilievo. Innanzitutto le osservazioni di Renè Spitz (degli anni ’50) sulle carenze (totali o sub-totali) di cure affettive materne a carico di neonati. Mi riferisco qui, nei termini di “cure affettive materne”, allo svolgere azioni affettivamente significative esitanti in esperienze sensoriali gratificanti quali contatto, abbraccio, sguardo, voce, ecc.
Spitz svolse le sue ricerche in istituzioni per infanti abbandonati.
Laddove non riusciva a trovare una madre sostitutiva per ognuno dei piccoli ospiti, fosse stata costei pur’anche un uomo, propose degli allattatoi meccanici; ma dovette constatare che, pur in presenza di cibo, calore e pulizia ma in assenza di cure affettive materne o di adeguato sostituto, l’infante sviluppava comunque una “depressione anaclitica”, altresì detta sindrome da abbandono o sindrome da ospitalizzazione, caratterizzata clinicamente dal costante susseguirsi delle seguenti fasi:
- il pianto del bambino si fa più monotono e meno modulato; si trasforma in grido;
- dopo 2-3 mesi, in assenza di cure affettive materne, il bambino diviene insonne, rifiuta il contatto, ha un arresto dello sviluppo psicomotorio; l’espressione del viso diviene rigida; assume frequentemente la posizione che Spitz ha considerato “patognomonica”: resta lunghe ore coricato a ventre in basso con scarsa reazione agli stimoli. Nel frattempo ha un calo ponderale ed un crollo delle difese immunitarie;
- se perdura oltre 3 mesi questa condizione può portare a ritardi mentali irreversibili; talvolta anche a gravi decadimenti organici generali (marasma) e finanche alla morte.
In relazione agli studi di Spitz, ed alla loro integrazione con le risultanze prodotte da John Bolbwy e note come “teorie dell’attaccamento”, si è giunti a collocare il bisogno affettivo del bambino a livello dei bisogni biologici fondamentali ed a definire la dipendenza vitale dalla cura materna nei termini essenziali di “fame primaria d’amore” (Levy).
Dunque, pur provvedendo alle necessità biologiche fondamentali quali acqua, cibo, calore ed igiene adeguata, che si può ottenere organizzando ed amministrando una “sufficientemente buona” ospitalità secondo criteri logici e tecnico scientifici, in assenza di veicolazione di affetto, in assenza di quelle funzioni affettive elementari che rendono conto, non a caso, della nostra appartenenza al gruppo dei mammiferi la “vita”, constatata la “bio-illogicità” dell’ambiente, opera un progressivo disinvestimento dal corpo biologico decadendo gradualmente, con danno via via sempre meno riparabile, fino ad estinguersi.
In altri termini, se un “dispositivo organico umano” (ma anche solo organico o vivente) viene lasciato senza cura va in sofferenza e il danno che può derivarne sarà tanto più grave quanto più tenera è l’età del deprivato e quanto più prolungata è l’assenza di cura o di vicariazione della stessa da parte di altro mammifero.
Tra gli animali l’uomo, avendo supposto di poter cambiare assetto posturale, ovvero essendo stato costretto da contingenze evoluzionisticamente significative a passare al bipedismo è andato incontro ad alcune trasformazioni:
- Restrizione dei diametri del bacino per assicurare un supporto valido alla deambulazione;
- Trasformazione del treno anteriore dei quadrumani in arti superiori dei bipedi. Con esonero degli arti superiori dal sostenere il peso e specializzazione degli stessi nella funzione esplorativa/manipolativa. Esplorazione che, quando rivolta a materia vivente, diviene interazione e quindi relazione. Esplorazione, interazione e relazione richiedono sempre maggior complessità e specializzazione che, per essere funzionalmente integrate a livello di sistema nervoso centrale, richiedono un fondamentale prerequisito bio-strutturale: un aumento di dimensione della vescicola cefalica e quindi della testa del nascituro.
- Ne consegue: “diminuzione” relativa del tempo di gestazione per impedire che i rapporti tra diametri cefalici “aumentati” e diametri del bacino “ridotti” possano confliggere a tal punto, al momento della nascita, da impedire il passaggio della prole attraverso il canale del parto.
- Ne consegue: Nascita “anticipata” di una prole che risulta essere la “più” inerme di tutti i mammiferi, raggiungendo l’indipendenza nel movimento dopo 12 mesi circa.
- Ne consegue: necessità vitale di continuare ad essere assistita e protetta una volta fuori dalla pancia, necessità vitale di cura, di rimanere il più possibile a contatto con i suoni del corpo materno (voce inclusa!), con la temperatura del corpo materno, con la morbidezza del corpo materno, e via via che gli apparati sensoriali si sviluppano, con l’odore del corpo materno, nonché con lo sguardo e la mimica materna in tutte le sue modulazioni espressive e quindi emotive.
Il primo ambiente di vita deve pertanto:
- rispondere il più possibile alla nostalgia fusionale della “carne materna, prodiga di cura” (Irigaray, 1989);
- essere conseguente e congruo all’esperienza di “cura totale” esperita nella fase prenatale;
- essere causa, funzione e stimolo del gradualissimo progresso verso l’indipendenza.
La cura quindi, come funzione peculiare della specie; attitudine fondamentale e necessaria alla sopravvivenza e allo sviluppo della prole.
Alimento della “fame primaria” la cura materna radica in noi la prima essenziale “tessera engrammatica“[3] necessaria alla sopravvivenza: quella dell’amore.
Tornando all’ esperienza della nascita del figlio, tutto si svolse in armonia e potemmo passare la notte insieme nella stanza più ospitale. Se non che la nascita prematura di un mese ed un velo di subittero promossero, secondo protocollo, la deposizione del “prematurino” in incubatrice, per irradiarlo con una lampada a raggi ultravioletti. Era maggio e sarebbe bastato esporre il bimbo al sole nelle ore calde, attraverso la finestra aperta, perché gli ultravioletti, naturalmente prodotti dal sole provvedessero a rompere le molecole di bilirubina sulla superficie cutanea. Nonostante le mie conoscenze scientifiche di giovane medico, impiegai un paio di giorni prima di decidermi ad esprimere un motivato dissenso circa le considerazioni tecniche, per altro ineccepibili dal punto di vista procedurale, espresse dal pediatra; firmare la cartella clinica e “dissequestrare” l’infante dal raziocinio scientifico che, incurante del danno che poteva occorrere, ne tratteneva il corpo in incubatrice per svolgere i suoi (…i nostri) protocolli in totale alienazione rispetto ai più elementari principi di cura.
Rivedendo oggi questi passaggi mi sorprendo a constatare che:
- nel caso della morte del babbo, in una casa “ospitalizzata”, il ruolo medico, l’agire tecnico-scientifico e procedurale, mi si erano offerti come scappatoia alle tensioni dovute a quanto, attraverso la malattia, si profilava. Se, come accade a molti, avesse prevalso il mio bisogno di fuga dallo spaventoso inevitabile evento, ovvero se mio padre non avesse avuto la lucidità di chiedere di morire nel suo letto, molto probabilmente avrei preteso ed ottenuto che fosse assistito secondo le migliori procedure in reparto specialistico ed infine in terapia intensiva, attaccato a delle macchine fino all’esito.
- nel caso della nascita del figlio, in un ospedale “domesticato”, le considerazioni tecnico scientifiche del primario della pediatria, portate secondo scienza e coscienza per prevenire danno e malattie, scotomizzavano e nascondevano le effettive priorità della neonata persona che, evidentemente, erano di stare a stretto contatto con la madre. Se, come accade a molti, mi fossi semplicemente affidato al “procedere delle procedure”, il neonato sarebbe rimasto in incubatrice per scongiurare un rischio reso tangibile dalla colorazione giallastra della pelle, finendo per essere esposto ad altro rischio, meno tangibile ma non per questo di minor portata, quale la separazione dal corpo della madre nel primo periodo di vita.
Come un’azione di protezione quando diventa invasiva non risponde più al principio di cura, così un’azione che distrugge non necessariamente ha una valenza negativa se si qualifica come decostruzione di mondi simbolici o di pratiche relazionali che riducono lo spazio di autorealizzazione dell’altro.[4]
Continuando ad indagare su senso e significati della cura mi piace includere alcune righe dalla voce Cura dell’Enciclopedia Einaudi:
La Cura, presentata dalla logica liberale, formalmente rispettosa della libertà dell’individuo, come un diritto del cittadino, si traduce in un’illusione che consente -attraverso l’esplicazione delle (nuove) tecniche- l’espropriazione del corpo del malato. Se infatti la malattia è diventata una mediazione contro cui lottare per evitare la morte, se cioè la paura della morte si è tradotta in paura della malattia, non è l’uomo malato a lottare contro la sua malattia, pur con l’aiuto del medico, ma è il Tecnico che se ne appropria come oggetto di sua competenza, escludendo ogni partecipazione dell’uomo che, in questo modo, si trova espropriato non solo della malattia, ma dello stesso corpo di cui altri si impadroniscono[5]
La grande ricchezza che, a mio avviso, le medicine non convenzionali portano in dote alla scienza medica, attraverso la proposta delle Medicine Integrate, consiste proprio nel produrre un punto di vista capace di riposizionare il medico rispetto all’ “oggetto di sua competenza” che, allo stato dell’arte, sembrerebbe poter essere solo la malattia.
Ricollocarne il punto di vista in modo tale che includa la persona oltre che la malattia. Ripeto: oltre che la malattia, non Al Posto Della Malattia!
Ciò che ha sollecitato in me l’interesse professionale e mi ha condotto, ormai maturo, a riprendere gli studi di medicina nella sue varianti dell’Omotossicologia prima e dell’Omeopatia poi, è stato il fatto che, nell’incontro con il paziente, si dovesse mirare innanzitutto a far emergere la costituzione, il substrato bio-tipico di quest’ultimo. Come dire che, nell’incontro con il malato, la prima domanda che il medico è tenuto a porsi non è: “che sintomi esprime o che malattia ha?” così da comporre rapidamente la diagnosi e veloce passare alla terapia con già in testa la domanda incalzante: “con quale categoria di farmaci, macchinari, manovre operative, posso aggredire la malattia?”.
Ma diventa essenziale chiedersi, in anticipo rispetto a queste pur lecite considerazioni: “ Chi è? Come sta al mondo? Che postura ha? Come cammina? A quali esperienze è incline? A quali emozioni? Quale Costituzione è sottesa al suo modo di essere? Quale biotipo? Quale carattere?”. E di seguito: ”Quale gruppo di rimedi, sottoposti a prooving, ha dato evidenza di sollecitare quella costituzione ad indirizzarsi verso uno stato di maggior benessere?” Ed infine, dopo aver incrociato questi dati con l’analisi dei sintomi ed indagato il modo, a volte del tutto personale, di patirne: “Come posso coltivare le cause della sua salute?”, che non solo è molto diverso da dare battaglia alla malattia ma, coltivare le cause di salute, è qualcosa che assomiglia da vicino a quanto fanno istintivamente le mamme di mammiferi e che, come abbiamo visto, può essere considerato operativamente fondativo del concetto di cura.
Ed allora, trovandoci a trattare di funzioni operative, possiamo arrivare a dire che la cura si può agire?
Certo! La cura è un agito.
Un agito diffuso in tutto il mondo animale, specifico della classe dei mammiferi, particolarmente sviluppato ed essenziale per la specie umana. Le cure primarie, opportunamente agite dalle mamme o da adeguati sostituti, si inscrivono nel nostro organismo come tracce mnestico-sensoriali fondanti il presupposto assoluto dell’esistenza in vita, ed in seguito, delle sue declinazioni e rappresentazioni nell’amore, nel piacere, nel benessere, nella salute.
Le qualità termiche, ritmiche, vibrazionali, in una parola sensomotorie, che sostanziano le cure primarie all’interno della relazione madre-neonato sono le uniche capaci di innescare, laddove ovviamente siano sufficienti i presupposti biologici, il nostro strumento emotivo/sensoriale, il corpo, in-formandolo secondo i principi biologici e zoologici di Regno, Classe e Specie, ma anche secondo gli stili culturali e relazionali di etnia, tribù, famiglia, diade e, ovviamente, individuali. Il processo può avvenire in vari modi, più o meno qualitativamente congrui o difettuali, ciò che è dimostrato con certezza, è che si arresta completamente, per riduzione dei “tempi di esposizione all’amore materno” al di sotto di un limite quantitativamente critico che, almeno negli anni ‘50 del novecento, è stato misurato da Spitz nell’ordine di 6 mesi di assenza continuativa nel corso del primo anno di vita.
Se ne deduce che, se la cura è un agito, il requisito essenziale della cura è la presenza di un essere capace di agirla.
Cosa possiamo intendere, allora, per presenza?
Se manca la persona fisica del caregiver (dall’inglese: colui che profonde cure.) ovviamente non c’è agente e non può esserci cura. Se il caregiver, o presunto tale, è lì fisicamente ma con il flusso dei pensieri è nella memoria o nella previsione quando non trasferito istantaneamente in un “presente altro” dagli strumenti della telecomunicazione, ciò che potrà agire sarà, tutt’al più, una attività di cura, spesso standardizzata e routinaria ma, se l’agente è esperto, anche ineccepibile sul piano tecnico formale. Se invece il caregiver riesce ad essere presente a se stesso e quindi all’altro, se è capace di rinunciare alla propria assenza, se in maniera deontologicamente ed eticamente misurata riesce ad agire la propria “mezza parte” nel fenomeno duale della relazione, allora ha qualche probabilità di trovarsi a svolgere una azione di cura sinergicamente terapeutica (se è tecnicamente competente) e taumaturgica (se è relazionalmente competente).
Performare una azione di cura non è dunque semplice, qui come per altri fenomeni difficilmente misurabili, conta non solo la quantità di tempo che come curante si trascorre in presenza dell’altro, ma anche e soprattutto la qualità della presenza. L’azione di cura come atto di presenza qualitativamente rilevabile, oltre che tecnicamente competente, può rendere conto di un “ritorno a casa” della medicina alla sua funzione originaria di arte della cura. Un’arte di tipo performativo che, come tutte le arti performative, ha bisogno, oltre che di una formazione teorica ed adeguata pratica, di un sistema di allenamento costante e continuativo che procuri, favorisca e susciti la necessità del performer di trovarsi in un determinato stato esistenziale di particolare disponibilità psicofisica all’esecuzione dell’atto d’arte: in questo caso specifico l’atto, squisitamente relazionale, della cura.
Per concludere, vorrei proporre un’ulteriore spiazzamento semantico che potrebbe essere d’introduzione e stimolo ad un effettivo cambiamento dello stato dell’arte. Proviamo a vedere che succede se consideriamo un retaggio del “bellicismo” medico-scientifico anche il termine centrata che ancora assomiglia a mirato e che evoca un puntatore ed un bersaglio. Proviamo ad immaginare cosa può accadere sostituendo “medicina centrata sulla persona”, espressione alla quale come sperimentatori di medicine complementari alla medicina tradizionale occidentale siamo già sensibilizzati e fidelizzati, con il termine “medicina basata sulla persona” o meglio ancora “fondata sulle persone”.
Potrebbe essere, se mi si passa il paragone, come quando fu scoperto il sistema delle vene e delle arterie: era già lì ma non lo avevamo ancora considerato; una volta che lo abbiamo preso in considerazione si è prodotto un aggiornamento che ha riguardato tutto il sistema delle conoscenze scientifiche sul funzionamento degli animali.
Oggi, volendo affermare questa come una scoperta ed aggiornare l’oggetto di applicazione della medicina dalla malattia al malato o, meglio ancora, alla persona, opereremmo un necessario quanto provvidenziale “cambio di paradigma” e potremmo trovarci a stravolgere radicalmente il sistema di conoscenza con un effetto domino. Nel momento in cui, anche come tecnici, ci troveremo a prendere in considerazione la persona, senza ridurre il campo di attenzione al mero oggetto malattia, dovremo riconoscere di aprire con questa una relazione. Poco simmetrica sul piano dei ruoli, dei poteri e delle conoscenze ma assolutamente speculare sul piano della soggettività: non vi sarà più un soggetto che compie operazioni tecnicamente e scientificamente validabili su di un oggetto, ma due soggetti che si relazionano per produrre salute, o meglio per coltivare salute.
La mia impressione è che, accettando finalmente di agire una medicina di relazione e di coltivare l’altro profondendo cura, nel senso proprio del termine, potremmo trovarci a dischiudere la medicina del futuro recuperando al mansionario del curante la raffinata ed antica arte della taumaturgia, ad affiancare la collaudata ed efficiente tecnica della terapia.
[1] Fernando Savater: La vita eterna, Laterza, Roma-Bari 2007. p.35
[2] In Martin Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1976, p. 247; traduzione del Fabularum Liber dell’autore latino Igino, II°sec. D.C.
[3] Un engramma è un ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche nel tessuto del cervello. Il termine engramma risale al biologo tedesco Richard Semon (1904). L’engramma era per l’autore un cambiamento permanente nel sistema nervoso, la traccia mnestica che conserva gli effetti dell’esperienza nel tempo. (http://it.wikipedia.org/wiki/Engramma)
[4] Luigina Mortari: La pratica dell’aver cura, Paravia Bruno Mondadori Editore, 2006, p.33
[5] Cura, Enciclopedia Einaudi, Torino, 1978, vol. 4, pag. 306; voce redatta da Franca Ongaro Basaglia
Maurizio Venezi ecologo, medico omotossicologo, psicoterapeuta specialista in psichiatria. Vive ed esercita a Perugia dove ha fondato (2018) e coordina in qualità di mastro la “Bottega artigiana della Cura” (maurizio.venezi@gmail.com).