«I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!»
Pier Paolo Pasolini
Nel paragrafo 47 della Critica della facoltà di giudizio Kant afferma che tutto ciò che Newton ha esposto nella sua opera immortale sui Principi della filosofia della natura, benché avesse richiesto un grande impegno per scoprirlo, nondimeno poteva essere facilmente insegnato e appreso. Invece, per quanto possano essere esaurienti le regole e i precetti per l’arte della poesia e malgrado l’eccellenza dei modelli di cui si dispone, non si potrà mai «apprendere a poetare con ricchezza di spirito». La ragione di queste affermazioni risiede nel fatto che l’arte bella è arte del genio; e mentre Newton avrebbe potuto mostrare a chiunque i passi da lui percorsi per giungere alle sue più grandi scoperte, così che ciascuno avrebbe potuto ripercorrerli da sé, il genio creatore non può indicare come si producano e si combinino nella propria testa le sue idee, «dal momento che egli stesso non lo sa, e neppure quindi può insegnarlo ad altri». L’abilità del genio non può essere comunicata. Essa, scrive Kant, viene donata immediatamente ad un prediletto dalle mani della natura, «e quindi muore con lui, finché un giorno la natura non ne doti di nuovo un altro, il quale non ha bisogno che di un esempio perché il talento di cui egli è cosciente operi in modo simile».
Il gesto del genio, dunque, non si può né insegnare né imparare. Si possono studiare minuziosamente ciascuno dei passaggi che hanno portato alla creazione di una grande opera artistica, dal modo di mescolare i colori a quello di tenere in mano i pennelli, dalla tecnica di cui ci si è serviti per lavorare la pietra, agli strumenti utilizzati per inciderla. Si potrebbe persino pensare di conoscere a puntino il temperamento proprio dell’autore. Eppure tutto questo non basterà a produrre un’opera di pari significato. Perché il gesto creativo nella sua essenza più riposta non è riproducibile.
Certo, si dirà, il calcio è molto lontano dall’arte bella. Esso è anzitutto una attività volta all’ottenimento di un determinato risultato, segnare e vincere, a partire dal rispetto di un numero limitato di regole note ai partecipanti – giocatori e spettatori. Il calcio è giustappunto un gioco; e come tale, qui è soprattutto il risultato a definire il valore dell’azione; e le regole costituiscono la cornice entro la quale diviene possibile approntare strategie, programmi o tattiche, tesi a definire le condizioni sempre ottimizzabili della vittoria. In questo senso, di abilità puramente tecnica, il calcio appare come ciò che è riproducibile per eccellenza. Non è un caso, infatti, che il gioco in generale abbia svolto un ruolo così significativo nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Così come non è un caso che in questa nostra epoca della «riproducibilità tecnica» lo sviluppo tecnologico abbia sottoposto l’evento sportivo ad una sorta di vivisezione in cui persino il più microscopico movimento può e deve essere colto, studiato, programmato e riprodotto: si pensi alla moltiplicazione delle telecamere in campo, che consentono di catturare, di amplificare e di ripetere all’infinito ogni azione, fermando addirittura lo scorrere dell’immagine su ogni singolo fotogramma; ma anche al fatto che le squadre di calcio di un certo livello possiedono dei database in cui vengono archiviate non soltanto la parabola di sviluppo delle prestazioni tecnico-atletiche di ciascuno dei propri calciatori (abilità e velocità di esecuzione col piede destro, col piede sinistro, di testa, ecc.), ma anche dei giocatori di tutto il mondo, sì che è possibile calcolare, con un ampio margine di probabilità, come ciascun calciatore tirerà il calcio di rigore. In fondo, una sfera in movimento è un evento puramente fisico e quindi non è difficile determinare i modi e gli angoli in cui va colpita per imprimerle determinate traiettorie e velocità. Anche in questo senso, non sorprende che da poco ci sia un programma televisivo in cui un giornalista e un presunto scienziato riproducono le azioni di calcio enunciando le leggi fisiche che le hanno rese possibili.
Eppure, malgrado sia un gioco con regole precise, il calcio si sottrae ad una completa riduzione a quella logica dell’ottimizzazione del prodotto, e quindi della riproducibilità, dominante in ogni ambito della vita contemporanea. Se non altro perché in quanto gioco vi regna anche un elemento di casualità e instabilità: non è possibile prevedere in anticipo ogni rimpallo del sfera; se sarà fedele ai designi del suo esecutore o andrà a sbattere contro un altro giocatore; se questi la colpirà di testa o essa finirà per sfiorargli soltanto la schiena e cambierà improvvisamente traiettoria, lasciando un avversario da solo davanti alla propria porta. Del resto, è anche questa casualità a segnare il divenir “terrestre” della sfera. Da Parmenide in poi simbolo di ogni perfezione, religiosa o metafisica, la sfera abbandona qui il suo astrale moto circolare, uniforme, etereo, depone dunque la sua statica e celeste perfezione, e diventa soltanto “palla” vagante, feticcio che striscia e rotola su un rettangolo erboso, spinta da «quanto più indisciplinato e animalesco esista», i piedi. Questo destino di aleatorietà a cui la palla irrimediabilmente consegna giocatori e spettatori è senz’altro elemento irriproducibile. Le capricciose carambole del pallone, le sue insensibili traiettorie o collisioni, immergono nell’allure di un universo avvolto ancora dalla magia; talvolta indecifrabile e minaccioso, talvolta generoso e prodigo.
Ma tale universo non è segnato solo dal caso; qui può anche capitare che la magia o l’audacia inattesi di un giocatore consentano per una volta di burlare gli dei, di strappare clandestinamente i loro segreti. È questo senz’altro uno degli elementi di maggior fascino del calcio. Lo squarcio improvviso delle regole fisiche e degli schemi tattici è anche ciò che lo rende irriducibile a pura tecnica e dunque impossibile da formalizzare e da ottimizzare fino in fondo. Non solo. È nel gesto gratuito, incontrollabile e baldo del fuoriclasse che il gioco mostra il suo lato per così dire “escatologico”, il suo essere una sorta di in-stare che indica, per un istante, un mondo altro; perché sospende, come diceva Rilke, «nello spazio/ intermedio che da principio/ fondato fu per un evento puro».
Se come diceva Eugen Fink il gioco è interruzione di quel «peregrinare senza sosta» cui è trascinato l’uomo, il gesto di colui che crea con il pallone tra i piedi è la quintessenza di tale sospensione, di questa estasi in cui, seppure per un attimo, egli attinge l’originario. Per questo, forse, il calcio, più di ogni altra espressione della vita sociale, riesce ad accendere entusiasmi e ad alimentare sogni, a raccontare storie e a sublimare tristezze. È infatti grazie a questo ardimento dell’eroe dai piedi vellutati e dalla sfrontatezza infantile che il calcio non smette di produrre, ogni domenica, ad ogni partita, una vecchia nuova narrazione. In questo senso, il calcio è uno degli ultimi serbatoio di archetipi in questa nostra epoca della riproducibilità tecnica.
Se è vero, come diceva Pasolini, che il football è un linguaggio, un sistema di segni fatto di unità minime fondamentali, che sono i podemi – così come le unità minime del linguaggio sono i fonemi –, le cui combinazioni formano le «parole calcistiche», vi è all’interno di quel vero e proprio discorso drammatico, che è la partita, un gesto in grado di articolare grammatica e sintassi, dando origine a geniali creazioni poetiche. È qui che ha inizio una storia: può essere un tunnel o un sombrerito; magari una rabona, una sforbiciata dentro l’area, oppure l’intramontabile dribbling. E tutte le geometrie e le combinazioni di significato esistenti si sfaldano; il nuovo e l’inatteso irrompono sul prato verde, sospendendo per un istante l’inesorabile regolarità e necessità delle leggi naturali ed indicando un altro mondo possibile. Sono le scintille di questo mondo di grazia ciò che balena ad ogni urlo e ad ogni sincope collettiva per una palla finita in fondo alla rete o per un insolente pallonetto.
Come ha scritto Edilberto Coutiño: «…il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno». Un gol di Garrincha, una rovesciata di Pelé, un assolo danzante a centro campo di Zidane, rimangono per sempre; perché ciò da cui siamo rapiti è il “gesto”, puro gesto privo di scopo, spoglio, gesto che muove contro se stesso ed è, appunto per questo, liberatorio. Chi potrà mai scordare il secondo gol di Maradona contro l’Inghilterra nei mondiali messicani dell’86? I suoi ricci neri, il suo sinistro che riceve e accarezza timidamente il pallone, facendolo scivolare sul destro e poi di nuovo sul sinistro e danzando su se stesso come in una milonga arrabalera e la sua corsa memorabile, che scarta prima uno e poi due e poi un terzo, rientrando col sinistro verso l’interno e poi ancora un quarto, e infine dribbla il portiere trascinandosi la palla e scagliandola catarticamente in fondo alla rete. Quel gol è già una storia. La storia di un intero paese che ha trattenuto il respiro per quindici secondi, che ha soffiato la palla, che ha spinto fremente il proprio eroe e che ad ogni inglese, caduto a terra e burlato dai piedi magici di un birboncello sregolato, ha gioito per una vittoria che andava a risarcire, seppure per un attimo, per uno scippo lontano ma mai dimenticato.
Ecco, Maradona, più di chiunque altro nella storia del calcio, è l’incatturabilità di un gesto che non potrà mai essere riprodotto; non importa quante telecamere si mettano sul campo da gioco, non importa quanti replay, quanti ralenti, quante moviole o quante angolature diverse si chiamino in causa; non importa quanti studi di biodinamica si facciano sul suo corpo e sulla sua struttura muscolare. Perché ciò che non può essere catturato è appunto il luogo sorgivo di quel gesto in grado di trasformare il rumore in segnale, appropriandosi delle leggi che governano la dinamica causale e imprimendo su di esse un senso nuovo. È in questo senso, allora, che il calcio non si può imparare; come secondo Kant non si poteva imparare la filosofia. Perché irriproducibile, nella sua essenza più intima. Sospeso tra l’aleatorietà di un destino di fronte a cui si è inermi e l’impudenza di un gesto che nella sua assoluta gratuità rapisce e distoglie dalle regole causali e dai capricci del caso, il calcio è come la vita. Ma la vita non può essere imparata. La vita si vive. Se non altro ogni domenica, non appena la palla inizia a rotolare.