I primi furono i Lumiérè: «Il cinema è un’invenzione senza futuro»; poi Rossellini: «Il cinema è morto»; di seguito arrivarono via via molti altri, in una sequenza di nomi e argomentazioni diversissime tra loro. La storia del cinema è scandita da annunci che ne decretano, in un modo o nell’altro, in una forma o nell’altra, la fine. Fine di cosa? Di molte cose, ascoltando bene i discorsi che vengono fatti. La fine del cinema come forma espressiva capace di evolversi, la fine del cinema come luogo principe di elaborazione dell’immagine nella contemporaneità, la fine del cinema (e in questo caso anche della sala cinematografica) come luogo centrale nella formazione dell’immaginario, dello sguardo appassionato o critico, sul mondo. Tuttavia, forse mai come negli ultimi anni la parola “fine” (legata al cinema) è comparsa di più sulla bocca di teorici, critici, registi, addetti ai lavori. E forse mai come negli ultimi anni si è assistito ad un consumo più ampio e diffuso di cinema, di immagini e frammenti, di film e discorsi legati in qualche modo al cinema.
Il cinema è dappertutto, nei discorsi come nelle immagini che scandiscono l’esistenza contemporanea, nei dispositivi tecnologici che ci accompagnano, nel flusso continuo di schermi e immagini che ridisegnano la topografia dei nostri paesaggi. Ma è un cinema dissolto, forse, disseminato sotto forma di citazione, frammento, scheggia, a volte parodia. Per alcuni, infatti, si tratta di un cinema che sempre meno è capace di mantenere i suoi codici rituali, la centralità della sala come tempio di una liturgia dello spettacolo, come visione collettiva, in grado di porsi come spazio comune, pubblico e privato al tempo stesso. Eppure mai come negli ultimi anni si è assistito ad una moltiplicazione degli spazi dedicati al cinema, dalle nuove forme festivaliere che hanno letteralmente ricoperto i territori di eventi, rassegne, festival, incontri, all’esplosione di testate e spazi telematici dedicati al cinema, ufficiali e non (blog, social network, webzine, ecc.), fino all’aumento esponenziale di insegnamenti riconducibili al cinema all’interno degli spazi accademici, delle università e delle scuole di formazione. Il cinema è finito? Eppure ogni anno aumentano il numero degli esordi cinematografici, dei lavori semiprofessionali, dei tentativi di dare luogo ad una forma di racconto attraverso l’immagine-movimento, sia pure per mezzo della videocamera di un telefono cellulare. Il cinema è finito? o è dappertutto?
Interrogativi aperti questi, a cui non è facile dare una risposta definitiva, ma a cui però occorre sempre fare riferimento. Sì, perché il cinema è sempre più un luogo dell’interrogazione, un luogo disperso in cui convivono forme difficilmente assimilabili l’una all’altra. Questo spazio può dunque diventare un momento costante di interrogazione delle forme, delle tendenze, delle trasformazioni che il cinema subisce e mette in atto ogni volta, lavorando sui suoi confini, sulle sue fini annunciate o presunte, sulle sue metamorfosi radicali. Allo stesso tempo, questo spazio può diventare l’occasione per interrogare nuovamente il cinema, le sue forme e la sua storia, rintracciandone momenti dimenticati, frammenti dispersi, autori piombati nell’oblio. Ancora una volta, l’obiettivo non è quello di celebrare una storia “museale” del cinema, ma, al contrario, riaprirla, mostrare le connessione tra le immagini a prescindere dal tempo in cui furono create. Più tempi che si incrociano, è questo il contesto di una tale rubrica. Ogni volta un singolo percorso può essere un tentativo di risposta parziale a questi interrogativi molteplici, un modo per riflettere su un mondo (quello del cinema, ma non solo) in continuo cambiamento, a partire dall’annuncio problematico della sua fine (The End).
Da dove cominciare? Forse proprio dalle forme limite che abitano lo scenario più visibile del cinema contemporaneo. Una prima idea di limite del cinema, di fine intesa come superamento del linguaggio specifico del cinema, sta, da un punto di vista teorico, nel fatto che il cinema debba avere sempre a che fare con un “reale” di cui si nutre, che costituisce il punto di partenza di ogni immagine. Il cinema è «impronta» del reale, affermava uno dei teorici e critici più importanti della seconda metà del secolo scorso, André Bazin (da rileggere, per la sua continua attualità il famoso saggio del critico francese, Ontologia dell’immagine fotografica). Dunque il cinema non può non lavorare sui corpi, sui luoghi, sulla materia del mondo, pena la sua astrazione, il suo non poter essere più cinema. Da qui l’interdetto che da sempre pesa sul cinema d’animazione: una forma come l’animazione (come l’animazione contemporanea, intesa cioè nel senso di una creazione totale di una realtà) è considerabile come una possibilità del cinema oppure no, visto che la sua narrazione si basa sulla creazione ex novo di un mondo immaginato, anziché sulla sua riproduzione analogica? Eppure mai come oggi lo sviluppo delle tecnologie di produzione dell’immagine ha portato in primo piano il problema di un’immagine ricreata artificialmente, basata sul principio che la realtà non è ciò che si dispiega di fronte all’occhio della macchina da presa, ma ciò che si può simulare, inventare completamente, simulare. Gran parte del cinema contemporaneo lavora ormai assimilando al suo interno le nuove tecnologie, creando e costruendo mondi e corpi altrimenti inesistenti (dai movimenti impossibili dei corpi nella trilogia di Matrix, all’esistenza puramente artificiale di personaggi come Hulk di Ang Lee, fino alla costruzione di un intero film attraverso la tecnologia di un’immagine generata al computer – CGI – in Final Fantasy di Sakaguchi Hironobu).
Il cinema allora, se seguiamo la prospettiva baziniana, sembrerebbe ritrarsi di fronte all’avanzare massiccio e inesorabile di un’immagine ibrida, rappresentazione minacciosa di una “fine”, appunto, del cinema stesso. È proprio così? L’immagine artificiale che attraversa costantemente le forme cinematografiche decreta, usando toni apocalittici, l’esaurimento della visione baziniana? Si potrebbe analizzare il discorso da un’altra prospettiva, in cui le nuove frontiere dell’animazione e dell’immagine non più semplicemente analogica, ma sempre più prepotentemente sintetica, non si configurano come qualcosa di completamente nuovo nello scenario attuale, ma come rielaborazione contemporanea di qualcosa che appartiene da sempre al cinema stesso, o meglio, alle immagini che esso produce. In un mondo di immagini sempre più ibride, sempre più capaci di fondere insieme forme e modelli differenti, il cinema sembra riattivare le sue origini, rievocare un potere originario che per decenni sembrava dimenticato. Alla sua nascita, infatti, il cinema non raccontava storie, non lavorava sui generi, non costruiva immagini di divi e dive, non riattivava i topoi più antichi del narrare in forme sempre mutevoli e affascinanti, ma era semplicemente (e quanta complessità c’è in quel “semplicemente”) “meraviglia”, occasione di stupore di fronte ad un mondo che semplicemente si apriva davanti agli occhi dei nuovi spettatori, che lo vedevano avvicinarsi tremolante, grigio e spettrale, ma, in ogni caso, in movimento.
Il cinema è stato, all’origine, un “cinema-attrazione” (come spiega tra l’altro André Goudreault in un suo recente saggio, Cinema delle origini), una forma che attraeva (e spaventava), che destava quella meraviglia e quello stupore tipici dell’infanzia. Esso non raccontava, ma mostrava; mostrava per la prima volta il mondo in movimento, fosse anche solo attraverso una mamma che allatta il suo bambino o un treno che arriva in una piccola stazione di provincia. La realtà è, al cinema, immediatamente straordinaria, e l’attrazione del cinema consiste anche in questo, nel grande dispositivo spettacolare che esso mette in gioco. Di più. Se la realtà è fonte di meraviglia nelle immagini di Lumière o Edison, essa può essere trasfigurata in una immagine visionaria e fantastica, che improvvisamente rende possibile ogni cosa, dirà allora Méliès, facendo apparire e scomparire uomini, cose e animali, moltiplicare corpi e lavorare sul sogno, sul delirio e la fantasia più allucinata. Se Lumière, nella celebre definizione di Godard, ritrova lo straordinario nell’ordinario, Mèliès rende ordinario lo straordinario, possibile l’impossibile. In entrambi i casi lo sguardo dello spettatore si carica di meraviglia di fronte al potere della nuova immagine.
Strano corto circuito si può allora attivare. Forse è inutile continuare a guardare le nuove immagini ibride, frutto di nuove tecnologie, come l’irruzione di qualcosa che trasforma completamente il cinema così come l’abbiamo conosciuto sinora. Forse è inutile, perché la nuova immagine ibrida è straordinariamente simile alle immagini ibride del cinema delle origini, al cinema-spettacolo-di-magia di Méliès, o anche allo stupore di fronte al muoversi delle foglie di un albero in una anonima “veduta” dei Lumière. La forza delle nuove forme dell’animazione digitale sta nella capacità di riattivare quella meraviglia originaria (ma che in fondo appartiene da sempre al cinema, come anche la sua ossessione del reale), di presentarsi ancora una volta come se lo spettacolo fosse pronto a ricominciare di nuovo.
Un corto circuito dunque, che mostra una delle tante connessioni interne alla storia del cinema, una storia tutt’altro che lineare, tutt’altro che progressiva, tutt’altro che conclusa. Lavorare sulla fine significa allora interrogarsi, come si diceva all’inizio, su che cosa veramente, finisce. E sulla possibilità di ricominciare da capo. Come vedremo di appuntamento in appuntamento. The End.
Daniele Dottorini, insegna Istituzioni di Cinema presso l’Università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Filmare dall’abisso. Il cinema di James Cameron, (Edizioni ETS, Pisa 2013), Jean Renoir. L’inquietudine del reale, (Ente dello spettacolo, Roma 2007), David Lynch. Il cinema del sentire, (Le Mani Editore, Recco, Genova, 2004).